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Allenare i bambini allo sport e alla vita. Riflessioni sullo sport giovanile.

di Vincenzo Prunelli

Un'analisi attenta dello sport del nostro paese rivela un avanzata scientificit nello sviluppo delle qualit tecniche e fisiche, dal bambino alladulto e dalla scoperta del talento fino al suo impiego nella professione sportiva, ma anche una certa povert degli strumenti per formare l'uomo che le utilizza. Lo sport, nella maggior parte dei casi, non ha ancora creato una propria cultura in grado di formare lo sportivo: usa metodi di insegnamento non pi attuali, non ricerca e non sperimenta conoscenze e strumenti atti a scoprire, correggere e sviluppare l'intelligenza, la personalit e il carattere, non rispetta le fasi fisiologiche dello sviluppo e ignora l'influenza delle motivazioni e della partecipazione consapevole. Crede ancora che l'impegno, l'apprendimento e l'adesione siano garantiti dalla promessa del successo o anche solo dall'offerta di gratificazioni immediate. Questo ritardo ci d come risultato del processo formativo uno sportivo incompleto, che non impiega tutte le proprie risorse e non si adatta alle crescenti esigenze dello sport: uno sportivo allenato a tutto, ma non a pensare, proporre e decidere da solo e ad essere responsabile senza dover essere guidato. E non pu essere diversamente. Egli si forma imitando dei modelli ideali copiati dal campione e si deve uniformare a qualit e mezzi di altri, e quindi estranei alle sue qualit e pertanto quasi mai raggiungibili. Ma cos non libero e motivato ad indagare, conoscere e sviluppare i propri talenti.

La concezione positiva dello sport Uno sport in cui prevalgono la cooperazione, la ricerca del gesto tecnico, uno spirito di competizione composto e non lesivo ed il rispetto per lavversario, porta a diventare pi competitivi e a vincere di pi. In questo tipo di sport che noi proponiamo gli allievi si sentono pi sicuri e seguono maggiormente anche il loro maestro. Ci non significa proporre una pratica poco consistente. Bisogna proporre un modello che insegni a fare che faccia vincere tenendo conto del collettivo, della cooperazione e della creazione di un rapporto costruttivo con listruttore che insegni a confidare sulle proprie risorse e a lasciar perdere tutto ci che pu servire subito, ma che va contro lo sviluppo del ragazzo. I giusti metodi non permettono di rubacchiare un risultato oggi, ma danno continuit e creano un agonismo vero che serva subito ma soprattutto sia utile per vincere pi tardi. Si crede ancora che il rispetto per l'avversario soffochi decisione e aggressivit, ma rispettare non vuole dire subire, anzi, aiuta a vincere, perch non fa disperdere in ripicche, ritorsioni, agguati e aggressioni nella paura di essere aggrediti, o in condizionamenti psicologici confusi di irruenza e di rabbia che vanno contro la lucidit e la padronanza della situazione, che sono i caratteri tipici dell'agonismo. L'istruttore che cerca il miglioramento lascia che lallievo si sperimenti senza l'assillo di dover per forza riuscire, lo mette nella condizione di : - cogliere in qualsiasi cosa faccia il proprio risultato, - essere consapevole del fatto che, se non andata come voleva, dovr fare qualcosa di pi o di diverso per farla andare bene un'altra volta, - sapere che ci che fa apprezzato e che non c' un'unica soluzione ai problemi e l'importante trovare la propria. La nostra proposta, quindi, uno sport buono, ma non orientato alla sconfitta, uno sport che realizza e fa esprimere ad ognuno tutte le potenzialit di cui dispone, e che, di conseguenza, fa vincere.

Lo sport attuale Come in ogni fase di sviluppo, non facile liberarsi dai presupposti che guidano ancora lo sport. Lo sportivo medio attuale applica indicazioni di cui non padroneggia tutte le implicazioni e gli usi, e assorbe in modo passivo ci che gli viene insegnato. Non si esprime secondo proprie concezioni e non sa impiegare tutte le risorse di cui dispone, perch queste non sono state scoperte e allenate e, dunque, non preparato a vivere lo sport come campo di creativit, di originalit e di iniziativa o, in altre parole, come crescita e ricerca di completezza personale e sportiva. Lo sport mostra crescente curiosit e interesse verso tecniche pi moderne, ma non indaga e non sviluppa ancora ci che pi specifico e decide e regola tutta l'attivit dell'individuo. Lo sport non interessato a riconoscere questa struttura e, spesso, tenta di annullarla; oppure la tratta alla luce del buon senso comune o dell'esperienza fatta sul campo, ma cos facendo limita ancora di pi la libert espressiva e la possibilit di autonomia dello sportivo. I rimedi difficile che lo sportivo attuale arrivi al massimo livello delle sue possibilit: se non si verifica unimprobabile, per non dire impossibile, somma di fattori favorevoli che riguardano la famiglia, la societ sportiva, listruttore, lambiente. E improbabile raggiungere la propria massima espressione partendo da una cultura dello sport che privilegia il risultato gi con i bambini, rendendoli incompleti, disarmonici e bisognosi di essere guidati e sollecitati per fare cosa che potrebbero fare da soli. Lo sport spesso sottopone il bambino a pressioni sempre pi incalzanti, ma non lo prepara a concretizzarle. Gli chiede troppo o troppo poco o, meglio, non gli chiede ci che sarebbe in grado di dare, e non riesce a formarlo in modo che non viva lo sport come una richiesta sempre eccessiva e opprimente. Lo obbliga a seguire schemi rigidi a spese della creativit e dell'iniziativa, o si aspetta che sappia creare soluzioni nuove e non previste durante la gara quando lo allena solo a imitare e ripetere. Lo spinge a esasperare i toni agonistici, la frenesia e l'attesa della gara, mentre l'agonismo lucidit, capacit di essere presenti e libert dalla paura. Lo sport vuole che il bambino giochi nel collettivo, ma non lo allena a ragionare, proporre e produrre insieme. Gli trasmette soluzioni gi definite e, dunque, ne sopisce il desiderio di scoperta e ne ostacola l'attitudine a produrre

iniziative personali, e in questo modo lo dispone alla continua attesa di qualcuno capace di sostituirsi a lui nell'uso della sua libert d'azione. Lo sport, quindi, chiede comportamenti opposti a quelli che insegna : forma un esecutore, mentre ha bisogno di uno sportivo che sappia decidere e agire autonomamente, non aiuta il bambino a conoscere e regolare le proprie capacit e si aspetta che le sappia amministrare, esercita una conduzione che non chiede di pensare, scegliere e decidere e crede di formare un individuo disponibile a collaborare. La funzione educativa ubbidisce ad una regola fondamentale: colui che educa trasmette comunque i propri stessi caratteri e modelli di comportamento. Se l'istruttore non riconosce l'individualit della persona, former un soggetto che, fedele al modello acquisito, attende l'ingresso nell'et adulta per poter esercitare lo stesso comportamento, o un succube che gli impone di portarlo sempre per mano, pena la rinuncia o l'opposizione passiva. Lo sport che cerchiamo Alcuni dei principi proposti sono gi attuali, anche se attuati sulle tracce del buon senso comune, e dunque senza continuit e una chiara metodologia. In altre parole, senza le condizioni necessarie affinch l'allievo possa partecipare in modo attivo e diretto al processo di maturazione psicologica ed intellettiva e, in questo modo, arrivi a sapersi amministrare da solo. La formazione che proponiamo cerca, invece, uno sportivo adeguato a tutte le esigenze dello sport e dell'ambiente culturale in cui vive. Per questo, l'educatore trasmette comportamenti, conoscenze, norme, convinzioni, valori e aspirazioni comuni, ma intanto crea un clima che induce l'allievo ad assumerli e usarli secondo le proprie attitudini e, poi, a farli evolvere nella misura consentita dalla sua dotazione creativa. Egli, dunque, interviene anche su quella somma di meccanismi, facolt e attitudini pi strettamente individuali che connotano l'individuo nella sua completezza. Tale somma include la creativit, la fantasia, l'originalit, la critica, la curiosit, l'iniziativa, il coraggio e tutto ci che concorre ad interpretare la realt e a farla evolvere; include la capacit di mettersi al servizio della funzionalit collettiva, di scegliere le soluzioni pi efficaci, di saper acquisire dalle esperienze e trasformarle in bagaglio personale; e, infine, include la facilit di immedesimarsi nelle situazioni, di capirne gli usi e le implicazioni e di portare

l'impronta personale che le rende pi funzionali, o quella dote, fondamentale nell'evoluzione, di saper imparare da chiunque ma, allo stesso tempo, di superare quanto pu essere trasmesso con l'insegnamento. Come pu lo sport trasformarsi in uno strumento educativo cos complesso e sofisticato? Prima di tutto perch piace. Pu, quindi, educare con il gioco, che non ha bisogno di altre motivazioni per catturare l'interesse e l'attenzione, ma possiede anche altre e pi specifiche potenzialit adatte allo sviluppo di uno sportivo completo. Allena all'autonomia, alla libert, all'iniziativa e alla responsabilizzazione, perch stabilisce regole dentro le quali permette di esercitare tutta la creativit e iniziativa, e pretende che siano sempre rispettate e nessuno si possa sottrarre ai compiti e ai doveri che gli spettano. Sviluppa il sentimento sociale e abitua a cooperare: il collettivo la condizione che raccoglie i contributi di tutti e pretende che ognuno si sappia mettere al servizio degli altri. E pone come tratti essenziali del rapporto la stima, la partecipazione, la risposta ai rispettivi contributi, lo scambio paritario, il rispetto, la disponibilit e un'affettivit sempre presente, ma controllata. Allena al coraggio, cio a mettersi alla prova anche quando possibile andare incontro a una sconfitta o a uno svantaggio personale, e a tentare anche quando gli sforzi possono sembrare inutili. E allena alla sua forma forse pi evoluta, che il saper cercare, ammettere e correggere i propri errori. Il coraggio, infatti, non solo un comportamento genericamente attivo, ma la capacit di ottemperare ai compiti fondamentali della vita anche quando si pu andare incontro a uno svantaggio o, come spesso avviene, al rischio di un giudizio. Insegna a pensare, a valutare e a proporre, giacch chiede e permette ad ognuno di portare contributi di idee e di iniziative e, infine, chiama il genitore a partecipare, ma intanto gli offre gli strumenti e le conoscenze perch si trasformi in uno stimolo positivo.

Linteresse per lo sport Il bambino ricava piacere da ci che fa, e non dai vantaggi che pu ottenere dalla pura esecuzione, anche se corretta, o dal successo. Lo motivano il confronto con i coetanei, la verifica dei progressi, la consapevolezza di poter affrontare nuove situazioni, la padronanza dei propri gesti, il rapporto con l'adulto che lo sa guidare e apprezzare per ci che fa il giocare per vincere, ma non ancora per sentirsi migliore degli altri, e non ancora per l'impulso a superare il naturale sentimento di incompletezza e per il disagio di sentirsi incapace nei confronti degli altri. Per quanto riguarda lo sport, il bambino portato per natura al gioco, a misurarsi, a competere per sentirsi pi abile degli altri. Ha tutti gli stimoli necessari, ma ha bisogno di esprimerli in libert, senza troppi schemi e l'obbligo di ottenere per forza il risultato. Parliamo di prestazione e di risultati solo pi tardi, dopo i 12 anni, quando il ragazzo comincia a sapersi porre degli obiettivi, a seguire schemi astratti, a cooperare e a cercare il risultato e non solo la prevalenza del momento. Il giovane, invece, trova stimoli dal bisogno di differenziarsi e dal desiderio di raggiungere le abilit e i traguardi possibili, di scoprire e sperimentare i propri limiti, di verificare i miglioramenti e di essere apprezzato per ci che si impegna a fare. Passa, quindi, a motivazioni sempre pi interiorizzate e personali che, in definitiva, costituiscono il legame pi solido con lo sport. Tali motivazioni non sono automaticamente produttive, e anzi, in un clima di insicurezza possono addirittura trasformarsi in spinte contrarie, tanto che lallievo che non arriva a ritenerle concretizzabili reagisce con la rinuncia o la ribellione. Vuole, quindi, sentirsi riconosciuto per le proprie capacit e aspettative e per come sa affrontare e modificare la propria realt. Il giovane di oggi ha idee pi chiare rispetto a quello di generazioni passate e pi desiderio di essere trattato come soggetto che partecipa alle scelte che lo riguardano. Quindi, se vogliamo usare tutte le sue motivazioni, offriamogli l'opportunit di contare per quello che fa, non costringiamolo, ma chiamiamolo a cooperare e lasciamo che si sperimenti oltre ci che gli possiamo insegnare, raccontiamogliela sempre giusta senza volerlo manipolare, lasciamogli spazi perch possa decidere e creare, e diamogli sempre nuovi obiettivi da raggiungere, in modo che non si appaghi o non si affidi per essere portato per mano.

Su un piano pratico, dopo i 12-13 anni il giovane ha familiarizzato con il pensiero astratto ed pronto per ragionare insieme con noi, programmare e prefiggersi obiettivi a lungo termine. quindi pronto a "lavorare", cio a fare qualcosa che al momento non lo appaga, ma servir pi tardi, e ad impegnarsi nella cooperazione. Dunque, pronto per l'insegnamento teorico, la specializzazione e il collettivo. Queste considerazioni suggeriscono che la sicurezza e l'interesse, nello sport come in qualsiasi campo, non derivano tanto dalle qualit di cui si dispone o dalla possibilit di raggiungere traguardi prestigiosi, quanto dal sentirsi sempre adeguati e sicuri nei confronti delle richieste. E che la preparazione per competere ad alto livello un processo continuo e mai angoscioso, frutto del proprio impegno e non di una fortunata combinazione di circostanze o di stimoli esterni. In definitiva, le motivazioni pi prementi nel giovane sono la possibilit di raggiungere i traguardi adatti alle proprie possibilit, di liberare le spinte creative ed evolutive che sono dentro di lui, di superare i naturali sentimenti di inadeguatezza e di inferiorit fino a ridurre e annullare la distanza che lo separa dall'adulto, di scoprire e sperimentare le proprie forze e di ottenere lapprezzamento da chi lo guida. Se vogliamo coltivare l'interesse del bambino per lo sport, quindi, evitiamo, da una parte, di spingerlo e sollecitarlo troppo e, dall'altra, di imbrigliare il suo naturale desiderio di fare e misurarsi. Non , quindi, necessario creare interesse, perch ne ha da solo pi di quanto ne abbiamo noi adulti. Semmai ha bisogno che non glielo facciamo perdere. Evitiamo, quindi, di caricarlo di troppe aspettative, di volerlo dirigere senza lasciargli spazio per liberare tutta la creativit e la fantasia, di pretendere una pura esecuzione invece di lasciare che trovi da solo le soluzioni, di obbligarlo ad essere subito concreto e funzionale quando ha ancora bisogno di sentirsi libero e di creare per il solo gusto di sperimentarsi, o di non riconoscergli i meriti che si conquista per paura di appagarlo. Usiamo lo sport per preparare la vita delladulto Pu sembrare eccessivo pensare a una vita adulta che inizia gi nel bambino, ma non pu essere altrimenti. Fermiamoci un attimo a pensare: logico credere che si possa prendere contatto con la vita adulta senza essersi collaudati prima? E possibile essere educati in un modo che aiuti poi a diventare adulti autonomi?

