Professional Documents
Culture Documents
1
In C. Casanova, Note sulla cultura a Ravenna nel Settecento, estratto degli «Atti della Accademia delle
Scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali. Anno 73. Rendiconti. Vol. LXVII, 1978-
1979», Bologna 1979, al cap. 2, «Giovanni Cristofano Amaduzzi. Un allievo della scuola riminese di
Giovanni Bianchi a Roma», si legge (p. 12) che «il rilievo che molti degli scolari di Giovanni Bianchi
assunsero nella seconda metà del ‘700 [...] conferma la necessità di uno studio approfondito
sull’ambiente riminese, in gran parte ancora da fare, che consentirebbe di motivare meglio una
valutazione della cultura locale altrimenti generica e approssimativa».
2
Cito dall’ed. Garbo, Venezia 1778, delle Lettere interessanti, pp. 115-116.
3
Cfr. A. Montanari, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga». Documenti
inediti, «Romagna arte e storia», 49, 1997, pp. 61-62.
4
Cfr. la lettera ad Aurelio De’ Giorgi Bertòla del 24 gennaio 1776, Manoscritti n. 4, Biblioteca
Amaduzziana, Accademia dei Filopatridi [BFSA], Savignano sul Rubicone.
5
Su queste lettere cfr. A. Montanari, Lumi di Romagna, Rimini 19932, «Monsieur l’Abbé, carissimo
Fratello», pp. 103-106.
PAG. 2
A. MONTANARI, AMADUZZI ILLUMINISTA
6
Cfr. G. C. Amaduzzi, Manoscritti n. 33, c. 35, BFSA: questo documento è stato già presentato in A.
Montanari, I compiti del giovane Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco, «Notiziario
dell’Accademia dei Filopatridi», 3-4, 1993; e «Riminilibri», 5, marzo 1994.
7
Cfr. G. C. Amaduzzi, Elogio di Monsig. Giovanni Bianchi di Rimino, apparso anonimo sull’«Antologia
romana», tomo II, 1776, pp. 227-229, 235-239.
8
Il testo è in G. Gasperoni, Settecento italiano (Contributo alla storia della cultura), I. L’ab. Giovanni
Cristoforo Amaduzzi, Padova 1941, pp. 319-343. Il brano cit. è alle pp. 325-326.
9
Si tratta di questi testi, sui quali ritorneremo: Sul fine ed utilità dell’Accademie (Torchi
dell’Enciclopedia, Livorno 1777), La Filosofia alleata della Religione (ibid., 1778), e Dell’indole della
Verità, e delle Opinioni (Pazzini Carli, Siena 1786).
PAG. 3
A. MONTANARI, AMADUZZI ILLUMINISTA
10
«Le insinuazioni domestiche a serbare in ogni azione la verità e la schiettezza, qual patrimonio di
casa, e qual marca d’onore, trovarono la più volontaria accettazione nel mio cuore quasi come loro
sede»: cfr. Rimostranza, nel cit. Gasperoni, Settecento italiano, p. 325.
11
Cfr. G. Natali, Il Settecento. Ristampa della sesta edizione riveduta e aggiornata con supplemento
bibliografico (1964-1971) a cura di A. Vallone, Milano 1973, p. 269. (Nell’ed. Milano 1929, cfr. pp.
302-303.) Qui Amaduzzi è detto «intrepido campione nella lotta antigesuitica» ed uomo «di vivido
ingegno e di varia dottrina».
12
In Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Amaduzzi G. C. [FGMR, AGC], Biblioteca
Gambalunga di Rimini [BGR], sono conservate dodici lettere (1775-1778) di Amaduzzi al nipote di
Planco, dottor Girolamo Bianchi: alcune contengono, come leggiamo nella prima (9 dicembre 1775),
la richiesta di ricercare tutte le sue missive inviate allo zio «quasi ogni settimana», dal maggio 1762
«sino al tempo presente». Nel Fondo Gambetti, Lettere autografe al dottor G. Bianchi [FGLB], ad
vocem, BGR, di questo immenso carteggio, sono conservati soltanto diciotto esemplari, contro le 984
epistole di Bianchi ad Amaduzzi custodite in BFSA: cfr. G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle
Biblioteche d’Italia, I, Forlì 1890, p. 104.
13
Sugli scolari di Bianchi, oltre ad A. Montanari, Nei «ripostigli della buona Filosofia». Nuovo pensiero
scientifico e censure ecclesiastiche nella Rimini del sec. XVIII, «Romagna arte e storia», 64, 2001, p.
48, nota 41; cfr. Id., L’Accademia dei Lincei riminesi (1745). Breve storia con in appendice una
biografia del suo Restitutore Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), Rimini 2002, pp. 32-40
(Biblioteca Malatestiana Cesena, segn. OPROM Mon Ant 16).
14
Copia autografa si conserva in FGMR, AGC.
PAG. 4
A. MONTANARI, AMADUZZI ILLUMINISTA
teoremi della morale, le cortesie della società, la schiettezza del suo presentaneo
sentimento, l’onoratezza del procedere, l’inclinazione al beneficare, e lo spirito di carità
verso i poveri».
Nella sua «pittura veridica» di Bianchi, infine Amaduzzi osserva che «in mezzo ai
naturali difetti di un fervido temperamento» il suo maestro aveva «avuto il dono del più
sublime ingegno, per cui ha potuto far epoca nella Storia naturale, e nella Notomia, e fare
l’ornamento di Rimino, dell’Italia, e di tutta la letteraria Repubblica». E concludeva: «Io ho
perduto il Precettore, e l’Amico» (15 ).
Questo elogio inviato a Bertòla è del 3 gennaio 1776. Il 9 dicembre 1775 (Planco era
scomparso il giorno 3 dello stesso mese), Amaduzzi scrivendo al nipote di Bianchi, dottor
Girolamo (16), dichiarava del di lui zio: «Io non mi crederò mai dispensato dall’obbligo di
rimostrargli anche dopo morte in tutte le occasioni la mia riconoscenza, e la mia
venerazione».
I due termini «riconoscenza» e «venerazione» sono più espressioni intellettuali e
morali che semplice atteggiamento sentimentale: essi ci portano a valutare come basilare
nell’esperienza di Amaduzzi sia l’iniziale frequentazione della scuola planchiana, sia il
successivo, ininterrotto magistero che continuò da parte di Bianchi per mezzo epistolare o
negli incontri personali (17). Già nel 1768 in una lettera diretta allo stesso Planco, e
pubblicata nella Miscellanea di varia Letteratura di Lucca (18), Amaduzzi ha ricordato
«humanitas», «comitas», e «benevolentia» dimostrategli dal maestro. Nel 1770 ha confidato a
Bianchi di restare affezionatissimo a lui, che dimostrava animo «cortese, ed amorevole»
verso la sua persona (19).
Gli anni trascorsi nella scuola riminese proiettano una loro nitida luce in quelli
successivi della vita d’Amaduzzi; contribuiscono cioè a rafforzare la sua capacità
intellettuale, fornendole (fortunatamente) anche quegli anticorpi con cui reagire agli
aspetti meno convincenti di un insegnamento che, se in taluni momenti piegò verso il
dogmatismo dell’erudizione «oratoria o all’antica» (20), in molti altri invece ebbe come prima
caratteristica l’invito alla curiosità, all’aggiornamento, al commercio epistolare ed
intellettuale, secondo i canoni di quella parte della società settecentesca che tendeva più al
rinnovamento che alla conservazione.