Consideriamo i metodi ancora in uso. Lo sport insegna pi o meno a tutti le stesse cose e allo stesso modo e impone modelli uguali per tutti, non sempre disposto a considerare i caratteri e le potenzialit di ognuno e, dunque, non sempre li riconosce e li sviluppa. Lo sport trasmette le sue convinzioni, richiede per lo pi delle precise esecuzioni, ma senza pretendere apporti personali. Dunque, di ognuno conosce solo le qualit che sceglie, o in grado, di indagare. Tutto questo va contro l'autonomia dell'individuo: pur presentandosi a volte come modo autorevole o come richiesta di responsabilizzazione, in realt la pratica sportiva d allallievo tutte le soluzioni e gli chiede poco di pensare, di crearne di proprie o di risolvere da solo le situazioni. Lo sport, quindi, prima non lo allena a conoscersi e a scoprirsi, a fare anche da solo senza avere sempre bisogno di qualcuno che decida per lui, e poi lo rimprovera di non sapersi gestire e amministrare da solo. Di fatto, quindi, lo sport chiede comportamenti opposti a quelli che insegna : prepara un esecutore e, intanto, vuole che sappia assumere iniziative, non chiede di fare insieme, ma parla di collettivo, perch ha bisogno di uno sportivo disponibile a collaborare, impone un rapporto autoritario e si aspetta un individuo che ci sta a fare il succube. Il bambino, invece, laddove viene educato in un clima oppressivo, non far altro che aspettare di avere un'altra et e un altro potere per comportarsi nello stesso modo autoritario. Questo il fatto pi curioso: l'adulto crede di trasmettere o di imporre un comportamento diverso dal proprio e ottiene una copia fedele, o solo opposta, di come si proposto. Dunque, con lo sport disponiamo di un potente strumento educativo, ma se ci limitiamo a ripetere gli errori degli altri possiamo passare come uno stimolo vuoto. Ma pi facile che la grande influenza, positiva o negativa, che ha il gioco sul bambino, ci renda addirittura diseducativi. Torniamo a vedere l'aspetto positivo della nostra presenza educativa. Quali sono i caratteri della vita adulta che dobbiamo, e possiamo proporre con lo sport gi nel bambino? Come influisce lo sport ? E come pu lo sport, uno strumento cos immediato e alla portata di tutti, diventare uno strumento educativo cos potente? Dipende da noi: se sappiamo che l'adulto si prepara gi nel bambino e che noi siamo figure importanti in

questo processo, allora possibile. Ed anche facile perch, per giocare, il bambino non ha bisogno di spinte o di premi, basta che non commettiamo errori. Ma non tutto. Con lo sport che vogliamo insegnare abbiamo tutte le carte in regola per influire anche sullo sviluppo della persona. A patto che alleniamo il bambino a pensare, a decidere, a fare senza avere paura di sbagliare o di essere giudicato e a prendersi il carico che gli spetta. E che non lasciamo che approfitti della sua et per eludere quelle regole che trover, poi, nella vita di adulto. Stabiliamo delle regole, non troppe e non oppressive, e lasciamo che dentro di esse il bambino si sbizzarrisca con tutta la creativit, la fantasia e l'iniziativa. Anche noi dobbiamo rispettare le nostre, che sono pi numerose e pi impegnative. E allora, per essere modelli credibili, le regole e i compiti, pur diversi per il nostro ruolo, devono prevedere la stessa precisa e puntuale osservanza. Lo sport un potente strumento educativo che aiuta anche a sviluppare la socializzazione. Abitua il bambino a cooperare, a fare la sua parte, a fare insieme e a rispettare le idee e i contributi degli altri. In questo ci aiuta il collettivo, una condizione che somma i contributi di tutti e fa s che ognuno impari a mettersi al servizio degli altri e si aspetti anche da loro le stesse risposte. E dove la stima, la partecipazione, lo scambio senza calcoli, il rispetto e la disponibilit reciproca sono le "basi" psicologiche e comportamentali del rendimento e della vita adulta. Allena al coraggio, che non temerariet, sprezzo del rischio o aggressivit priva di misure. Abitua il bambino a mettersi alla prova anche dove pu uscire sconfitto, ad assumere le iniziative necessarie senza qualcuno che decida sempre per lui, a rischiare un errore piuttosto che rinunciare e fare solo ci che gli da garanzia di riuscita. E queste sono le attitudini delladulto, fuori e dentro lo sport.

Quale sport insegnare a un bambino? E come? Non dobbiamo cercare di accelerare il processo di acquisizione tecnica e tattica, ma sviluppare quelle abilit e attitudini pi generali gi presenti o quelle che si possono scoprire e allenare solo a questa et. E queste hanno a che vedere con la libera espressione nel gioco e non certo con il gesto tecnico perfetto, con le consegne tattiche o con l'esasperazione del risultato. E non dobbiamo fare un vero allenamento "tecnico", ma creare tante situazioni diversificate o, addirittura, giochi che non hanno niente a che vedere con lo sport degli adulti. Il nostro un momento in cui si deve cercare uno sviluppo armonico e per quanto possibile completo, che "curi" la crescita fisica, le abilit tecniche possibili, la personalit e il carattere. Il professionista verr pi tardi, senza fretta, e proprio sulla base di questo apprendimento motorio e sullo sviluppo della maggior variet e del maggior numero di abilit possibili. facile che, senza rendercene conto e con le migliori intenzioni, rischiamo di imporre l'idea che abbiamo noi del bambino invece di capirlo e di cercare lo sviluppo che possibile a lui. Rischiamo, quindi, di volergli insegnare subito ci che gli sar utile in futuro, ma che il bambino non riesce a capire e a eseguire, e di trascurare ci che, invece, possibile adesso e, anzi, spesso solo adesso. Spieghiamoci meglio. Adesso ha bisogno di imparare tutto ci che viene prima della visione tattica e del gesto tecnico definitivo. E per tante ragioni. La prima fa parte del bambino, che vive il momento, fa ci che gli piace e rifiuta ci che non gli piace. Non sa ancora fare un lavoro, e dunque ci che solo utile e che fa parte di un progetto o di una programmazione troppo lontano dalle sue motivazioni, dai suoi schemi di pensiero e dalle sue capacit intellettive. Se vogliamo formare subito il giocatore adulto, rischiamo di trascurare i mezzi, le potenzialit, la personalit e il carattere, del bambino. E questo non vuol dire non chiedere, ma chiedere in modo che il bambino sia motivato a fare, perch le motivazioni e la capacit a tollerare l'aumento delle richieste hanno sviluppi diversi, a volte imprevedibili. Rischiamo di chiedere cose sbagliate, ma anche troppo o troppo poco, ma c una misura per non sbagliare: quando il bambino partecipa, si diverte e non deve dare delle prestazioni o ripetere, non dobbiamo temere di sovraccaricarlo.

Ma allora, possiamo insegnare lo sport a questa et? Certo, ma non come si pu fare con l'adulto o nei sistemi tradizionali, dove l'allenatore spiega, fa i "percorsi", mostra come fare e poi fa ripetere finch l'allievo ha imparato o sa in qualche modo eseguire, ma non insegna ad usare le potenzialit che non vede e a fare anche da solo. Quando possibile, partiamo da una proposta del bambino e poi passiamo attraverso un gioco. Come? Lasciamoli giocare liberamente e prendiamo spunto da qualsiasi iniziativa o da un gesto che pu essere trasformato in un esercizio tecnico. Chiamiamo fuori del gruppo il bambino che l'ha pensato ed eseguito e chiediamogli di mostrarlo agli altri. E se abbiamo fantasia inventiamo un gioco che richiede proprio quel gesto, in modo che il bambino partecipi allo sviluppo della sua idea. Facciamo degli esempi e per farli prendiamo il calcio ma solo perch uno sport molto conosciuto e lesempio pu essere compreso da tutti. Un bambino mentre gioca d un calcio d'esterno ( con lesterno del piede ). Ripetiamo il procedimento che abbiamo appena descritto e collochiamo un bersaglio. Dopo di ch proponiamo una gara nella quale tutti i bambini, calciando desterno, lo devono colpire il numero di volte che vogliamo. Oppure vogliamo che provino il calcio d'interno di precisione? Facciamo un cerchio con una corda e lasciamoli calciare finch non hanno imparato a farvi andare dentro la palla. Anche qui per un certo numero di volte, finch non siamo certi che hanno acquisito quantomeno la tecnica del tiro, anche se non ancora la precisione. E se anche noi abbiamo fantasia e un po' d'ingegno, possiamo inventare infiniti modi per insegnare qualsiasi gesto tecnico. Anche la tattica e la disposizione in campo si possono insegnare. Diamo il minor numero di regole, e poi lasciamoli giocare. Pian piano scopriranno loro stessi ci che pi utile e funzionale o, se vogliamo accelerare questo processo, diamo poche indicazioni, senza imporle e aspettarci subito il risultato concreto. Se hanno un buon rapporto con noi e sanno di non essere valutati, cercheranno di mettere in pratica i nostri consigli e arriveranno alla conclusione che noi ci aspettiamo. Ma ci arriveranno da soli, percorrendo tutte le tappe che portano alla conoscenza che vogliamo trasmettere. In questo modo avranno "costruito" loro stessi il gesto, la conoscenza o la soluzione e non la perderanno pi. Ma, pi importante, si saranno allenati a pensare, a capire, ad essere consapevoli di ci che stanno facendo, e questo pi importante di qualsiasi

acquisizione passiva. Ma non diamo a uno una regola e agli altri un'altra. Facciamo in modo che tutti possano giocare in ogni zona del campo e possano provare tutti i ruoli o, meglio, tutte le opportunit di gioco che pu offrire la partita. A conclusione, il gesto imparato adesso, quando il bambino ha a disposizione pochi mezzi, e oltretutto non ancora sviluppati, ha ancora tutto da imparare e non ha nulla che lo rende simile all'adulto che lo usa in gara, non pu essere quello definitivo. E il bambino sapr fare meglio, e pi in fretta, quando avr imparato a fare tutto e avr una "base" fisica, tecnica, intellettiva e di personalit molto pi solida e ampia per sapere anche adattare i ruoli e le tattiche alle esigenze di una gara. Descriviamo ancora una volta il mondo e la mente di un bambino. Servir per capire meglio. Il bambino non si pone domande e non pronto a pensare qualcosa che non ha davanti, non vede o non tocca. Prova sentimenti intensi, ma non se li sa spiegare, e non sa ancora capire che cosa significano o trovare soluzioni per risolverli. Non capisce perch, a volte, gli diciamo una cosa se ne vogliamo un'altra. O se, dietro una frase, un comportamento o una nostra richiesta, ci sia un altro significato da scoprire. E non sa di certo che il gioco che sta facendo serve per le capacit coordinative, per l'equilibrio motorio o per fare la zona o il pressing. Il bambino fa ci che lo interessa al momento. Se gli chiediamo qualcosa che non capisce o non sa ancora fare, si stanca e si stufa, ma non impara. E allora, se non pu ancora capire e, soprattutto, se ci che impara adesso sar modificato e reso pi funzionale pi tardi, perch pretendere di farlo lavorare come un adulto e rendergli sgradevole il rapporto con lo sport? E se ci capitano sottomano delle ricerche sullo sport sbagliato in et giovanile, leggiamole. Ci spiegano tutte che una pratica intensiva, imposta o esercitata fatta giocare senza gioia la prima causa di abbandono dello sport prima ancora di arrivare all'adolescenza.

Il disinteresse e la disaffezione I giovani hanno bisogno che ci interessiamo senza prendere le decisioni al loro posto, che li ascoltiamo e li aiutiamo a risolvere i problemi. La protezione da ogni compito e disagio, la risposta a qualsiasi richiesta e pretesa, lautorizzazione a non avere regole, il dare di pi nellillusione di ottenere di pi e limpegno a creare solo condizioni che li rendono felici, invece, tolgono il gusto di desiderare, di fare e di scoprire, e non allenano a mettere del proprio per farcela da soli. Si crede che serva la voglia di sacrificarsi, ma un luogo comune e un modo di dire che finisce per convincerli che giusto sentirsi oppressi e annoiati o contrattare per impegnarsi. Quando trasformiamo lo sport in un sacrificio e non lasciamo che resti un piacere, non ce ne rendiamo conto, ma passiamo dal fare insieme qualcosa che interessa e diverte al credere di dover neutralizzare il rifiuto di farlo o al dover stimolare impegno, due condizioni estranee al giovane e allo sport. Lasciamo quindi che lo sport resti un piacere, ed avremo tutto linteresse e limpegno che ci serve. Altra causa di disaffezione, il genitore troppo interessato che il figlio arrivi al successo. Ogni genitore convinto di agire con gli strumenti migliori per aiutare il proprio figlio, ma spesso, non rendendosene conto, agisce contro il suo interesse. Per esempio, quando: -lo sovraccarica di attese e obblighi e non accetta che possa non riuscire; -si crede lunico competente in materia, d consigli organizza allenamenti solo per lui, e quindi sminuisce la figura dellistruttore; -pretende la vittoria ed esecuzioni precise senza tenere conto che ha idee, mezzi e desideri propri; -lo tratta come uno strumento per realizzare le proprie aspettative; -lo punisce e lo umilia quando non vince, gli rinfaccia i sacrifici e lo accusa di ripagarlo con gli insuccessi; -lo giudica in base al risultato e non alla prestazione e all'impegno; -si lascia andare a scenate emotive e manovre sottobanco, o si rende servile per favorirlo e procurargli dei vantaggi; -o lo spinge a iniziative e atteggiamenti che lo mettono contro tutti, fino a rendergli impossibile stare nel gruppo.

A volte si disaffeziona anche il soggetto che ha buone qualit, anche se sembra strano, poich riuscire uno dei fattori che procurano maggior interesse per lo sport. In questi casi, la causa pi probabile che lo senta sgradevole, come quando vi un clima nel quale non si sente a proprio agio, il genitore lo opprime perch pretende il campione o noi siamo convinti di operare sulle motivazioni distribuendo lodi e premi o punizioni e critiche, o di avere a che fare con soggetti privi di carattere, e solo da "caricare" con discorsi ai quali non credono. Altre volte la disaffezione dipende dal giovane, che pu essere un timido che si sente a disagio nel gruppo, un viziato che rifiuta ci che richiede fatica e non d subito piacere, o un "molle" che ha sempre bisogno di qualcuno che faccia per lui. O pu anche accadere che abbia problemi che non dipendono dallo sport ma, in ogni caso, ci fa capire che lo sport com', o come glielo facciamo vivere, non gli piace. Ci possiamo trovare di fronte a un problema personale pi profondo, come nel caso dellallievo che si sottovaluta anche se non gli chiediamo troppo, crede di non potercela fare o di essere sempre inferiore agli altri. Semmai, in questi casi, le colpe possono essere l'indifferenza verso un problema che deve invece essere affrontato o la richiesta di un agonismo che un giovane non sa sopportare. In ogni caso, quando c' un problema legato al carattere o all'ambiente extrasportivo, pi difficile stimolare, perch ci che noi possiamo fare non basta quasi mai. Per, non sbagliamo se facciamo in modo che trovi pi piacere, se riusciamo a creare un clima di gioco e di partecipazione in cui vi sia anche lui a pensare, decidere e sentirsi importante. Labbandono Se non teniamo conto delle motivazioni e dei naturali problemi del bambino (bisogno di liberare creativit, fantasia e iniziativa, o sfiducia nelle proprie possibilit, interesse per un altro sport, illusioni e pressioni esagerate), tutti possiamo commettere errori e tutti i bambini sono a rischio di abbandono o, almeno, di disinteresse. I bambini fanno solo ci che interessa e d piacere, e non sempre lo sport soddisfa queste esigenze, anzi spesso le ignora e le soffoca, specie quando propone un rapporto non adeguato all'et o privo di rispetto e di attenzione. Inoltre, alcuni operatori non sono adatti ad avere a che fare con loro.

Si possono presentare diversi casi. Il giovane pu rendersi conto di essere meno dotato degli altri e, di conseguenza, non essere pi disposto a misurarsi per non sentirsi inferiore, abbattersi perch attraversa un momento critico della crescita che lo rende impacciato, essere stato illuso di poter sfondare e, alla fine, abbandonare da sconfitto, essere stanco di essere trattato come un piccolo professionista e di un clima esigente e privo di vero gioco che rende sgradevole lo sport. Pu sentirsi sovraccaricato da un'organizzazione e sistemi troppo oppressivi, allenamenti "scientifici" privi di divertimento, un insegnamento che privilegia esercizi ripetitivi ed esecuzioni a spese della creativit e dell'iniziativa individuale, un senso dell'agonismo basato solo sul "giocare per vincere" e da aspettative e stimoli eccessivi che portano alla paura di perdere e alla delusione. In definitiva, il giovane smette se non riesce o non si diverte, e molte ragioni dipendono dalla famiglia e dallo sport. Come quando -usiamo gli stessi sistemi che si usano con gli adulti: pretendiamo che ragioni come noi, non possa mai sbagliare, abbia i nostri stessi desideri o faccia come faremmo noi al posto suo, -lo carichiamo di attese eccessive e solo nostre, dal diventare campione al dover essere sempre il primo, -creiamo un clima privo di divertimento, chiediamo un impegno e un'applicazione professionali, anticipiamo i tempi e applichiamo un insegnamento non ancora comprensibile, -pretendiamo una specializzazione precoce che finisce per stufarlo di sport, -o lo costringiamo solo a eseguire e imitare, mentre il bambino, attraverso il gioco, ha bisogno di scoprire e seguire la sua creativit e fantasia. A volte, per recuperare il gusto dei ragazzi basta riportare lo sport a un gioco, e senza escludere il giocare per vincere, che non ha bisogno di essere stimolato o imbrigliato in schemi, perch la competitivit connaturata con l'individuo a qualsiasi et. Abbandoniamo, quindi, lillusione che servano la rabbia, la maglia, la gara in cui ci giochiamo tutto, lavversario troppo forte o troppo debole, larbitro bravissimo, la prospettiva di traguardi impossibili e lobbligo di confermare valutazioni eccessive o la

voglia imposta che dovrebbe essere pi efficace del piacere del gioco. E cerchiamo di far coincidere lo sport con il piacere di farlo, offriamo al bambino l'opportunit di giocarsi tutte le risorse senza paura di una punizione o di un giudizio e lasciamogli esprimere tutta la creativit che possiede per natura. Che cosa fare se un giovane vuole smettere con lo sport? Pu essere subentrato un interesse pi forte o lo sport che ha perso interesse. Nel primo caso, oltre a cercare di trattenerlo e sperare che torni allo sport, c' poco da fare. Nel secondo, probabile che abbiamo commesso qualche errore. Forse la causa un clima di tensione con pressioni eccessive o maldestre, non siamo intervenuti quando era pi facile rimediare, sono nati dei clan in lotta tra loro, gli allenamenti sono sgradevoli o troppo pesanti, non c spazio per la creativit e l'iniziativa, abbiamo fatto qualche torto e magari commesso qualche ingiustizia, oppure abbiamo chiesto troppo o troppo poco. E se ha solo perso la voglia di giocare? In questo caso logico che faccia ci che pi gli piace, ma lo sport unattivit formativa che non bisogna lasciar abbandonare anche a costo di essere insistenti. Accettiamo, comunque, che abbia altre motivazioni pi forti, ma prima di arrenderci rendiamo lo sport pi gradevole, in modo che lo rimetta al primo posto o decida di conciliarli. Il gioco Per capire cos' il gioco per un bambino ci dobbiamo allontanare dal concetto che ne abbiamo noi adulti, e soprattutto che sia soltanto vittoria o sconfitta, oppure la semplice affermazione nei confronti di un avversario. Lo sport allena ancora a concentrarsi, battersi, vincere usando spesso qualsiasi mezzo, provare ostilit per l'avversario o a desiderare di sconfiggerlo per sentirsi "superiori". Considera ci che non gara un dovere, a volte quasi uno sgradevole sacrificio e usa stimolazioni generiche o difficili da tollerare. In definitiva, trasforma il piacere del gioco in un lavoro se non, a volte, in un affanno. Questo tipo di sport insegna gi al bambino i gesti tecnici pi appropriati e gli fornisce gli strumenti pi efficaci per poter vincere subito, ma intanto non si aspetta soluzioni o gesti diversi da quelli che gli trasmette o che ci provi senza dover essere guidato. Cos

mortifica l'originalit, la fantasia, la creativit e l'iniziativa, e le sostituisce con la ripetizione e l'esecuzione di gesti non capiti e non assimilati e, comunque, con qualcosa che pu allenare l'inventiva dell'allenatore che decide, ma non certo l'ingegno del bambino che esegue. Al contrario, lo sport che chiama in causa anche la mente e che proponiamo al bambino e, perch no, anche all'adulto, fare insieme, divertimento, piacere, mettersi alla prova per vedere fin dove si pu arrivare o cercare sempre qualcosa di pi efficace. Se siamo entrati nel mondo del bambino, ci chiaro che per lui la partita appena finita gi da dimenticare, mentre quella successiva nuova, mai giocata e da giocare diversamente, con le soluzioni e gli strumenti scoperti in quella precedente. Se l'adulto che ha paura di non potercela fare usa ci che ha e gli offre pi garanzie, il bambino, che assimila per natura ci che acquisisce e lo ripropone senza doverlo richiamare volontariamente, deve poterlo lasciare nella memoria e andare a scoprire qualcosa di nuovo secondo la situazione. Dunque, se deve solo ripetere pu affinare dei gesti, ma va contro la sua natura, che continua ricerca e invenzione. Il gioco, quindi, per il bambino ricerca di un piacere e uno sfogo di vitalit, ma anche uno strumento adatto alle necessit dello sviluppo. Nel gioco il bambino -recita un ruolo da protagonista e sente che conta, ha conferme immediate e pu fare e provare senza lassillo di dover dare subito dei risultati concreti, e quindi di non dover sbagliare, -si misura con gli altri, vince e perde senza mai cambiare i rapporti e, in questo modo, impara a competere senza perdere le misure della vittoria o provare affanno per la sconfitta, -prova, verifica la propria abilit, sente di poter fare, si corregge, pu esprimere tutta l'energia che sente dentro e, intanto, scopre le proprie potenzialit e sente di migliorare, -crea situazioni, sceglie, propone e si adatta, premiato dalla vittoria e deve prendere atto che ci sono anche le sconfitte e, soprattutto, impara a vivere i ruoli e le situazioni della vita adulta.

Il gioco e lapprendimento Gioco, competizione, inventiva, iniziativa, interesse, piacere e apprendimento nel bambino sono la stessa cosa. Ed la somma di tutti questi fattori che dobbiamo cercare perch impari. chiaro quindi che, prima ancora di sapere cosa insegnare ci dobbiamo preoccupare che il bambino sia disponibile a imparare. Dobbiamo prima di tutto non opprimerlo con pressioni e inutili condizionamenti o con discorsi che non capisce, e non obbligarlo su schemi preordinati e non modificabili a spese dell'inventiva e della fantasia. Anche perch, se l'attivit sportiva non resta un gioco e si trasforma in un lavoro finiamo per ingabbiare anche noi stessi negli schemi. Offriamogli un rapporto nel quale egli si sente accettato come soggetto, e non soltanto come uno del gruppo, e nel quale non ci senta distanti. Facciamogli sentire che ci che fa o propone conta, diamogli dei margini dentro i quali pu sbizzarrirsi e facciamogli sentire che lo accettiamo e ci rivolgiamo a lui in modo personale, diverso da come ci rivolgiamo a tutti gli altri. Non chiediamo n troppo n troppo poco. evidente che, se gli chiediamo qualcosa che non riesce o non sa ancora di riuscire a fare, lo scoraggiamo anche nei confronti di ci che gli possibile. E noi, che abbiamo il compito di educarlo, dobbiamo prima di tutto aiutarlo a "costruirsi" la sicurezza creando condizioni sempre pi complesse, nelle quali egli debba mettersi alla prova, ma le senta sempre alla sua portata e possa comunque sempre arrivare a una soluzione. Altrimenti gli diciamo che non all'altezza di compiti che per noi sono facili e naturali. Ma non gli possiamo neppure chiedere troppo poco. Anche lui deve fare la sua parte. Se gli chiediamo cose ovvie o banali, non lo mettiamo mai in condizione di dover pensare e sforzarsi per risolverle da solo e non lo alleniamo a sciogliere dei dubbi o a dover cercare le soluzioni, finiamo per diventare protettivi. E questo al bambino non piace e non lo rassicura, perch non gli offre n verifiche n garanzie di fronte a problemi futuri. Facciamo attenzione a non cadere nell'errore di volerlo incoraggiare offrendogli percorsi gi preordinati per fargli ottenere facili vittorie. Queste illudono e rassicurano noi, ma non il bambino, che in qualche modo avverte questa sfiducia, e ben presto si scoprir impreparato di fronte a tutto ci che non offre

soluzioni ed esiti scontati. Inoltre, le facili vittorie e gli apprezzamenti fuori luogo lo appagano solo per un momento, perch il bambino cerca le sicurezze nei progressi, nel mettersi alla prova, in ci che riesce a fare e nel sentirsi in grado di risolvere delle difficolt, e non certo in condizioni che non dipendono da lui e hanno solo esiti scontati. Alleniamoci, quindi, a capire dal bambino fin dove possiamo arrivare, cosa gli possiamo proporre o quali stimoli dobbiamo usare perch sia lui a trovare le soluzioni. O come possiamo fare perch sia lui a scoprire quella alla quale l'abbiamo portato senza che se ne rendesse conto. Possiamo essere anche manipolativi: dobbiamo anche insegnare delle cose e sappiamo gi dove si deve arrivare, ma facciamo in modo che il bambino capisca tutti i passaggi e si senta lui l'artefice di ci che sta facendo. Non sottoponiamolo a grosse prove o, meglio, solo a quelle possibili, in modo da garantirlo di essere all'altezza e, quindi, di sentirsi sicuro anche a superarle da solo. Come e quando accorgerci che pronto per capire e fare un salto in avanti? Quando sentiamo che ci segue con interesse e non smarrito, quando mette in pratica una proposta di gioco e si impegna subito per cercarne altre, quando curioso di sapere ma, soprattutto, quando non si stufa mai di giocare. In conclusione, ci che spinge il bambino a partecipare, e dunque a imparare, sono la certezza che non gli chiederemo mai cose che non sa fare o che non sar valutato per un errore, il sentirsi sempre pi abile e coordinato, la possibilit di sentire valorizzati i suoi contributi e il sapere che fa le stesse cose che facciamo anche noi, che siamo forse gli unici adulti che lo educano mentre lo fanno divertire. Solo uno sport? Nellet evolutiva di fondamentale importanza imparare a correre, saltare, arrampicarsi, stare in equilibrio, rotolare, maneggiare le cose o cadere piuttosto che rispettare consegne tattiche, posizionarsi sul campo di gioco, affinare i movimenti, imparare a "competere". Ed proprio sulla base di questo apprendimento motorio e dello sviluppo di tutte le abilit che si pu costruire lo sportivo pi adatto ad ogni sport. Questa affermazione affronta il dubbio se preparare il bambino solo allo sport per il quale sembra avere maggiori attitudini e motivazioni o pi fruttuoso costruire un "fondo" per raggiungere una buona attitudine generale e consentire alla mente e

all'organismo lo sviluppo pi armonico possibile e adatto a pi discipline. Siamo per la seconda ipotesi, o anche per uno sport che realizzi questi obiettivi, perch solo su questa base pi ampia e su uno sportivo che abbia raggiunto lo sviluppo possibile di tutte le qualit che si pu formare il giocatore completo. Prima di dedicarsi a un solo sport, il bambino deve scoprire tutto di s e sperimentarsi anche in campi per i quali non ha ancora attitudini, mentre la parte "tecnica" dello sport, la specializzazione, utile solo pi tardi. quindi molto pi vantaggioso formare un individuo capace di imparare e con una mente e un fisico armonici piuttosto che un adulto in miniatura, costretto a assimilare senza capire, e a spese di tante potenzialit che rimangono non scoperte e inattive. A questa et, quindi, forse meglio parlare di pratica sportiva, cio di un avvicinamento e di un allenamento allo sport che, insieme allo sviluppo delle qualit tecniche e fisiche, cerchi anche lo sviluppo della personalit e del carattere. In ogni caso, non dimentichiamo la grande importanza di ogni singolo sport, e per far questo riprendiamo lesempio gi usato in precedenza del calcio. Nei primi anni la palla l'oggetto che i bambini cominciano ad amare di pi, perch il pi dominabile, maneggevole e familiare, ubbidisce subito a qualsiasi sollecitazione, e il bambino sente che basta un suo gesto per darle vita. In seguito, basta avere un pallone per sentire gli altri amici e compagni di giochi, in una qualsiasi piccola partita nessuno mai del tutto escluso e, magari anche solo per pochi tocchi, ognuno pu sentire di poter contare e di essere un protagonista. E il discorso vale per tutti e a tutte le et: anche chi ha i piedi come un ferro da stiro, il pi "scarso", ha sempre un lampo, un tocco che magari gli riesce una volta sola, ma che per un momento lo illude di essere un campione. Sport e personalit La personalit la somma di tutti i caratteri dell'individuo: ci che lo distingue, l'immagine di s che offre, il sentirsi se stesso e diverso dagli altri, gli obiettivi, i desideri, le emozioni. Essa si forma gi nel bambino e raccoglie tutte le sue esperienze, e una, fondamentale, il gioco libero e privo di finalit, quello che solo pi tardi diventer sport. Si deve fare attenzione a non disturbarla. La pratica dello sport deve inserirsi nel naturale processo di sviluppo ed evitare di creare inutili ostacoli, e questo compito