Amaduzzi in età matura compie un ripensamento dell’educazione ricevuta,
sviluppando gli strumenti che aveva appreso alla scuola planchiana. Egli non vuole stilare
un onesto ed imparziale bilancio di lati positivi e negativi d’una personalità vivace,
contradditoria ed anche inquieta come fu quella di Planco. Cerca piuttosto di rintracciare il
sottile filo dialettico esistente nella trama di ogni proficua pedagogia, sul quale misurare se
stesso. In Amaduzzi, come in altri suoi contemporanei, opera il convincimento che
l’esperienza individuale e la storia collettiva siano un processo attraverso cui le novità
maturano con la riflessione sulle idee ricevute, e con il loro superamento. Così, ci si obbliga a
rimeditare daccapo ogni aspetto della vita, della conoscenza scientifica, della politica, del
pensiero. Così, si mira ad un mutamento rispetto allo status quo, con quel desiderio che gli
15
Nella lettera a Bertòla, Amaduzzi scrive anche: «Perfine furono coronati gli ultimi anni della sua
gloriosa vita dalla bella considerazione, che a mia petizione a lui del tutto incognita, si compiacque a
fare della sua virtù, e della sua celebrità l’immortale Clemente XIV, la di cui memoria desterà
sempre nel mio cuore la più tenera sensibilità, e la più alta ammirazione nella mente. Egli il dichiarò
uno de’ custodi della sua salute, onde per Archiatro segreto onorario Pontificio fu indi riconosciuto,
ed in tale occasione interpose pure quel gran Pontefice l’autorevole, e generosa sua mediazione
perché la Patria il consueto onorario gli perpetuasse, ed insieme glielo duplicasse, come infatti
seguì».
16
Si tratta della lettera del 9 dicembre 1775.
17
Nel 1766 Bianchi, compiendo un tour a Loreto, Assisi, Perugia, Todi, Napoli, Siena, Firenze e Bologna,
si fermò a Roma dove conobbe l’abate Johann Joachim Winckelman, come Amaduzzi ricorda l’anno
successivo nelle «Novelle letterarie» (cfr. tomo XXVIII, n. 34, 21 agosto 1767, coll. 531-534:
Amaduzzi dal 1766 è assiduo collaboratore del foglio fiorentino, seguendo l’esempio del maestro). Su
questo soggiorno romano di Planco, cfr i suoi citt. Viaggi 1740-1774, ad annum; ed uno scritto
amaduzziano di archeologia, apparso in «Miscellanea di varia Letteratura» di Lucca, tomo VII, 1768
(p. 175).
18
Cfr. il cit. tomo VII, p. 129.
19
Cfr. lettera del 21 febbraio 1770, FGLB.
20
Cfr. E. Raimondi, I lumi dell’erudizione. Saggi sul Settecento italiano, Milano 1989, cap. «Ragione ed
erudizione nell’opera di Muratori», pp. 79-97 (ripubblicato in Id., I sentieri del lettore. II, Dal
Seicento all’Ottocento, Bologna 1994, pp. 133-150). Raimondi, sulla scia di L. A. Muratori,
contrappone ad un’erudizione «oratoria o all’antica», quella «di gusto moderno, sul tipo scientifico,
[...] legata allo spirito critico e nutrita di ragione moderna».
PAG. 5
A. MONTANARI, AMADUZZI ILLUMINISTA
intellettuali nati attorno alla metà del Settecento assorbono dallo spirito del tempo e dagli
umori della nuova cultura (21).
All’esperienza vissuta nel liceo di Bianchi, si può collegare un passo del terzo
«discorso», intitolato Dell’indole della Verità, e delle Opinioni (1786), dove Amaduzzi
polemizza con l’antico maestro, quasi a volere insinuare che Planco nulla avesse compreso
delle teorie di Newton (22). Amaduzzi colpisce nel segno, segnalando un metodo filosofico
non troppo rigoroso, già sottolineato nell’articolo commemorativo dell’«Antologia romana».
Vent’anni prima, nel 1766, un altro solenne rimprovero era giunto a Planco da
Pietro Verri, a proposito di uno scritto del medico riminese contro l’inoculazione del vaiolo
(23). Bianchi aveva commesso un errore epistemologico che rispecchia l’esperienza
culturale del primo Settecento, e che ci è confermato in una sua lettera indirizzata a
Giovanni Lami (24), dove «la quistione dell’innoculazione» è inserita tra le «cose letterarie» da
discutere, magari nel «miglior latino», con il quale mandare «al diavolo tutti i pretesi calcoli
[...] e tutte le altre ragioni sofistiche de’ fautori dell’innoculazione, giacché tutti costoro non
sono filosofi e meno medici, ma sono sfaccendati [...]». Planco tuttavia, e lo apprendiamo
proprio da Amaduzzi, cede «in appresso all’evidenza del buon esito» dell’innesto del vaiolo,
«con quel candore, e coraggio, che suole ispirare l’amore della verità nei cuori degli uomini
grandi» (25).