spetta a noi, che dobbiamo essere chiari con noi stessi: se non siamo in grado di assolverlo, non possiamo avere a che fare con dei bambini. La personalit si forma, e continua a formarsi, sulle tracce acquisite nella prima infanzia. Non possiamo, quindi, trascurare qualcosa che deve essere trasmesso subito, perch pi tardi potremmo trovare un soggetto non pi recettivo o, addirittura, privo di certe premesse indispensabili per lo sviluppo. E non possiamo trasmettere qualcosa che non compatibile con la vita successiva, perch pi tardi lo dovremmo proibire, e allora cadremmo in un conflitto. Se le premesse della vita adulta, quindi, sono la capacit di criticare, scegliere, decidere, proporre, collaborare ed essere liberi e allo stesso tempo, o meglio proprio per questo, responsabili, vediamo subito quando andiamo contro questo processo: quando programmiamo tutto, offriamo al bambino ogni soluzione, cerchiamo solo un'adesione passiva e non gli chiediamo iniziative e partecipazione, quando trascuriamo le sue qualit per fargli copiare modelli perfetti e ottimali, ma astratti, o non sappiamo stimolare il suo desiderio di fare e di provare e sappiamo ottenere solo con il comando, quando lo lasciamo libero si fare ci che vuole e, dunque, gli concediamo una libert priva di giusti margini e di controlli, e non interveniamo per correggerlo perch crediamo che si corregger da solo, con il tempo, quando ci sostituiamo a lui in tutto, lo proteggiamo e lo solleviamo da quelli che sono i compiti e i doveri della sua et, quando lo sovraccarichiamo di aspettative e compiti che non sono suoi o, comunque, non capiamo che egli non ha ancora le facolt del pensiero che gli consentono di "lavorare" per un obiettivo che non sia presente e immediato. In tutti questi casi non rispettiamo le sue tappe di sviluppo e le sue potenzialit specifiche. Da una parte, lo forziamo per ottenere risposte che non sono ancora possibili e, dall'altra, trascuriamo le qualit adatte al gioco e quelle che indispensabile allenare per preparare la vita adulta. Nel nostro modello di formazione l'istruttore assume un'altra funzione, quella di agire in modo diretto e attivo sulla formazione della personalit, e non solo per mantenerla. E in questo ruolo diventa educatore.

La vittoria e la classifica Senza vittoria non c sport, ma se commettiamo errori possiamo guastare la maturazione fisica e psicologica e il carattere dell'allievo e, addirittura, porre limiti alla stessa possibilit di vincere. Lassillo della vittoria, infatti, crea una tensione che frena il rendimento: sollecita un agonismo non tollerato dai bambini, e in ogni modo non utile per vincere pi tardi, impone gesti rigidi e ripetitivi, frena creativit, fantasia e iniziativa e rende troppo drammatica la sconfitta. Se la vittoria crea troppo affanno ed l'unico scopo dello sport impone esecuzioni e percorsi obbligati, accentua troppo la paura di sbagliare, che un freno alla lucidit e all'azione, e non permette di provare e inventare, e quindi di sviluppare soluzioni utili per il futuro, quando conter davvero saper vincere. Se la vittoria crea troppo affanno : non crea le condizioni per migliorare, poich nello sport pi utile imparare a trovare la soluzione adatta al momento che avere tante soluzioni pensate da altri. Non lascia sviluppare creativit e iniziativa, poich la libert di inventare non deve essere frenata da tensioni e assilli ed utile a tempi lunghi, mentre l'obbligo di vincere oggi impone di ripetere gesti gi collaudati e garantiti e di non tentare il nuovo. Non allena alla responsabilit e alla scelta, poich non lascia provare, condanna l'errore e chiede solo di eseguire e di non sbagliare. E intanto agisce anche sulla prestazione, perch crea condizioni psichiche e fisiche contrarie al rendimento. Gli effetti sulla formazione La ricerca esasperata della vittoria e il bisogno di vincere subito sono affanni che vanno contro lo sviluppo dello sportivo e della persona, impongono una formazione approssimativa basata su stimolazioni che non chiamano in causa le facolt pi evolute e danno uno sportivo incompleto e mai padrone consapevole dei propri mezzi. In realt, lo sport non ha ancora acquisito le conoscenze necessarie per formare i bambini. Li

tratta come piccoli adulti, come avessero capacit e mezzi ormai collaudati e definitivi da impiegare per vincere subito, e quindi li priva del necessario periodo di scoperta e di formazione. Li allena ad un livello d'attivazione eccessivo, che aumenta la tensione al punto da ridurre il rendimento e impedire che imparino dalla gara, mentre il bambino ha bisogno di giocare, creare e sperimentarsi per scoprire e allenare in libert, e senza dover essere per forza anche pratico, tutte quelle qualit che sono solo potenziali. In pratica, lo sport impiega ci che gi il bambino possiede al momento e lo organizza in schemi, gli chiede semplicemente di eseguire, magari con trucchi e modi violenti, e non di scoprire e sviluppare ci che serve realmente per vincere pi tardi, quando lo sport diventa competizione e si gioca davvero per la vittoria. La gara La vittoria a tutti i costi impone la pura esecuzione di gesti non capiti e maturati dal bambino, contrasta la scoperta di tutte le qualit che possiede, blocca la creativit, la fantasia, l'iniziativa e la capacit di scegliere, decidere e correggersi. Va contro la sicurezza, che nasce solo dall'essere messi di fronte a compiti di cui si sono comprese tutte le implicazioni e di cui, quindi, ci si sente all'altezza. Non favorisce lo sviluppo dellintelligenza, poich le informazioni non spiegate o troppo complesse, una gara carica di affanno, lattesa di un giudizio negativo o la richiesta di pure esecuzioni da una parte sono un freno e, dallaltra, non ne chiamano in causa i livelli pi nobili. L'intelligenza, infatti, si allena anche con l'apprendimento passivo, ma si ferma al gradino pi basso se non sono allenate e permesse la critica e la creazione, che ne sono i livelli pi alti. Ci non significa che i bambini non devono giocare per vincere e che qualsiasi forma di competizione sia negativa per lo sviluppo. un concetto mal interpretato di educazione che ritiene negativa la competitivit nel bambino. Il bambino compete e vuole vincere per natura, tanto che senza questi stimoli non vi sarebbe l'adulto, ma il modo in cui l'adulto interpreta la competizione, e quindi la vittoria e la sconfitta, che gli estraneo. Il bambino gioca "insieme" al compagno e all'avversario per vincere, non conosce il trucco e la slealt, non si cura della classifica e alla fine della partita non soffre se ha perso, n si sente diverso e migliore degli altri se ha vinto.

Ladulto che non conosce il bambino pretende che vinca ad ogni costo, e spesso con qualsiasi mezzo, o che si limiti a neutralizzare le capacit degli altri invece di sviluppare le proprie. Per questo cerca di inculcargli i modi e le norme dell'adulto, che cos sono assunti senza critica e sperimentazione e, in modo paradossale, contribuiscono a mantenerlo bambino oltre il tempo, quando per vincere occorre essere adulti. Si dice " meglio se impara a gareggiare subito per vincere", ma non ce n' bisogno. Il bambino si gioca sempre tutto per natura e, anzi, proprio l'errore iniziale di farlo giocare con l'affanno solo per la vittoria invece che per divertirsi e misurare le proprie forze al di l del risultato, spesso lo blocca e gli impedisce di imparare e di sviluppare tutto il suo talento, con il risultato di restare un mezzo sportivo che manca proprio delle qualit agonistiche per vincere. Non si tratta, quindi, di cercare uno sport privo di agonismo, ma di sperimentare un agonismo adatto a un bambino, o forse adatto a tutti. Quindi, giocare solo per la vittoria uno stimolo inutile che nasconde dei pericoli. ovvio che pi si va avanti pi occorre badare anche al risultato, ma con i giovani si pu scegliere tra il giocare per vincere subito o il formare sportivi che vincano pi tardi. Si pu impostare una gara in modo da non lasciar giocare l'avversario, pretendere gesti o soluzioni solo utili al momento o ricorrere ai trucchi, alle furberie e a qualsiasi strumento che pu garantire subito un vantaggio. Oppure chiedere che sia fatto solo ci che si sa fare bene, ma cos difficile migliorare e scoprire dov' l'errore. Non si pu rischiare, e allora si ricorre a ci che si sa e si fa bene al momento attuale di sviluppo, e quindi a qualit in evoluzione e destinate a cambiare, mentre non si sperimentano le potenzialit che adesso rendono meno, ma pi tardi saranno gli strumenti per vincere. Si pu obiettare che gli esperimenti si fanno in allenamento, ma vi sono situazioni e intuizioni che avvengono solo nel gioco, e soluzioni che nascono soltanto nel momento in cui deve essere risolta o creata una situazione della gara. In ogni caso, sia prima che durante la gara si va contro le condizioni psicofisiche che regolano il rendimento. Un tale assillo, infatti, aumenta la tensione e toglie fiducia e coraggio, poich conta solo il risultato, che non mai certo nonostante l'impegno, e non il livello della prestazione. Ingigantisce la forza dell'avversario e la difficolt della gara, crea pensieri negativi che pesano perch, specie nell'attesa e nelle estenuanti

"concentrazioni", al desiderio della vittoria e alla sicurezza mano a mano subentra la paura di perdere. Durante la gara, l'assillo di vincere obbliga a adottare solo i gesti tecnici che altre volte si erano rivelati efficaci, e impedisce di inventare nuove soluzioni. In definitiva, impedisce di creare, che l'essenza vera del gioco e del rendimento, e intanto produce anche un effetto che sembra paradossale: alle prime difficolt subentra la paura di perdere, che negazione del gioco e puro tentativo di salvarsi dalla sconfitta. Infine, in queste condizioni emotive la vittoria solo una conferma da rinnovare ogni volta e mai una conquista, mentre la sconfitta diventa sempre un demerito e una colpa di l dal livello della prestazione, che l'unico parametro per valutare la gara. Gli effetti sullagonismo La vittoria a tutti i costi influenza le componenti psicologiche dell'agonismo. L'aggressivit, che un istinto sano e indispensabile per competere, cos confusa con la violenza, la rabbia, una frenesia priva di controlli o, addirittura, l'aggressione, tutte condizioni che vanno contro l'efficienza fisica, la capacit di pensare, la lucidit o la possibilit di scovare tutte le risorse. La sicurezza e il coraggio, che non significano correre rischi inutili o buttarsi allo sbaraglio sperando in qualche colpo di fortuna, ma il sentirsi all'altezza di ci che si deve fare al di l della forza dell'avversario e dell'esito della gara. La tranquillit, che lo sport minaccia creando ansia, paura, attese cariche d'affanno o, al contrario, un'euforia priva di misura, condizioni che disperdono energie e contrastano la prontezza, l'attenzione, la consapevolezza e la padronanza dei propri mezzi e la sicurezza per controllare le difficolt della gara. La continuit per mettere in campo, in qualsiasi circostanza, tutte le risorse di cui si dispone o, da un altro punto di vista, per far fronte per tutta la durata della gara a qualsiasi situazione. L'efficacia degli interventi, che dipende tanto dalla conoscenza e dalla sicurezza dei propri mezzi quanto dalla consapevolezza di poter capire e padroneggiare le situazioni senza lasciarsi condizionare da situazioni esterne o dalla paura di sbagliare.

L'autocontrollo razionale, che compromesso dalla frenesia, dalla reattivit, dalla cattiveria o dalla rabbia, che lo sport cerca ancora per stimolare l'agonismo. Qual , allora, il limite che l'obbligo della vittoria impone durante il periodo di formazione? la richiesta di prestazioni sempre al massimo, e spesso anche oltre, ad un atleta ancora incapace di dar fondo a tutte le proprie risorse e non preparato ad impiegare le abilit della mente che servono per l'attivit agonistica. Lassillo della classifica. Qualcuno afferma che la classifica non utile per la crescita educativa del bambino, ma la classifica la misura della continuit e delle forze della squadra, e non negativa in s, ma per i significati che le attribuisce l'adulto. Il bambino gioca una partita per volta e, sia che la vinca o che la perda, la termina con il fischio di chiusura, all'ultimo set o al traguardo per cominciarne un'altra, senza perdere la misura dei propri limiti se vince o provare disagi e vergogna se perde. Ad esaltarsi o a provare disagio l'adulto, quando non si cura che l'allievo impari dalla gara e non si chiede se i trucchi usati per vincere oggi non siano le premesse per non riuscire a vincere quando la vittoria sar l'obiettivo dello sport. utile, quindi, che l'istruttore utilizzi la vittoria e la classifica per confermare il proprio apprezzamento, per mettere in evidenza le qualit ed i miglioramenti che si sono evidenziati durante la gara e per rassicurare gli allievi sulle loro forze. Non lo se la utilizza per chiedere un impegno forsennato, se condanna la sconfitta e una classifica modesta come colpe, o se per conseguirle sacrifica il gioco ed i miglioramenti. Altri sostengono che nei campionati giovanili senza la classifica non possibile far emergere il desiderio di vincere e si creano sportivi privi di ambizione. Il problema non far emergere il desiderio di vincere e di superarsi, che naturale e basta lasciare che si esprima da solo. E non neppure la classifica, ma l'uso che se ne fa. Consideriamo un principio che dovrebbe essere universale, quello di giocare ogni partita al livello che consentito al singolo e alla squadra, ed allora la vittoria o, in ogni modo, una buona prestazione saranno una conseguenza, e non un assillo troppo difficile da soddisfare. La classifica diventa negativa quando c' troppa differenza di forze tra le squadre ed l'unico obiettivo dello sport. Immaginiamo che la squadra, dopo dieci partite, abbia solo