Anche quest’intervento a difesa di Bianchi, se da un canto dimostra altrettanto
amore per la verità nel comportamento del savignanese (26 ), dall’altro testimonia un affetto
(onesto e non di convenienza) verso quel «chiarissimo, e benemerito Precettore, per la cui
istituzione, ed addottrinamento io son divenuto non affatto indegno» della nomina a
sopraintendente della Stamperia di Propaganda Fide» (27): così Amaduzzi scrive a Bianchi il
10 febbraio 1770, quando la sua carriera pubblica, grazie all’antico maestro ed a papa
Ganganelli, ha una nuova promozione dopo che era stato fatto l’anno precedente Lettore di
Greco alla Sapienza.
Appena giunto a Roma, Amaduzzi informa Bianchi sullo stato delle cose politiche,
dimostrandosi osservatore informato e mai superficiale nelle notizie che compila. Il 30
ottobre 1762, ad esempio, «circa alle cose di Napoli» gli riferisce di un «breve» inviato dal
papa «a Sua Maestà Cattolica, acciò come Padre si volesse interporre appresso il Figlio, acciò
non inquietasse la Santa Sede con indebite pretensioni». Il re di Napoli Ferdinando IV
(futuro marito di Maria Carolina, figlia di Maria Teresa), sollecitato dal padre Carlo VII
imperatore di Spagna, ha così «pubblicato un Editto, in cui dichiara, che intorno alla terza
parte de’ Beni Ecclesiastici, che sono in quel Regno, da dispensarsi ai Poveri, Egli ha
solamente inteso di esortare, ma non di sforzare alcuno» (28).
Negli anni iniziali del soggiorno romano di Amaduzzi, la vita dello Stato della Chiesa
è caratterizzata da forti difficoltà economiche e da una grave carestia che si sviluppa tra
1764 e 1766. Dopo che in incognito si è diminuito il peso della pagnotta senza abbassarne il
prezzo (racconta l’abate Gabriel François Coyer), la reazione popolare costringe l’Annona a
ritornare alla vecchia misura: mentre il papa «versant des larmes paternelles sur l’affliction
de ses enfants» dice «ces paroles édifiantes: ‘pregheremo il Dio, faremo processioni’» (29).
21
Della differenza culturale che passa fra la generazione di Amaduzzi e quella di Bianchi, ci rendiamo
conto esaminando i sette compiti svolti dal savignanese alla scuola planchiana: cfr. il cit. Nei
«ripostigli della buona Filosofia», p. 49.
22
La cit. è tolta da p. 51. Cfr. la mia Appendice all’ed. an. del «discorso» amaduzziano La Filosofia alleata
della Religione, Rimini 1993, pp. 58-59. (Su tale ed., cfr. la mia Dissertazione nel «Quaderno XVII
dell’Accademia dei Filopatridi», Savignano 1995, pp. 119-126.) Nel saggio di M. Ceresa, Una
biblioteca nella Rivoluzione, «Due Papi per Cesena. Pio VI e Pio VII nei documenti della Piancastelli e
della Malatestiana» (a cura di P. Errani), Bologna 1999, p. 216, si legge che Pio VI possedeva «una
sola opera, un opuscolo, di Giovanni Cristofano Amaduzzi», secondo quanto emerge da un Catalogo
conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Grazie alla cortesia dello stesso dottor Massimo
Ceresa, dell’Apostolica Vaticana medesima, ho potuto apprendere che l’opuscolo cit. è il Discorso
dell’indole della Verità, e delle Opinioni. (Circa le opere di Newton presenti della biblioteca
planchiana, cfr. il cit. Nei «ripostigli della buona Filosofia», p. 41.)
23
Cfr. «Il Caffè», 1764-1766, Torino 1998, p. 770.
24
Cfr. B. Fadda, L’innesto del vaiolo, Milano 1983, p. 192-193.
25
Cfr. A. Montanari, Le Notti di Bertòla, Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Rimini
1998, p. 75, nota 85. Sul pensiero di Bertòla (oltre il cit. Nei «ripostigli della buona Filosofia»,
passim), si veda l’approfondita ed attenta Introduzione del prof. Fabrizio Lomonaco alla sua Filosofia
della storia (1787), Napoli 2002, I-LXXVI.
26
Nel suo terzo «discorso» Dell’indole della Verità, e delle Opinioni, Amaduzzi definisce la bugia «sempre
un segno di viltà, e di miseria» (p. 29).
27
La lettera è nel cit. FGMR, AGC.
28
Cfr. in FGLB, ad vocem.
29
Cfr. F. Venturi, Elementi e tentativi di riforme nello Stato pontificio del Settecento, «Rivista Storica
Italiana», LXXV (1968), p. 789.
PAG. 6
A. MONTANARI, AMADUZZI ILLUMINISTA
30
Ibid., p. 790.
31
Cfr. G. Capobelli, Commentari delle cose accadute nella Città di Rimino e in altri luoghi, BGR, SC-MS.
306, pp. 36, 233.
32
Cfr. Venturi, Elementi..., cit., pp. 790-791.
33
Cfr. A. Montanari, Una fame da morire, Carestia a Rimini 1765-1768, «Pagine di Storia & Storie», V,
11, supplemento a «Il Ponte», Settimanale cattolico riminese, XXIV (1999), 11, pp. 1-8; e cfr. Id., Il
pane del povero. L’Annona frumentaria riminese nel sec. XVIII, «Romagna, arte e storia», 56, 1999,
pp. 5-26.
34
Cfr. Venturi, Elementi..., cit., pp. 790-791.
35
Cfr. M. Rosa, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, Venezia 1999, pp. 160-
164 e 176-178. Qui riprende le considerazioni già presentate nella sua Introduzione all’Aufklärung
cattolica in Italia, «Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano», a cura dello stesso Rosa, Roma 1981,
pp. 1-47.
PAG. 7
A. MONTANARI, AMADUZZI ILLUMINISTA
degli antigesuiti. L’allievo ascolta il maestro. I rapporti fra Amaduzzi e Bottari sono
frequenti e cordiali (36).
Bottari il 2 maggio 1761 ha confidato ad un suo corrispondente (37): «Al presente si
incontrano tante difficoltà e si moltiplicano le leggi e le proibizioni dello stampare, e del far
venire libri, che gli stampatori e i Libraj o bisogna che mutino mestiero o che si
sottopongano a cadere in pene pecuniarie, e corporali, ed anche infami. Molte vessazioni
sono state fatte, e si fanno a chi compone libri, i quali potrebbe esser che non si
stampassero. [...] Certi Frati che amano il Mondo ignorante, e così lo desiderano, e che
dominano ora molto in Roma, sono motori di questa persecuzione, simile a quelle di Giuliano
l’Apostata».
Clero riformatore e filogiansenisti ora s’impegnano non più sull’impraticabile
terreno dottrinario ma su quello politico, collaborando con i sovrani ed aderendo alle teorie
giurisdizionalistiche (38) che riconoscono ai sovrani il diritto d’intervenire nella
organizzazione interna e nelle questioni disciplinari della Chiesa. Al proposito merita una
citazione la frase indirizzata da Amaduzzi allo scienziato pavese Gregorio Fontana: «Dio si
serva del risentimento de’ principi laici per promuovere e maturare la necessaria riforma
della Chiesa, che non è sperabile d’avere dalla spontanea deliberazione dell’odierno
regnante sacerdozio» (39).
In queste parole si proietta lo spirito del «Circolo dell’Archetto» fondato nel 1749 a
palazzo Corsini da Bottari il quale fu «animatore di quel partito antigesuita, filogiansenista,
filoilluminista, che colse qualche successo e non pochi consensi, pure nelle alte gerarchie
curiali, contribuendo fra l’altro alla creazione di quel clima che portò poi, insieme a
determinanti fattori internazionali, alla soppressione dell’Ordine dei Gesuiti»: la cultura
religiosa del «Circolo dell’Archetto» anche in seguito «costituì di fatto un’alleanza oggettiva
degli altrettanto variegati schieramenti riformisti» (40) che si agitavano allora e non
solamente nella città di Pietro.