tre punti. L'allenatore deluso e scoraggiato, i genitori, sempre convinti che i loro figli valgano molto di pi, lo contestano o li portano via, oppure li seguono con distacco. La societ lo guarda male e pensa che non sia l'allenatore giusto, e negli allievi subentrano lo scoraggiamento, la delusione, la caduta di interesse, la mancanza di impegno e gli abbandoni. Quando, invece, la squadra in testa cominciano i calcoli, e se basta un punto si gioca per un punto o addirittura si bada solo a neutralizzare l'avversario, e cos non si gioca pi per imparare. Subentra la paura di essere raggiunti e si gioca con troppa tensione, mentre le altre squadre mollano perch intorno a loro caduto l'interesse e non serve a nulla impegnarsi di pi, e cos la squadra gioca un torneo che non d altro oltre la vittoria. Anche in serie A certe squadre cominciano a giocare davvero quando non hanno pi speranze di classifica e non hanno pi niente da perdere, mentre altre vanno bene finch non devono confermarsi e non possono deludere. Quindi, dopo aver svuotato di significato l'obbligo di vincere e portato l'attenzione sul livello della prestazione e sui miglioramenti, la soluzione giocare ogni partita come fosse tutta la classifica, facendo nostra la parola d'ordine "giochiamo una partita per volta e poi vediamo come va a finire", che alcuni allenatori adottano per togliere tensione alle gare. pi utile e formativo giocare per la vittoria o per lo sviluppo? Oppure, meglio vincere oggi o preparare gli allievi a vincere domani? Con i giovani valgono entrambi i modi, e se riusciamo a conciliarli raggiungiamo il massimo, ma occorre cautela. Negli sport di squadra, di abilit e di intesa, dove non ci sono il cronometro, la misura o il nastro ad indicare il vincitore e si pu ricorrere a stratagemmi vari, sempre forte la tentazione di badare prima al risultato e solo dopo, quando non si rischia pi o la gara persa, magari anche al gioco. Secondo i vari sport, per esempio, si pu non lasciar giocare l'avversario, compiere determinati gesti tecnici o usare mezzi che non serviranno pi in futuro, oppure proibire qualsiasi iniziativa personale per non mettere a repentaglio il risultato. Il "segreto" banale, quindi, allenare i giovani a vincere con il gioco e senza affanno. Qualcuno afferma che cos si arriva troppo tardi alla vittoria e si arriva meno facilmente, ma non spiega perch giocando meglio e con maggior lucidit ed entusiasmo non pi facile vincere da subito.

Fare solo ci che si sa fare bene Un altro modo di gareggiare, pi diffuso anche se meno appariscente, consiste nel chiedere che sia fatto solo ci che si sa fare bene. Dov' l'errore? Usciamo dallo sport e partiamo dal principio che la natura umana sceglie sempre le vie pi facili e sicure. Per esempio, un bambino che ha un difetto ad un occhio deve essere in qualche modo costretto ad esercitarlo, altrimenti si abituer ad usare solo quello sano, finch l'altro andr incontro ad un'atrofia non reversibile. O nella scuola, dove l'impegno sempre nobile, un giovane che ignora ogni altro interesse, compreso il gioco o, pi tardi, lo sport, per dedicare ogni energia agli studi quantomeno sospetto. Anche in questi casi si pu aver paura a misurarsi, a rischiare dove non ci si sente adeguati o, addirittura, al di sopra degli altri, e dedicarsi all'unica cosa che si crede di poter fare bene, a spese, per, di tutte le altre. Allo stesso modo, nello sport, se un gesto tecnico pi utile al momento per far fronte ad una situazione che vede prima il risultato, sar impossibile che l'atleta rischi di sbagliare solo per provare il gesto tecnico che non riesce subito bene. L'obiezione che non c' la societ cosi illuminata da rinunciare a vincere oggi per avere uno sportivo completo domani o che, pur di vincere, non chieda di rinunciare al gesto tecnico che oggi incerto, anche se domani magari sar un colpo di classe. Lobiezione non regge, perch il tentare qualche cosa di nuovo oggi, anche se non subito efficace, domani diventer iniziativa, sicurezza, ingegno, capacit di determinare le situazioni e di non farsi soggiogare dall'avversario, che anche nello sport tradizionale sono le qualit e le disposizioni pi utili per vincere. La violenza La violenza il modo di esprimersi di profondi sentimenti di inferiorit, di frustrazioni che opprimono e dell'incapacit di segnalare in altro modo la propria esistenza. il modo pi facile per compensare tali condizioni, attraverso una vittoria priva di eccessivi rischi che, umiliando l'"altro" e irridendo le sue regole, dovrebbe rendere il violento lontano e superiore.

La violenza sempre esibita per caratterizzarsi, come capi o gregari, all'interno del proprio gruppo, nei confronti di altri gruppi, nel proprio ambiente o in quello sociale, dove si pu diventare in qualche modo personaggi. Non offre mai appagamento, n sotto forma di autostima n di sicurezza: poich trae motivazioni e soddisfazione dalla reazione dell'ambiente, diventa anzi un bisogno inestinguibile che deve rinnovarsi di volta in volta in forme sempre pi esasperate e clamorose. Per questo, difficile credere che essa possa essere affrontata solo con la condanna e la repressione, interventi che, al contrario, possono giustificare il violento e stimolarlo a rispondere. La violenza, quando priva di sentimenti di colpa, non una scelta consapevole o una disposizione regolabile con opportuni ricorsi ai sentimenti o alla lealt del rapporto: chi pensa di poter "usare" il violento, non pu illudersi di diventarne, prima o poi, vittima. E, neppure, pu essere trattata come un modo per liberarsi di un'aggressivit fisiologica: chi tanto fragile da aspettare il momento opportuno e l'anonimato del gruppo per aggredire cambia solo se educato. Il gruppo La violenza, se non un istinto patologico, si protegge e si camuffa sempre nel gruppo. Il gruppo ha il fascino della potenza esibita ed imposta senza rischio. Dissolve la responsabilit individuale e garantisce impunit: sia per l'evidente possibilit di celarsi nell'anonimato e, sia, paradossalmente, perch la violenza collettiva sembra godere di una pi larga tolleranza. Disinibisce rispetto ai propri, inevitabili, sentimenti di colpa e permette di far crescere quella ostilit che rende lecita l'aggressione. Fornisce una platea, consenziente o ostile, ma comunque attenta e coinvolta, e valorizza affinit che l'ambiente condanna. La violenza di gruppo presuppone capacit di coesione e aderenza a precise regole interne. Per questo, a differenza di quella, pi spesso patologica, dell'individuo isolato, offre maggiori possibilit di recupero. Molti, infatti, incapaci di farsi accettare altrove, cercano il contesto violento per soddisfare in qualche modo comuni bisogni di solidariet e di appartenenza.

Il violento Accenniamo solo ad alcuni tratti del violento, senza addentrarci in un'analisi delle motivazioni individuali alla violenza. Il violento vive un paradosso che impedisce qualsiasi forma di appagamento. Spinto da sentimenti di inferiorit che crede di poter superare solo attraverso imprese eccezionali o riconoscimenti clamorosi, costretto a scegliere vie e mezzi che gli altri rifiutano e aumenta, cos, la propria inadeguatezza. Da un altro punto di vista, si pu dire che prova un bisogno smisurato di affermazione ma, allo stesso tempo, dominato dalla consapevolezza di non possedere i mezzi per raggiungerla. L'aggressione, la brutalit, l'atto vandalico, quindi, sottolineano solo uno spregio indiretto verso coloro che si ritengono "superiori" e non raggiungibili, e dunque non arrivano mai a valorizzare, neppure psicologicamente, chi li compie. Poich non dispone di un programma di vita e di scelte stabili, vive una gamma di sentimenti contrastanti e mutevoli, dall'amore all'odio pi totali anche nei confronti della propria squadra. Poich appaga sentimenti immediati, pi emotivi e lontani dalla ragione, quando crede di essere ingannato, o anche solo non esaudito, ritiene lecito e necessario rispondere con la vendetta. influenzabile e facile al plagio, tanto da offrirsi senza critica a chiunque lo approvi o gli proponga un vantaggio. pericoloso, quindi, incaricarlo di un compito, come intimorire l'avversario o vendicare il giocatore-vittima oppure, semplicemente, accettarlo com', senza precisargli una linea di comportamento o, peggio, valorizzarlo proprio per i suoi caratteri. Ha paura, anche se accetta il rischio pur di sentirsi in qualche modo protagonista. Si misura dietro la protezione, l'anonimato e la forza del gruppo, e solo quando pu disporre di un vantaggio. Ad esempio, del fatto che gli altri, specie le forze dell'ordine, non possono rispondere fuori delle regole consentite. Non teme tanto i danni fisici (spesso un temerario, ma la temerariet un espediente per dimostrare di non avere paura), quanto il rischio di mostrare la propria inadeguatezza, e per questo fugge le norme comuni e il confronto su capacit e qualit reali. Infine, non patisce e, anzi, cerca la condanna verbale. Quando se ne parla troppo, e in termini emotivi o futilmente retorici, si fa il suo gioco.

Le responsabilit Vi sono alcuni aspetti, non generalizzabili, che agiscono come stimoli alla violenza. Pur senza volere, spesso lo sport stesso a vidimarla. Forma uno sportivo che la usa ed esibisce in vari modi nel gioco e nel comportamento, e non lo frena se non sotto la spinta di un'indignazione esterna. Spesso, anzi, lo difende e lo premia in vari modi esaltandone il carattere agonistico e un attaccamento alla maglia che lo sportivo di oggi non possiede pi. Tali atteggiamenti e immagini, non pi attuali, offrono al violento, escluso altrove, l'ambiente nel quale sentirsi adeguato. Queste sono cause indirette e inconsapevoli di violenza, mentre altre ne sono direttamente responsabili. Per esempio, un certo sport che pretende di viversi come un mondo "al di sopra" che, per difendersi, aggredisce ed impone giudizi morali ma, come dimostrano gli scandali, la frequenza della Giustizia o l'abuso dell'immagine pubblica per interessi economici, non possiede il prestigio per essere credibile. Altre volte, lo sport risponde con il dramma alla logica degli eventi: manipola situazioni e obiettivit a proprio vantaggio, trasforma la vittoria in superiorit e arroganza o cerca una causa esterna, spesso l'alibi di qualche congiura, per giustificare la sconfitta. In questo modo autorizza il violento che, sentendosi inadeguato di fronte a ci che razionale e obiettivo, ha bisogno del dramma o di un pretesto per crearlo. E intanto crea un clima esasperato e inquinato dal sospetto, nel quale il violento "accetta l'incarico" di far giustizia. Ricordiamo che una violenza presentata e istigata come atto di giustizia, diventa nobile e perde il freno costituito, per tutti, dai sentimenti di colpa. Per di pi, non sempre l'informazione esercita un ruolo educativo o, almeno, riesce ad essere distaccata o neutrale. Talvolta genera sospetti, giustifica o condanna tutto, eccede descrivendo la delusione oppure, e a noi pare la forma pi diseducativa, esalta i trucchi e la furbizia. A volte usa un tono inutilmente retorico o, addirittura, fazioso sia quando pesca in un antagonismo sleale e, sia, quando nega l'evidenza o esalta e premia la semplice normalit: "Il mio pubblico pi civile", "ha permesso di acciuffare il violento", "da noi non succede". pericoloso che il violento sappia di essere difeso e scagionato, quando si sa che la violenza presente ovunque, e forse di pi dove se ne esibisce una pi smaccata estraneit. Spesso, infine, la descrizione della violenza

confusa: sugli spalti folklore e passione, in campo carattere e attaccamento alla maglia e, dopo l'episodio clamoroso, diventa pretesto per un'emotivit e un moralismo privi di proposte. E il violento, che rifiuta le regole che danno consistenza a tali posizioni, nel clamore sempre premiato. Le razionalizzazioni Alcune spiegazioni che lo sport offre del fenomeno sono per lo meno curiose. "Lo stadio solo una cassa di risonanza, un luogo di deflusso e di sfogo dei malesseri che stanno fuori", ma la violenza una modalit espressiva del carattere, un modo di reagire di un terreno predisposto a determinati stimoli, e non una secrezione fisiologica (ci presupporrebbe l'impossibilit di neutralizzarla). Inoltre, non il caso di attribuire allo sport, come spesso praticato, intenzioni o un ruolo sociale che, al momento, sono ancora poco credibili ma, soprattutto, non ignoriamo che lo sport, come pu essere un potente mezzo educativo, pu anche essere un induttore di violenza. "Noi siamo una parte sana". Parecchi anni fa, in un curioso articolo apparso dopo un fatto di teppismo pi clamoroso che grave e dopo una Domenica di disordini in molte citt, quattro sindaci affermavano: "Milano nei guai, ma solo casualmente, e noi, comunque, togliamo gli striscioni con gli insulti". "Torino, per fortuna, non epicentro di violenza". "Roma tranquilla, perch le tifoserie si sono impegnate ad assicurare serenit e sicurezza negli stadi. "Napoli, a differenza di quanto avviene al Nord, ha dimostrato grande civilt e maturit: non ha assalito i bianconeri nonostante la gara delicata". Qualche tempo dopo, un presidente, richiamato per certe iniziative pericolose, difendeva assurdamente, e per questo arrogantemente, i propri tifosi accusati di essersi lasciati andare ad atti vandalici. "Non sono tifosi". Se essere tifosi significa identificarsi con la squadra o con il giocatore, farsi rappresentare e godere di soddisfazioni indirette, vivere un sentimento irrazionale e ambivalente o legare il tono del proprio umore al risultato della partita, anche il violento un tifoso. Non lo , invece, chi cerca la platea per esibire comportamenti violenti o ricatta le Societ con la minaccia di disordini.