«I frequentatori dell’Archetto», tra cui troviamo Amaduzzi, secondo Nicolò Rodolico
«non erano Giansenisti, erano sinceramente cattolici, disapprovavano la condotta ostinata
dei Giansenisti, come qualsiasi atto che significasse opposizione al Papato, e che
minacciasse l’unità della Chiesa cattolica, ma essi disapprovavano le condanne e le
persecuzioni»: erano soltanto «cattolici dotti e tolleranti che si adoperavano per la
conciliazione dei Giansenisti col Papato» (41).
Nella Roma di Clemente XIII, Amaduzzi non ha vita facile, a causa delle idee che va
elaborando ed esprimendo. Nel ricordato elogio planchiano diretto a Bertòla, racconta
anche qualcosa della propria esperienza intellettuale romana, come quando scrive di essersi
trovato spesso «nel caso di dover vendicare il sistema Agostiniano per conto delle dottrine
teologiche dai ben noti contrari attacchi». Amaduzzi aggiunge che, giacché era «incerto della
futura» sua sorte, ed era premuroso di non mancare di un presidio, che una volta gli potesse
essere necessario», riputò conveniente accingersi anche agli studi teologici dei quali
successivamente non si sarebbe «mai pentito» nonostante il suo stato «tuttora profano» (42).
In casa Bottari è spesso ospite mons. Scipione De’ Ricci che nel 1780 è nominato
vescovo di Prato e Pistoia. Con lui, Amaduzzi entra in una fitta corrispondenza (43). Agli
occhi di molti, lo rendono sospetto i rapporti che intrattiene con questi ecclesiastici accusati
36
«Alla scuola del Bottari, all’ombra delle mura vaticane», lavora anche «uno dei più cospicui
rappresentanti della seconda generazione dei riformatori cattolici, il romagnolo» Amaduzzi che dalla
propria terra «aveva portato a Roma spirito critico, arguzia ed una certa faziosità, ma non ne aveva
portato la faciloneria ed il gusto dell’improvvisazione»: cfr. P. Berselli Ambri, L’opera di Montesquieu
nel Settecento italiano, Firenze 1960, pp. 54, 60. («Coltissimo e di gran gusto», Amaduzzi, «passionale
come pochi, non sopportava la malafede»: ibid., pp. 58-59.)
37
La lettera è diretta a Gianmaria Mazzucchelli: cfr. Berselli Ambri, op. cit., p. 56.
38
Cfr. S. J. Woolf, La storia politica e sociale, «Storia d’Italia, III, Dal primo Settecento all’Unità», Torino
1973, pp. 105-106.
39
Cfr. ibid., p. 112.
40
Cfr. R. Merolla, Lo Stato della Chiesa, «Letteratura italiana. Storia e geografia. Volume secondo. L’età
moderna. II», Torino 1988, p. 1076.
41
Cfr. N. Rodolico, Gli amici e i tempi di Scipione dei Ricci. Saggio sul Giansenismo italiano, Firenze
1920, pp. 4-5.
42
Il brano qui cit. è di seguito alla parte precedentemente riportata relativa all’«Aristotelico
rancidume».
43
Cfr. A. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, «Il carteggio tra Amaduzzi
e Corilla Olimpica, 1775-1792», a cura di L. Morelli, Firenze 2000, pp. XXVIII-XL.; e M. Trincia
Caffiero, Cultura e religione nel Settecento italiano: Giovanni Cristofano Amaduzzi e Scipione De’
Ricci, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXVIII, 1, Roma 1974, pp. 94-126; e XXX, 2, Roma
1976, pp. 405-437. In quest’ultimo testo, di Amaduzzi si dice che fu «costretto a rifluire su posizioni
minoritarie, spesso di completo isolamento in Roma» (pp. 105-106). In conclusione del suo lavoro,
Trincia Caffiero ribadisce che «alla fine» Amaduzzi fu un personaggio «isolato» (p. 426).
PAG. 8
A. MONTANARI, AMADUZZI ILLUMINISTA
44
Cfr. la sua Orazion funerale in lode di Monsig. Giovanni Bianchi, Venezia 1777, p. XXVIII.
45
Si tratta di un’epistola senza nome del destinatario: cfr. p. 165 della cit. ed. veneziana delle Lettere
interessanti di Ganganelli.
46
Cfr. D. Menozzi, Letture politiche della figura di Gesù nella cultura italiana del Settecento,
«Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano», cit., p. 145.
47
Cfr. Rosa, op. cit., p. 142.
48
Ibid., p. 143.
49
Ibid., p. 148. (Su Gibbon e la cultura storico-politica del secondo Settecento italiano, cfr. la cit.
Introduzione di Lomonaco alla Filosofia della storia di Bertòla, passim.)
50
Ibid., p. 147.
51
Ibid., p. 148.
52
Cfr. Berselli Ambri, op. cit., pp. 58-59, 61.
PAG. 9
A. MONTANARI, AMADUZZI ILLUMINISTA
Va sottolineato anche il ruolo che il Nostro svolge in Arcadia. Qui ebbe come collega
quel Luigi Gonzaga a cui egli dedica il «discorso» sulle Accademie, dichiarando di condividere
le tesi da lui espresse in una dissertazione tenuta nella stessa Arcadia sulla funzione civile
del «letterato» (53). Amaduzzi considera l’Arcadia come la palestra «d’una gara studiosa e
pacifica, cioè d’una sola cospirazione virtuosa, e sia questa diretta al solo bene delle lettere,
ed al piacere della società» (54).
Da queste premesse, La Filosofia alleata della Religione «si muove nel quadro di una
evidente volontà illuministica di trasformazione culturale, sociale e statuale», attribuendo
all’uomo di lettere ed all’uomo di fede una «nuova responsabilità» che trovava «le sue radici
in una religione pura e rafforzata dalla filosofia, pronta ad incontrarsi più strettamente con
la stessa filosofia e a riconoscervi la stessa divina matrice» (55). Ma nel 1779, mutati «i
rapporti di forza in Arcadia, con la sconfitta del partito antigesuitico, e profilatisi i limiti e le
contraddizioni del blando riformismo di Pio VI» (56), il «coraggioso» progetto amaduzziano
deve scontrarsi apertamente con atteggiamenti opposti (57). Intanto nel 1778 Amaduzzi è
stato denunciato all’Inquisizione: lo ha salvato la protezione di padre Giorgi, allora
consultore del Santo Uffizio.
L’ultimo «discorso» del savignanese, Dell’indole della Verità, e delle Opinioni è
recitato in Arcadia il 12 gennaio 1786, con significativa dedica al conte Giovanni Giuseppe
Wilzeck, ministro plenipotenziario d’Austria nel governo della Lombardia, e Gran Maestro
della Gran Loggia Provinciale di Milano, come a dire un nemico sia della Chiesa sia del
Papato (58).
Lo spirito dell’ambiente arcadico («ove regnando la semplicità della natura, e della
campagna, deve naturalmente regnare la verità»); e l’aggancio autobiografico (Amaduzzi si
dichiara «modellato per il più vivo trasporto, e per il più forte genio verso la verità, e quindi
per il più deciso abbominio della doppiezza, e della menzogna»), gli servono come premesse
per trattare il tema davanti «ad incoronati pastori, ed a filosofi illuminati» (59).
Amaduzzi «ribadisce fermamente quell’adesione alla cultura scientifica e
sperimentale e alle scoperte del secolo» già manifestata nel secondo «discorso» (60), di cui ora
sviluppa l’elogio della Filosofia che, «fatta arbitra de’ costumi, delle leggi, e della politica,
pose in trono l’umanità, e la civil tolleranza, diramazioni legittime della Cristiana carità,
rinforzò il patto sociale, abolì i diritti feudali, estinse la disonorante servitù, minorò le
atrocità delle pene, e de’ supplici, e poco mancò, che non facesse rientrare l’uomo ne’ suoi
primi diritti naturali» (61).
Onde evitare che la Storia possa nuovamente precipitare in quelle condizioni da cui
la Filosofia l’ha liberata, Amaduzzi enuncia questo principio: «le verità morali risultano
dall’accordo, o dalla discordanza, che esse serbano coll’interna nostra coscienza», per cui
«una sana ragionata morale» ci farà distinguere «il bene, o il male de’ nostri sentimenti, e
delle nostre operazioni».