I rimedi Proporre soluzioni ingenuo, ma il caso di rilevare alcune condizioni e regole di cui tenere conto. Innanzitutto, i rimedi devono interessare tutte le componenti: dal violento allo sport, alla squadra, al singolo sportivo fino al tifoso che pu occasionalmente essere influenzato ed a quello che, per fuggire la violenza, evita lo stadio, facendo cos mancare il proprio ruolo moderatore. Devono avere continuit e completezza, e non presentarsi come interventi emotivi o inutili esibizionismi: il clamore e tutto ci che ha carattere di sfida danno ruolo al violento e lo stimolano a proporsi con imprese pi clamorose. il caso di dissentire su alcune iniziative. Chi ama lo sport ama soprattutto la libert, e non accetta le sbarre, le gabbie e l'oppressione. Anni fa, addirittura, qualcuno propose di chiudere lo stadio ai tifosi avversari. Al di l delle possibili considerazioni sull'opportunit di sfidare e di punire, il voler trasformare la forza in una posizione che pu essere confusa con l'arroganza alla fine sarebbe stata pericolosa: i tifosi di una squadra che vince sono su tutti i campi, e ci sarebbe stato da temere che molti si sarebbero sentiti autorizzati a vendicarsi su di loro. Si costruiscono stadi pi sicuri, meno affollati e con spettatori seduti, ma non sicuro che spostando il rapporto verso un pubblico pi maturo si eliminino tanti pretesti e condizioni favorevoli alla violenza, anche se indubbio il vantaggio di precludere al violento la possibilit di mascherarsi e di esaltarsi nella ressa. Ci che, per, pare pi efficace e preme maggiormente segnalare la necessit di una cultura dello sport, di un modo di essere, presentarsi, proporsi al pubblico e agire sempre coerente, che permetta di avvicinarsi tra gente che ha affinit, gusti e desideri simili, da vivere pubblicamente senza paura, e renda estranea qualsiasi violenza. E questa lo sport deve darsela da solo. Una cultura dello sport dovrebbe disegnare una professionalit pi evoluta e proporre altre motivazioni al rendimento. Certi difetti di autocontrollo, ladrenalina che giustifica tutto e la convinzione di poter usare qualsiasi mezzo o la furbizia autorizzano il violento ad imitare o a fare giustizia. Lo sport possiede regole molto rigide, e latleta non le pu infrangere apertamente, altrimenti il gesto furtivo diventa insegnamento e il

vittimismo delega il violento a fare ci che allatleta non permesso. Chi accetta tutto questo, e di pi se in modo compiaciuto, automaticamente vidima la violenza. Occorre, poi, cambiare termini. La rabbia, la voglia di vincere, gli stimoli, la concentrazione, la lavata di testa, la punizione, l'essere uomini, l'umilt o qualsiasi altra affermazione che neghi la maturit personale e la capacit critica del giocatore ne danno un'immagine talmente inconsistente e fatua da indurre il violento a ritenersi in diritto di giudicarlo e di punirlo. Cultura dello sport significa anche far ricorso a tutte le leggi e regole dello Stato. Tutto quanto, al di fuori di esse, permesso o non corretto, diventa in qualche modo stimolo alla violenza, compresa quella forma ambigua di rapporto che porta a giustificare ed accettare qualsiasi comportamento pur di non perdere popolarit. Infine, e questa dovrebbe essere la massima espressione vitale, lo sport deve proporsi come stimolo educativo, cio presentare sempre modelli che avvicinano l'individuo alla condizione di adulto. La gara Hanno senso le concentrazioni, la carica, le strigliate, il creare paura, le manipolazioni, gli incitamenti o gli appelli all'orgoglio, se essere pronti per scendere in gara entusiasmo, sicurezza, padronanza, fiducia e volersi misurare? Ci sono tecniche per preparare la gara, ma sa non le conosciamo o non le sappiamo usare meglio lasciare che l'atleta si prepari da solo. La condizione ottimale La condizione ottimale per la gara facile da descrivere: uno stato della mente e del fisico, gi vissuto e solo da liberare, in cui l'atleta non ha ansia e tensione o, al contrario, noia e disinteresse, si sente pronto, ha fiducia di essere all'altezza ed al giusto livello di energia psichica. uno stato simile all'entusiasmo, all'impazienza di misurarsi, alla sicurezza di giocarsela tutta e al piacere di fare. Ogni atleta lo ha provato e lo sa riconoscere. Quello di pi alto livello lo ottiene senza sforzo, perch si sente all'altezza della gara, mentre altri devono sforzarsi e stare dentro certe piccole superstizioni: risveglio alla

stessa ora, stessi vestiti, fare le stesse cose. I meno sicuri si aggrappano a rituali sempre pi complessi e meno efficaci, fino ad avere sempre pi bisogno di essere rassicurati e di qualcuno che pensi a tutto per loro. Prima L'allenatore dovrebbero fare poche cose prima della gara: essere chiaro per non far nascere incertezze, creare comunicazione e abitudine a fare e creare insieme, eliminare le condizioni che creano ansia e fare in modo che alla gara non si associ mai paura di perdere, di non essere all'altezza, di un giudizio o di una punizione. La gara si prepara insieme durante la settimana cercando di conoscere ci che sar utile sapere per affrontarla e trovando le contromisure e le iniziative perch ognuno impieghi al meglio le proprie risorse. Presentiamo la gara, l'avversario e le difficolt come sono, senza inutili drammatizzazioni o false sicurezze e senza temere il disimpegno o l'apatia. Lasciamo che lo sport resti un piacere, non chiediamo prestazioni impossibili e offriamo l'opportunit di giocarsi tutte le risorse senza paura di un giudizio negativo, e avremo tutto l'impegno che serve. Chi ha pratica di Mental Traning sa come allenare l'atleta a trovare le condizioni di massima efficacia, sicurezza e recettivit e a far arrivare concentrati alla gara. In particolare, a scoprire i meccanismi, le sensazioni e le implicazioni psicofisiche di quella che stata la gara migliore, in modo che latleta la sappia riproporre e usare come qualsiasi altro strumento dello sport. E se non sappiamo come fare, evitiamo solo gli errori e lasciamo che si concentri come vuole. Se non lo assilliamo e non gli creiamo inutili paure, va da solo a recuperare, tra le esperienze positive passate, quelle che sono pi vicine al rendimento migliore e, se allenato a riviverle, subito nella condizione psico-fisica adatta alla gara. I vecchi metodi Vi sono teorie, o spesso solo convinzioni, dure a morire. Come le lunghe "concentrazioni", cio pensare e prevedere tutto, avere pronte soluzioni e contromisure e cancellare ogni sensazione e pensiero estranei alla gara, mentre la condizione ottimale si trova in un istante e non si pu costruire in un momento di tensione. Specie

negli sport di situazione, dove non servono schemi da ripetere, ma lucidit per inventarne di nuovi o trovare soluzioni non previste, pi si cerca di concentrarsi pi difficile avere tutto chiaro, e alla fine questa confusione porta ad essere sempre pi insicuri e meno concentrati. O la convinzione di dover fare comunque qualcosa, come se l'atleta avesse sempre bisogno di qualcuno che lo porti per mano, ma la concentrazione sicurezza, padronanza e prontezza per decidere, condizioni che con un intervento esterno, oltretutto carico di emotivit, possiamo solo mettere in dubbio. C' chi pretende di fare la preparazione diversa per la partita importante, ma cos la rende pi difficile e crea insicurezza. Oggi quasi tutte le gare sono importanti, e si preparano in modo diverso possono diventare difficili o impossibili. Prepariamole sempre allo stesso modo, e se non sappiamo come lasciamo fare a loro, altrimenti come dire che non ci fidiamo e non li riteniamo capaci di farcela da soli. Chi d la formazione all'ultimo istante, in modo che i titolari non si deconcentrino e le riserve non si abbattano, ma difficile che un atleta tenuto sulla corda poi risponda. A parte che quasi tutti sanno gi prima se scenderanno in campo, l'incertezza scoraggia o irrita proprio quelli che sono in bilico, che avrebbero pi bisogno di tranquillit e sicurezza. Chi fa il sermone di incitamento, oppure si mostra preoccupato o troppo tranquillo, ma parlare o fare scene non utile, anche perch cos si dimostra che l'atleta ha bisogno di essere stimolato per fare ci che ha tutto l'interesse a fare da solo. Soprattutto, se facciamo noi qualcosa che dovrebbe essere gi chiaro e implicito, gli diciamo che non lo sa fare e non ce la far da solo. Con questi stimoli, quindi, accentuiamo le difficolt e gli diciamo che non pronto, che il compito troppo grande e che ha bisogno di un intervento che non dipende da lui. In pratica, creiamo paura e insicurezza per dare coraggio, e questo un controsenso. Infine, c chi fa appello all'orgoglio, alla "rabbia" o allo spirito di rivincita. Se continuiamo ad invocare strumenti che sono sotto la sfera emotiva e non chiamano in causa la padronanza della situazione, il giudizio, l'analisi, la creativit e l'iniziativa personale, finiamo per appellarci a risorse ipotetiche e non controllabili invece che a quelle reali.

Dopo Dopo la vittoria lo sport esulta, e dopo la sconfitta recrimina o inveisce e, in ogni caso, al massimo cerca gli errori. Bene l'entusiasmo, se solo fisiologico: libera da tensioni, rinsalda i vincoli e la partecipazione e d sicurezza. Ma le reazioni emotive, lo scavare negli errori, lo scaricare la delusione sugli atleti o il pensare di risolvere tutto con un insulto o una punizione d solo insicurezza e tensioni, e non fa nulla per non ripetere gli errori o la sconfitta. Limitarsi a esultare o criticare, quindi, non basta. La gara va interpretata e capita prima che si perdano le condizioni positive e negative che l'hanno determinata. Serve cercare cosa mancato, come e cosa si poteva fare, cosa si imparato e cosa fare un'altra volta per fare meglio, perch si sbagliato e come risolvere l'errore, cos' che ha fatto vincere. Quando farlo? Dopo una sconfitta meglio lasciar sbollire la delusione, mentre dopo la vittoria va bene sempre, anche se il momento migliore alla ripresa degli allenamenti, quando c' meno euforia e pi obiettivit e si possono subito mettere in pratica le idee e le proposte nate dalla discussione. Ma non basta trovarsi un'ora nello spogliatoio. La disamina della gara giocata e l'impostazione di quella da giocare, se c' dialogo e collettivo, si fa in ogni momento dell'attivit. il caso di parlare con il singolo o in gruppo? preferibile che non ci siano rapporti e dialoghi esclusivi o privilegiati, ma possiamo parlare con il singolo se la questione riguarda solo lui. Pu trattarsi di un comportamento o di un proporsi sbagliato nei confronti della gara, del collettivo o degli avversari di cui l'atleta non consapevole, o di qualcosa di cui lo fin troppo e che impone una chiara presa di posizione che lo potrebbe mettere in difficolt nei confronti dei compagni. Ma sempre meglio parlare tutti insieme. Sia perch ci che si dice a uno riguarda anche gli altri e diventa un insegnamento e, sia, perch se vogliamo creare un linguaggio comune non utile parlare con uno in un modo e con gli altri in un altro. Inoltre, la partecipazione risolve i problemi meglio di come potremmo fare noi e, infine, l'analisi collettiva di un errore pu far trovare la soluzione o far capire che a volte dietro uniniziativa non riuscita c' un colpo di ingegno.

Lerrore Parliamone senza cercare dei colpevoli su cui sfogarci e senza soffermarci troppo, perch non si tratta tanto di correggere l'errore quanto di analizzare le condizioni appena precedenti ed elaborare la soluzione giusta. Cerchiamo di capire cosa non stato fatto da tutti e cosa si sarebbe potuto fare perch il singolo lo evitasse, come si sarebbe potuto agire se si fosse capito che dietro l'errore c'era una proposta e, comunque, come si sarebbe potuto rimediare. Cerchiamo dunque un clima di cooperazione dove l'errore un'intenzione che vorrebbe essere costruttiva o un progetto che il singolo e la squadra non sono stati in grado di concretizzare e, dunque, uno spunto per trovare insieme una soluzione. Come trattarlo? Quando si tratta di un errore vero e proprio, l'autore ne gi consapevole, di sicuro cercher di non ripeterlo e ci sar molto grato se non gli creeremo altro disagio. Quando, invece, dipende da una scelta, trasformiamolo in un tentativo non riuscito, in un'intenzione non concretizzata o, comunque, nella mancanza di qualcosa che dobbiamo cercare tutti insieme. Se ne parla. Chi l'ha commesso spiega: cosa voleva fare, se ha sbagliato nella decisione, nell'esecuzione o negli obiettivi, dove non riuscito a farsi capire e dove hanno mancato i compagni. E poi si discute, e magari si scopre che dietro c' un colpo di ingegno che senza l'errore non avremmo mai scoperto. Cos chi l'ha commesso ha modo di rassicurarsi, di farsi capire, di sentirsi comunque apprezzato, di prendere coraggio per riprovarci anche quando non sicuro di riuscire, di scoprire che magari ha qualche risorsa in pi da dare. Mentre la squadra ha modo di pensare sulla stessa lunghezza d'onda, di scoprire un'altra soluzione e di capire che lavorando insieme si risolve qualsiasi problema. E noi riusciamo a sapere come la pensano tutti, a farli lavorare di ingegno e ad insegnare sul "pratico", sul fatto e non solo sulla lavagna. La gara giocata bene Innanzitutto, diamo a tutti il giusto riconoscimento senza paura di appagarli, perch la motivazione pi efficace per rendere il sentirsi apprezzati per ci che si fatto. Ma senza esagerare, perch la lode non pu essere usata come stimolo, ed credibile solo se distribuita assieme a una realistica disamina dei meriti e di eventuali casualit

favorevoli. L'analisi della gara giocata bene serve per capire ci che si fatto di buono e trovarne le regole e i meccanismi, per scoprire i fattori della continuit e del rendimento, per trasformare i dati positivi in una conoscenza di tutti e in uno strumento che, una volta acquisito, diventa il modello da applicare sempre. Ma, soprattutto, serve per trovare lo stato psico-fisico che sta alla base del rendimento ottimale, che un sentirsi al massimo provato anche una sola volta o la somma di momenti isolati che l'atleta allenato sa mettere insieme e gettare in campo in ogni momento della gara. Lo spazio per essere creativi Occorre misurarlo se pretendiamo troppo e non seguiamo gli allievi nei loro tentativi, ma se trasmettiamo e troviamo interessi e obiettivi che soddisfano loro e le esigenze dell'educazione e discutiamo insieme in modo che abbiano sempre idee chiare, ogni esperienza una gratificazione e uno stimolo, e mai un rischio. Dobbiamo non sovraccaricarli di dubbi e inutili richieste di perfezione, o non pretendere che tutto ci che fanno debba essere subito funzionale. Di l in poi si abitueranno da soli a non disperdersi in iniziative confuse, a sapere cosa vogliono e a impegnarsi solo in esperienze che sono alla loro portata. Ci vogliono per tempo e tentativi andati a vuoto, perch il bambino dispersivo e non ha bisogno di trovare uno scopo pratico in tutto ci che fa. Vuole vedere "cosa c' dietro", provare e capire fin dove pu arrivare, e questi per lui sono stimoli sufficienti per imparare a misurarsi con tutte le sue forze e a cercare di capire cosa gli serve e come raggiungerlo. Questo allenamento "naturale" porta gli allievi a cogliere solo gli aspetti pi concreti e ad agire con l'efficacia possibile, ma intanto li prepara per affrontare obiettivi pi lontani. E li rassicura, giacch li porta a individuare e circoscrivere sempre meglio gli obiettivi e i percorsi per raggiungerli. Il bambino, come tutti, diventa frenetico e incerto per insicurezza, quando non sa come e cosa fare e c' qualcuno che gli prende i tempi e le misure per valutarlo. Vi addirittura chi pretende che vadano "pi in l delle proprie risorse per non frenarli nelle ambizioni". Qui il termine ambizione assume un significato ambiguo: pu non significare chiedere tutto ci che permesso alle loro forze, che lo stimolo pi immediato e proficuo, ma mettere davanti prospettive grandiose e irrealizzabili, che li scoraggiano e li fanno sentire inadeguati.