«Ciò, che serve a stabilire le verità morali», aggiunge, «è corrispondente a ciò, che
forma le verità politiche: non essendo la politica, che la morale de’ principati, e delle
nazioni». Garantita dall’«esperienza raccolta dall’istoria delle grandi monarchie, e delle ben
regolate repubbliche», ed «emanante dall’etica», una «ragionata verità» politica «entrar dovrà
nella massima di un buon governo» dettando alcune regole fondamentali, come: «prevenire
per mezzo d’una pubblica educazione», «far guerra all’ozio», «togliere di mezzo la mendicità»
(62).
53
Cfr. Menozzi, op. cit., p. 146.
54
Cfr. Rosa, op. cit., p. 179.
55
Ibid.
56
Con il passaggio del potere da Clemente XIV a Pio VI, secondo Trincia Caffiero, op. cit., p. 122, c’è
un’evoluzione nelle posizioni di Amaduzzi, «in un primo tempo favorevoli al Papato nelle sue lotte
con i prìncipi, verso atteggiamenti schiettamente regalisti e anticuriali».
57
Cfr. Rosa, op. cit., pp. 179-180.
58
Anche questa terza orazione mostra chiaramente come «la posizione di Amaduzzi venga sempre
maggiormente scoprendosi nel momento di forza del movimento episcopale-regalista e dell’offensiva
leopoldina e giuseppina nei confronti di Roma, per rimanere però priva di difesa di fronte all’ira
papale e agli attacchi sempre più virulenti dei curialisti, quando comincerà a delinearsi il fallimento
del tentativo ricciano e [...] il riflusso regalista dei sovrani, anche in concomitanza con gli
avvenimenti francesi»: cfr. Trincia Caffiero, op. cit., pp. 409-410.
59
Cfr. Discorso filosofico dell’indole della Verità, e delle Opinioni, cit., pp. 4-5, 7.
60
Cfr. Trincia Caffiero, op. cit., p. 410.
61
Cfr. La Filosofia alleata della Religione, cit., pp. 10-11.
62
Cfr. Discorso filosofico dell’indole della Verità, e delle Opinioni, cit., pp. 26-28.
PAG. 10
A. MONTANARI, AMADUZZI ILLUMINISTA
63
Locke dal 1734 era un autore proibito. La sua riproposta significa per Amaduzzi conciliare i diritti
della ricerca con i doveri del credente: cfr. il cit. Nei «ripostigli della buona Filosofia», pp. 42-43. Sulla
fortuna di Locke nel 1700 e la diffusione del suo pensiero da parte di Amaduzzi, cfr. Montanari,
Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, cit., passim.
64
A pag. 44 di questo stesso «discorso», Amaduzzi parla dell’«originale ignoranza» dell’uomo.
65
Qui Amaduzzi sembra riflettere quel passo della Scienza Nuova di Vico dove si parla dell’importanza
del lavoro filologico per avere la «coscienza del certo», differenziandosi così dal Bertòla della Filosofia
della storia, il quale non si cura di accertare le ragioni degli scrittori del passato «con l’autorità» della
filologia, convinto com’è a priori di un primato dei modelli classici.
66
Cfr. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, cit., p. XXVIII, nota 7.
Pronunciato il terzo «discorso», Amaduzzi scrive a Girolamo Pompei, il 4 febbraio 1786 (Manoscritti
n. 28, BFSA), che ha intenzione di stampare la sua dissertazione, «senza assoggettarla alle
mutilazioni di Frati superstiziosi, e fanatici».
67
Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, Bari 1966, p. 7. Nella Prefazione alla I ed. [1781], Kant ricorda
la «fisiologia dell’intelletto umano (per opera del celebre Locke)» (p. 6). Per altri passi in cui è cit.
Locke, cfr. ad indicem, pp. 764-765.
68
Cfr. I. Kant - B. Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica,
Milano 1996, p. 13.
69
Cfr. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, cit., p. XXXVIII. Si tratta di
una lettera del 12 giugno 1790.
70
Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, II, Milano 1956, p. 377.
PAG. 11