In questi casi, siamo di fronte a una delle tante contraddizioni dei sistemi tradizionali. Un bambino posto di fronte a traguardi ipotetici o troppo lontani, che di solito sono le nostre ambizioni e non le sue, non impara a muoversi da solo, a riconoscere la validit di ci che sa fare e a scoprire gli strumenti per andare pi in l di ci che conosce. E alla fine si scoraggia e rinuncia o deve cercare conferme nell'opinione degli altri, e questa insicurezza diventa il vero freno alle ambizioni. Quindi, creiamo condizioni perch gli allievi possano valutare, scegliere cosa e come meglio fare, e desiderare ci che alla loro portata, in modo che non si disperdano in dubbi e possano verificare subito se sono all'altezza. Stabiliamo chiari limiti e obiettivi entro i quali possono sentirsi sicuri e garantiti nelle loro azioni, e non abbiamo paura che questa cautela li spinga a rinunciare o ad appagarsi di ci che pi a portata di mano, perch se operiamo perch siano sicuri e consapevoli e non poniamo richieste generiche, ma li impegniamo a mettere in campo tutte le loro potenzialit, difficile che vadano avanti per tentativi e illusioni. Lo sviluppo del bambino dotato Lo sport uno degli strumenti e degli stimoli pi potenti per la formazione della persona, ma per chi si differenzia per una maggior dotazione pu essere educativo o diseducativo secondo come si propone ed usato dall'istruttore, dalle societ, dall'ambiente e dalla famiglia. Linfanzia Gi al primo contatto con il gioco scopre di essere pi abile, di possedere una miglior coordinazione motoria e di poter prevalere sui coetanei. Questo primo favorevole collaudo gli consente di valutarsi e sentirsi valutato per qualcosa che fa meglio degli altri e di non patire troppo linadeguatezza nei confronti dell'adulto. Gli errori sono trattarlo da predestinato, chiedergli troppo o troppo poco, o troppo presto o troppo tardi, sbagliare tempi e modi dell'insegnamento, non offrirgli opportunit per collaudare liniziativa, lingegno, la creativit e lautonomia, e sottoporlo ad una specializzazione per la quale non possiede ancora i mezzi fisici, intellettivi e, addirittura, fisiologici. Nonostante l'evidenza e le conoscenze sullo sviluppo, si crede che pi precoci e insistiti sono gli insegnamenti, i sistemi di lavoro e la specializzazione, pi rapidi sono l'assimilazione

della tecnica e della tattica e la formazione del carattere, mentre il bambino non ha ancora le strutture adatte per fare un lavoro, integrarsi o fornire l'impegno razionale che si richiede all'adulto. O si crede che giocare solo per vincere formi lo sportivo completo, mentre a livello giovanile ogni gara deve servire prima di tutto per imparare, creare senza l'assillo di non poter sbagliare e sviluppare qualit che subito possono non sembrarci utili, ma faranno vincere quando vincere sar il vero obiettivo dello sport. Lo sport e i genitori si facciano un conto e una domanda: alla professione arriva uno su oltre trentamila, e allora giusto trattare tutti con il sistema che dovrebbe andare bene per uno solo? Il sistema negativo per tutti, e ancora di pi per il talento, anche se ha una miglior dotazione che lo rassicura e ha maggior spazio per lasciar libera linventiva. Vi una considerazione ovvia, ma ignorata: l'infanzia non cerca conoscenze definitive, ma lo sviluppo di capacit di fondo e certezze che sono la base dei comportamenti successivi e di tutte le conoscenze. Per capacit di fondo possiamo intendere: la capacit di criticare, capire, creare e decidere, il sapersi correggere e trovare da soli le soluzioni, la sicurezza e il coraggio per provare e non tirarsi indietro di fronte alla difficolt o al rischio di non farcela, la consapevolezza di potercela fare con le proprie forze, che ci pu sempre essere ancora una soluzione e che dipende da noi il trovarla, la garanzia che un errore pu essere apprezzato per l'impegno e le intenzioni, la padronanza dei propri mezzi e delle situazioni, l'iniziativa consapevole e non comandata e tutto ci che serve per essere sempre pi adeguati alle esigenze dello sport, che sono eccessive solo se lo sport continua ad ignorarle o a non preparare ad affrontarle. Non ingabbiamo quindi il bambino in schemi che lo costringono solo a imitare. Sviluppiamo tutto ci che possiede in potenza, e su quello modelliamo gli apprendimenti e gli sviluppi successivi, compresi la specializzazione tecnica e tattica, l'insegnamento e l'assimilazione del gesto del campione. Oggi si costruiscono pochi schemi su una base troppo stretta e si penalizza proprio il talento, che ha pi mezzi da scoprire e sviluppare ed tale perch sa creare il proprio gesto, e non solo perch sa imitare il campione. Dunque, uno sport attento alle qualit di ognuno e alle fasi di sviluppo offre al bambino l'opportunit di un confronto con i coetanei e con modelli raggiungibili, la possibilit di valorizzare la propria dotazione individuale, di eseguire o di imitare il campione senza rinunciare ai propri caratteri specifici. Ma offre anche l'opportunit di allenare l'intesa, la

comunicazione, l'inventiva, la cooperazione e quelle qualit innate il cui sviluppo richiede preparazione intellettiva e culturale. I rischi e i condizionamenti nei primi anni di sport Lo sport e la famiglia impongono un primo collaudo che pu diventare fattore di squilibrio evolutivo e avviare lo sviluppo di tratti del carattere che pi tardi diventeranno abitudini. Per esempio, considerarsi il soggetto che condiziona, vince e ha tutti al proprio servizio, e quindi non costruttivo, poich non si sa porre alla pari, non impara e non coopera, ha difficolt a adattarsi alle richieste dello sport e, di conseguenza, non arriva al livello al quale essenziale l'integrazione dei contributi di tutti. Privilegiare settori e situazioni garantiti dalla migliore dotazione e evitare situazioni in cui deve sottostare a condizioni non "facilitate" nelle quali si deve misurare alla pari, ma levoluzione ha bisogno di percorsi non pianificati o garantiti e di confronti nei quali si pu perdere, ma si devono impiegare ingegno, creativit, iniziativa, invenzioni e prontezza per capire e correggersi. Nello sport giovanile il limite vedere tutto in funzione della gara subito e solo per vincere. Ovvio, lo sport e il naturale desiderio di competere vogliono prima di tutto la vittoria, ma il bambino costretto a non rischiare, a usare e scegliere solo mezzi e gesti gi collaudati e percorsi senza rischio, a non uscire da direttive rigide o a impiegare tanti marchingegni invece di creare soluzioni, pu vincere una gara, ma non sviluppa tutte le risorse di cui dispone e non ne impara l'uso che, andando avanti, diventa strumento essenziale. L'obbligo di vincere, inoltre, connesso a una paura eccessiva di perdere, e alla fine si arriva ai trucchi e qualche volta agli aiuti artificiali, tutte scappatoie che incidono allo stesso modo sulla persona e sulle qualit che servono allo sport. E un simile atteggiamento un limite fuori dello sport, dove si trascurano altri settori e possibilit e non si pu realizzare una piena evoluzione. Le attese eccessive e premature finiscono per non far sentire all'altezza di ci che si aspettano l'istruttore e, pi ancora, la famiglia. Osservando lo sport, si vede ogni tipo di genitore. Per esempio, chi -manipola la realt per proteggere il figlio da qualsiasi difficolt e impegno fuori dello sport, compresi a volte addirittura quelli formativi come la scuola, - disposto a tutto, fino a mentire o prostrarsi, pur di farlo vincere, - rigido e troppo correttivo, e guarda solo agli errori per "formargli il carattere",

-non valorizza l'impegno e le intenzioni e, dunque, toglie il coraggio per provare ad andare oltre e rischiare quando possibile non riuscire, -lo mette contro di tutti per abituarlo a difendersi e a manipolare le situazioni a proprio vantaggio, -vede traguardi magici e toglie valore a ci che il figlio pu realmente fare, o lo valuta solo per i successi, quando il bambino non ha ancora la maturit e la preparazione per assorbire le inevitabili sconfitte. Per fortuna, c anche il genitore che sta dalla nostra parte. quello che crea un clima armonico e struttura lo stile di vita del figlio su un positivo equilibrio personale, sulla capacit di valutare in modo realistico le proprie forze e le difficolt da affrontare, sulla disponibilit a mettersi sempre alla prova e a vivere lo stesso equilibrio anche nei rapporti con gli altri. L'essenza dell'educazione diventa allora un clima in cui contano prima l'impegno e le intenzioni e solo dopo le realizzazioni corrette. Queste verranno pi tardi, mentre subito servono il coraggio per giocarsela sempre tutta e saper stare con l'"altro", che il fare tutta la propria parte e il vivere rapporti fondati sulla cooperazione, sul riconoscimento e sul rispetto reciproco, cio su un'intesa costruttiva, senza la quale non si hanno apprendimento e evoluzione. La preadolescenza e ladolescenza Non sono le et di cui ci occupiamo, ma non possiamo ignorarle, poich le dobbiamo preparare. Verso i 12 anni, il preadolescente che si distingue dagli altri ha gi evidenziato attitudini che influenzano l'ambiente. Il modello educativo familiare, per esempio, pu subire un cambiamento perch troppi genitori rinunciano al ruolo di guida. C' chi diventa permissivo e meno esigente altrove e non chiede responsabilit al figlio purch si impegni nello sport, che diventato l'obiettivo. Chi lo manipola con giudizi eccessivi, perch convinto che cos lo pu caricare, o al contrario, con la delusione o una maggior durezza per farlo reagire. O chi lo lascia solo perch non crede nello sport o lo vede in contrasto con la scuola. frequente che i naturali conflitti tra genitori e figli si sopiscano per una pi concreta affinit di interessi e di obiettivi, ma a volte anche perch il figlio prende in mano la situazione. Vediamo per esempio il genitore, all'apparenza rigido e severo, che in realt recita la parte del servitore della carriera o delle pretese del figlio. Oppure quello che perde obiettivit e

senso critico e non chiede pi responsabilit e, come fa con la scuola, giustifica le sue logiche difficolt con le preferenze, strani interessi o l'incompetenza dell'allenatore. La conclusione che pochi sono disponibili a un incoraggiamento realistico e alla responsabilizzazione, e molti creano nuove illusioni, a cominciare da quella troppo abituale di possedere capacit superiori a quelle reali. La stessa illusione, a volte, prende anche noi: al campioncino concediamo tutto, gli permettiamo di sentirsi sopra le regole, gli chiediamo che vinca per noi e ci faccia diventare "pi importanti di tutti", oppure diventiamo troppo esigenti perch, secondo noi, pu tutto e non ci pu deludere. La preadolecenza e l'adolescenza, dunque, sono momenti di collaudo e di verifica sempre pi intensi, nei quali l'intesa e il confronto con i coetanei possono diventare grandi stimoli evolutivi o, al contrario, motivi di insicurezza. Ma, in modo paradossale, questo collaudo conta sempre meno nello sport, dove il giovane ormai entrato in un processo di formazione "industriale", che offre apparenti garanzie di "essere nel giro" in modo definitivo, ma toglie anche molti stimoli ad evolvere. Se facciamo un salto nel grande sport, Trapattoni dice abbiamo ragazzi bravini, ma tutti uguali, che si applicano con diligenza, ma aspettano di essere imboccati. Non vedo pi vampate d'ingegno o ragazzi presi da un'iperattivit disordinata, capaci di meravigliare e far capire che sotto c' la creativit e l'inquietudine del talento Quindi, nello sport abbiamo una sicurezza solo apparente, un torpore, perch fuori non cambiato nulla. Il ragazzo che ha acquisito una misura appagante, ma non realistica, di s nello sport, non ha eliminato le difficolt negli altri campi, ed il motivo pi rilevante del ricorrente abbandono della scuola o di una frequenza improduttiva, se non spesso solo formale. A questo proposito, le Societ dicono di sorvegliare, ma scopriamo che tante scuole sono facilitate e che "la scuola prima di tutto" conta finch va bene lo sport, ma passa in sottordine appena lo sport va in crisi. E quelli che vanno avanti? Troppi abbandonano gli altri interessi, e il fatto non irrilevante. Chi non esercitato in tutti i settori, e soprattutto in quelli necessari per maturare in armonia con il proprio ambiente culturale, finisce per non raggiungere i traguardi possibili neppure nello sport.

La squadra di bambini Si parla spesso di gruppo anche per i bambini, ma in realt il bambino individualista, pensa solo al proprio gioco e non sa ancora lavorare, mentre il gruppo una somma di soggetti vincolati da norme chiare che permettono di produrre insieme in gara e fuori, e da precisi modi di vita e di lavoro. Tuttavia, occorre operare perch gradualmente il bambino impari modalit di relazione e di operativit che stanno al di sopra dei caratteri dei vari componenti e si adatti al modo di operare di ognuno. Il modo far partecipare tutti ad ogni momento del gioco e dell'attivit, scambiare contributi, creare insieme e fissare obiettivi comuni, non lasciar nascere rivalit e conflitti e stimolare intesa e cooperazione. Il gruppo influisce anche sullo sviluppo. Fino ai 9-10 anni non conta come tale, ma solo perch offre situazioni, stimoli affettivi e occasioni di gioco, di confronto e di collaudo. Il bambino non sa giocare per il collettivo, tenere una determinata posizione tattica a vantaggio della squadra e a svantaggio dell'iniziativa libera, o "lavorare" per qualcosa che a momento non lo interessa e non lo appaga solo per avere vantaggi pi tardi. Pi tardi, il gruppo diventa palestra di collaudo per le attitudini a fare insieme, a partecipare ed essere disponibili e solidali, a sentire di appartenere a uno stesso contesto, a far riferimento alle stesse regole, a prefiggersi obiettivi che richiedono il contributo di tutti e a sommare le forze per conseguirli. Quindi, offre tutte le occasioni per integrarsi con gli altri e trarne vantaggi, ma non subito automatico che ci avvenga, specie se noi o i genitori diamo solo ordini e stimoliamo il singolo a badare soprattutto o solo a se stesso. Per esempio, quando promuoviamo una competitivit esasperata o non lasciamo libert di fare, facile che non raggiungiamo nessuno dei vantaggi impliciti in una condizione di gruppo o, addirittura, che il gruppo sia un modo di dire o solo un contesto in cui non dovrebbero nascere rivalit, o sia vissuto come rischio di non poter emergere. Con i bambini si pu cominciare a parlare di gruppo dopo gli undici, dodici anni, quando la squadra inizia ad avvertire lutilit di un clima operativo stabile in cui si ricercano e si sommano i contributi in vista degli obiettivi comuni e ad accettare norme condivise, e il singolo a comprendere che per evolvere occorre mettere il vantaggio collettivo davanti a quello personale o, meglio, farli coincidere.

Allora possiamo lavorare per creare condizioni in cui tutti i componenti -si pongono in una situazione psicologica e operativa in cui l'apporto e il modo di comportarsi del singolo si adattano a quelli di tutti gli altri e li condizionano (reciprocit e interazione); -adottano un modello unitario, nato dal contributo di tutti, che uniforma i comportamenti ed esclude il perseguimento di scopi solo individuali (integrazione); -ne conoscono le modalit e i vincoli e sono consapevoli di appartenervi (appartenenza); -sommano le forze in vista degli obiettivi comuni prima ancora che per soddisfare quelli personali (cooperazione e solidariet); -apportano contributi e idee originali secondo le possibilit di ognuno (creazione). Il gruppo e listruttore Listruttore elemento essenziale del gruppo, ma per diventarlo deve riscuotere la stima e la fiducia di tutti. Se le riscuotiamo, lo capiamo non da manifestazioni esteriori, ma dalla disponibilit degli allievi a seguirci. Quando, cio, gli allievi, anche se ancora bambini, -imparano ci che noi insegniamo e lo mettono subito in pratica, non hanno dubbi o, se li hanno, li manifestano per avere una risposta, -cercano di sapere e utilizzano ci che abbiamo insegnato per andare pi oltre, si impegnano, partecipano e portano contributi, -non sviluppano conflitti con noi o tra loro, sono interessati e rispondono a tono, hanno con noi un rapporto di collaborazione nel quale non vi per forza un accordo, ma vi sempre l'intenzione di trovarlo. Quindi, osserviamo i comportamenti e non andiamo a cercare verifiche verbali o attestati di stima, perch se facciamo fin troppo per conquistarci fiducia o adesione, facciamo vedere di averne troppo bisogno, e cos le perdiamo. Pi tardi, in un gruppo l'allenatore diventa l'esperto che coordina le idee di tutti, esercita la funzione di critica e di freno quando la creativit della squadra ancora disordinata, e di stimolo e di propositivit dove non sa arrivare da sola. In questo modo si trova nella condizione di non dover far fronte a conflitti e reazioni, poich fonda il

lavoro sullo scambio e sulla partecipazione di tutti, e quindi dispone della massima adesione, e si trova in quella condizione davvero unica di poter indirizzare la creativit e l'iniziativa verso scopi costruttivi. Il gruppo, quindi, la condizione che riconosce l'indispensabilit, e, dunque, l'autorit dell'allenatore, il quale viene ad assumere la posizione di guida, inserita a tutti gli effetti nella struttura della squadra. Nel caso contrario, quando non riusciamo a creare un clima di cooperazione che soddisfi le motivazioni e la spinta a partecipare, o tentiamo di mantenerci distanti per eccesso di autoritarismo o per decisione di non farci coinvolgere nella struttura relazionale del gruppo, di volta in volta otterremo mancanza di sicurezza, adattamento passivo, disinteresse a partecipare e reazioni ostili, tutte condizioni che si presentano non appena gli allievi si rendono conto di non poter contare sul nostro aiuto, non accettano pi di essere trattati come pedine o si oppongono perch capiscono la nostra debolezza. La distanza e la troppa vicinanza Come il caso di non far sentire troppo la distanza e la differenza, non neppure il caso di negarle. Abbiamo ruoli e compiti diversi che devono rimanere tali, perch un legame che li mascheri si traduce in una protezione o in una perdita di autorit, e uno che li accentui ostacola la formazione del gruppo, ma tutti dobbiamo ubbidire alle stesse regole, partecipare allo stesso clima e avere gli stessi obiettivi. A volte qualcuno prova addirittura l'assillo di farsi sentire "uno del gruppo". Con gli adulti mancanza di sicurezza, un tentativo di disarmare eventuali contestatori o una manipolazione per ottenere la massima collaborazione. Se il "sentirsi uno di loro che ne sa di pi" un atteggiamento naturale e vissuto, si avr una risposta positiva mentre, se forzato, probabile che si risolva in un tentativo poco realistico di ottenere adesione o, almeno, di non stimolare eventuali contrasti. Col bambino, invece, il desiderio di proteggere o di ottenere affetto, cosa questa in ogni caso poetica e apprezzabile, ma con le dovute cautele, poich noi abbiamo lobbligo di educare e correggere, e non possiamo continuare gli errori del genitore o

voler compensare il bambino della mancanza di affetto e di rapporto che pu subire in famiglia. Chi non ha spirito di gruppo C' chi fa bene tutto, e anche ci che richiede collaborazione e intesa, ma preferisce stare solo e non vuole legami, chi troppo timido per lasciarsi andare a un rapporto che richiede di sapersi proporre alla pari anche fuori del gioco, chi proprio non ne vuole sapere degli altri, senza per questo risultare negativo, e chi arrogante e presuntuoso. Tante volte, quando non ci sono arroganza o spregio e la squadra mostra comunque una coesione costruttiva, il caso di fare niente, perch non serve e non ce n' bisogno. In ogni caso, facciamo di tutto per creare un clima gradevole e di intesa, cerchiamo di condurre la squadra in modo che si trovino tutti a creare e fare insieme, inventiamo attivit che richiedono di cooperare, e vigiliamo che sia fatto tutto ci che serve per il gioco, anche se qualcuno preferisce restare per conto proprio. Di l in poi, lasciamo che facciano come vogliono, perch si pu giocare bene anche senza essere amici e, soprattutto, perch la partecipazione affettiva una scelta e non la risposta a un comando. Quando, per, ci accorgiamo che la mancanza di spirito di gruppo timidezza o imbarazzo dobbiamo intervenire, ovviamente senza affrontare di petto il problema, ma creando situazioni di cooperazione, perch per un giovane sentirsi rifiutato sempre una grossa sofferenza. Chi ha difficolt a inserirsi nel gioco Chi non riesce ad inserirsi nel gioco pu anche solo non averne le attitudini, ma sempre probabile che abbia anche difficolt a inserirsi nel gruppo. Linserimento, infatti, dipende anche da come fatto ognuno. C' chi: - timido e ha paura di sbagliare, di essere giudicato o di non essere abbastanza apprezzato, e allora preferisce tenersi ai margini, dove pu passare pi inosservato; -pensa di poter stare sopra di tutti, ed tanto presuntuoso, o anche arrogante, da non volersi adattare agli altri e alle esigenze del gioco;

- abituato a schemi e modi diversi e non si sa adattare, o non sa ragionare con la propria testa perch non stato allenato a farlo; -viene da un gruppo pi evoluto e avrebbe molto da proporre, ma gli altri non lo seguono, oppure la squadra che non offre l'opportunit ai nuovi arrivati di inserirsi. Qualcuno non si inserisce mai perch poco portato a ragionare e a integrarsi con gli altri, ma in questi casi c' probabilmente anche qualche errore da parte nostra o qualcosa che possiamo fare, come capire quali sono le difficolt e ascoltare le proposte, organizzare l'attivit in modo che si ragioni e si operi insieme, ognuno porti i propri contributi e si pervenga a scelte e soluzioni comuni. In definitiva, facciamo in modo che comunichino, e sar pi facile che parlino lo stesso linguaggio anche nel gioco. Il tempo per creare un gruppo e lavorare sulla psicologia Proprio dove c' meno tempo obbligo usarlo al meglio. Teniamo sempre vivo il dialogo e trasformiamo tutti i tempi e i discorsi morti in una ricerca di soluzioni o in un'occasione per confrontarsi, ragionare e operare insieme, e lavoreremo con molta pi efficacia e guadagneremo tempo. L'errore nasce dal credere che fare gruppo significhi mettersi tutti seduti e parlare, usare le parole migliori per spiegare e convincere, fare richiami a valori fumosi o dire come vorremmo fossero il singolo e la squadra. Lavorare sulla psicologia significa, invece, creare le condizioni perch tutti sentano di partecipare come soggetti attivi e non solo come esecutori, e insegnare tecniche per il rendimento che chiamino sempre in causa il singolo e la squadra. Immaginiamo quindi una squadra in cui non c' bisogno di dire e spiegare tutto, perch ognuno pensa in proprio e si sforza per fare la propria parte, o di controllare se hanno capito e lo mettono in pratica: non si perde mai tempo, poich tutti sanno gi cosa fare e partecipano anche nel pensarlo e nel modificarlo. Se saremo capaci di creare questo clima, di sicuro ci saranno pi interesse e attenzione e sar molto pi veloce anche il lavoro. Il gruppo nello spogliatoio

Se vogliamo creare armonia e gruppo, trattiamo gli allievi come persone e approfittiamo dello spogliatoio, e anche di ogni altro momento libero dal gioco, per chiamarli in causa e farli partecipare all'analisi di tutti gli aspetti del lavoro, alla formulazione di proposte e alla ricerca di soluzioni. Certo, sulla conduzione di un gruppo occorrono conoscenze, ma basta anche solo non trattarli come soggetti dipendenti nella attesa di ordini e di soluzioni, offrire la possibilit di contare per le proprie idee, lasciare spazio alla creativit e al piacere di fare, e eliminare gli interventi solo formali che non chiamano in causa la partecipazione e l'iniziativa. In sintesi, il gruppo ha bisogno di dare sbocco alla partecipazione, alla creativit e all'iniziativa di tutti, e per questo servono condizioni dinamiche in cui si ragiona, si decide e si fa insieme. Ed tale quando ognuno sente di appartenere a un contesto in cui esistono modi di operare e vincoli comuni, dove ci si adatta e si risponde a ci che pensano e fanno gli altri, e in cui si sommano le forze per raggiungere gli stessi obiettivi, in modo che il vantaggio del singolo si realizzi attraverso il vantaggio di tutti. La panchina e il gruppo Tra gli adulti il guadagno un incentivo che sopisce molte tensioni e fa gruppo, anche se facile che i meno utili non ne facciano mai davvero parte e siano i responsabili degli insuccessi, ma anche il piacere di giocare un grande stimolo, tanto che la maggior parte di chi fa sport ha ben chiaro che non guadagner mai, eppure gioca sempre con entusiasmo. Tutto sta nel fare in modo che giocare sia un piacere e non un peso. Se lallenatore impone vincoli, pressioni e comportamenti professionali senza concederne i vantaggi, si lascia andare a piccole ingiustizie, mostra delusione per giustificare lesclusione o usa modi troppo rigidi, c' poco da divertirsi e basta poco per stufarsi dello sport. Ed anche ovvio che chi si impegna viene per divertirsi e accetta la parte meno gradevole dell'attivit, ma poi vuole giocare e non rimanere sempre in panchina. La societ vuole vincere, ma la soluzione logica di avere solo la panchina indispensabile, far giocare tutti e non fare il turnover come in serie A, cio prendere decisioni che non dipendono da ci che ognuno fa per meritarsi il posto. Anche perch

l'avere giocatori sempre pronti e motivati fa anche vincere. In ogni caso, quando si ha a che fare con i bambini, lidea di non far giocare i meno bravi per vincere una partita dovrebbe convincere a sollevare listruttore dallincarico, e forse anche la societ, perch non si pu essere cos diseducativi. Un rimedio per le et successive e dove conta di pi vincere? Chi sta fuori patisce perch non gioca, ma ancora di pi perch non conta, e allora facciamolo contare per le opinioni, le proposte e una partecipazione attiva a tutte le fasi dell'attivit, in modo che non si senta escluso e inutile. Quanto conta il rapporto di gruppo Tra gli adulti, specie se professionisti, conta perch il clima pi esasperato, gli interessi maggiori, le conseguenti rivalit e la giusta convinzione di essere stati acquistati per giocare costituiscono spesso le maggiori difficolt. Sul piano pratico, per, conta di pi, perch consente un'operativit pi organizzata e va ad agire sul rendimento. Lo vediamo in certe situazioni fortunate e capitate quasi per caso, dove squadre di livello tecnico inferiore riescono a colmare il divario proprio per un'operativit, una coesione e un'armonia di gruppo magari solo provvisorie, ma capaci di aumentare il rendimento di tutti. Tra i bambini, anche se individualisti e poco disposti a lavorare per gli altri, si deve gi cercare di fare gruppo stimolando la partecipazione, la cooperazione e un'operativit collettiva ma, in modo diverso da quanto accade tra gli adulti, dove si gioca prima di tutto per il risultato, stiamo pi attenti a creare un clima il pi possibile interessante e piacevole e a organizzare qualche momento di intesa anche fuori del campo. Il bambino gioca come tutti per vincere, ma di pi per il semplice piacere di giocare, e allora il gruppo pi importante sul piano affettivo e di "ambiente", perch il contesto in cui si sente pi accettato, inserito e valorizzato.

Bibliografia

La pancia degli atleti Barbara Rossi - Edizioni Nuova Prhomos Citta di Castello 1997 Il mental coaching nello sport di alto livello Albero Cei SDS n. 87 Edizioni Calzetti e Mariucci Ottobre 2010 La magia del pregara Margherita Sassi Absolute Sport Magazine n.4 Edizioni Nautilus Agosto 2010 La donna atleta e linterazione con lallenatore Bruna Rossi SDS n. 84 Edizioni Calzetti e Mariucci Gennaio 2010 Gli stati dellumore e la carriera sportiva Barbara Rossi GIPS n.8 Edizioni Calzetti e Mariucci Agosto 2010 Il training autogeno non magia G. Calderaro Edizioni Spada - 1979 Psicopatologie femminili nello sport e differenze di genere A.Parroni, M. Corazzi, L. Corazza GIPS n.1 Edizioni Calzetti e Mariucci Gennaio 2008 Musica Trainers digest - SDS n. 87 Edizioni Calzetti e Mariucci Ottobre 2010 Lorientamento dellattenzione nei calciatori Nicola Tullo GIPS n. 9 Edizioni Calzetti e Mariucci Settembre 2010 Resisto dunque sono Pietro Trabucchi Edizioni Corbaccio - 2007 Intelligenza emotiva Daniel Goleman Edizioni Rizzoli - 1999 La psicologia dello sport in 400 domande e risposte Vincenzo Prunelli Edizioni Calzetti e Mariucci 1998 Le domande dei genitori V. Prunelli Societ Editrice Internazionale 2002 Sport e agonismo V. Prunelli Edizioni Franco Angeli - 2002

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