il vento, così a volte sono destinate a scomparire certe storie, ma non sempre. Questo report regala al lettore alcune storie contenute nel libro, ad esempio quella dei tre soldati austriaci giunti in valle per combattere la prima guerra mondiale e mai più tornati a casa. Una storia come tante altre, se non che le spoglie dei tre ragazzi furono trovate oltre ottant'anni dopo in val di Peio, nel 2004. Erano tutti accanto, uniti anche nella morte. Da lì ho avuto l'idea di scrivere la storia di un'amicizia nata da bambini che neppure la morte è riuscita a spezzare. Sono sepolti nel piccolo cimitero di San Rocco sopra l'abitato di Peio, destinati a non avere mai un nome. Per questo ho immaginato di farli rivivere attraverso gli occhi di uno dei protagonisti. E ancora Mitterndorf, campo di prigionia austriaco per la popolazione di Vermiglio (val di Sole) sempre nel periodo del primo conflitto mondiale, dove morirono moltissime persone prima di poter far ritorno in patria. Qui protagonista da una parte è l'intera comunità, scossa e disperata per dover lasciare tutto in pochi giorni e partire per l'Austria, dall'altra il prete del paese che non sa se riuscirà ad essere all'altezza di quel compito: accompagnare la sua gente verso un futuro incerto. Buona lettura!
Lara Zavatteri CHI SONO
Mi chiamo Lara Zavatteri, vivo a Mezzana in val di
Sole (Trentino) e sono una giornalista pubblicista dal 2000.
Scrivo per il settimanale “Vita Trentina” e per
altri siti, inoltre ho realizzato alcuni libri: oltre a Frammenti nel 2006, “La strada di casa” (editrice Uni-Service) nel 2007 con il quale ho partecipato alla Fiera del libro di Torino, la raccolta di racconti “Le Piccole Cose” (Boopen editore) nel 2008, “Reset” (Silele editore) nel 2009.
Nel 2010 a seguito di un esperimento in Rete sul
portale www.eventitrentino.it con le autrici Rossella Saltini e Rossella Giardina ho pubblicato la raccolta dei nostri racconti intitolata “Il Blog Novel di Eventi Trentino” (editrice Uni-Service) mentre un mio racconto è stato pubblicato dalla casa editrice Historica nell'antologia “Bassa marea” (volume secondo). Curo anche il blog di un giovane ingegnere trentino e una rubrica sui libri su Eventi Trentino. I TRE KAISERSCHÜTZEN
Conobbi Hans che avrò avuto sí e no cinque anni. Era
venuto nella bottega di mio padre, falegname di professione, accompagnato da un uomo piccolo e robusto, con dei baffi arricciati all’insù che mi divertirono molto. Bussarono alla porta mentre mio padre, chino in un cantuccio, faceva volare trucioli di legno che riempivano rapidamente il pavimento; siccome era occupato e gli scocciava molto lasciare un lavoro a metà, mandò me ad aprire, raccomandandomi di dire “benvenuto” a chi aveva bussato e di farlo accomodare per capire che cosa volesse. Io ubbidii, aprii la porta e fuori nevicava fitto fitto. Un uomo e un bambino piú o meno della mia età stavano sulla soglia. “Benvenuti” dissi, compiaciuto per aver pronunciato una parola che mi pareva da adulti, e l’uomo sorrise mentre mi facevo da parte per farli passare; il bambino si tolse il berretto di lana che aveva in testa, colmo di neve, mi guardò solo un attimo prima di passare oltre. Nella bottega ardeva un grande fuoco e subito mio padre fece accomodare i due ospiti lí davanti, su degli sgabelli che aveva intagliato lui stesso, mentre dava gli ultimi ritocchi ad un piccolo mobile di cirmolo: come ho già detto, non gli piaceva lasciare a metà un lavoro. Intanto i due uomini parlavano di questo e di quello, dicevano che da tanti anni non si vedeva un inverno come quello; noi bambini stavamo zitti, seduti davanti al fuoco e io non aprivo bocca perché avevo sempre un po’ paura degli estranei. Finalmente mio padre terminò, si alzò dalla panca e avvicinandosi all’uomo chiese cosa desiderasse. Quest’ultimo rispose che voleva un paio di pattini per suo figlio, che era poi il bambino che stava con lui, perché con quel freddo le sponde dell’Inn e dei buoni tratti anche là dove il fiume si faceva piú largo sarebbero rimasti gelati per settimane e lui voleva insegnare a pattinare ad Hans; fu così che conobbi il suo nome. Mio padre chiese il numero, poi prese da un gancio appeso al muro i miei pattini, che usavo dall’anno prima, e li mostrò all’uomo per capire se, uguali a quelli, gli sarebbero andati a genio. Quello disse che erano perfetti e a chi appartenevano quei bei pattini; io allora, per paura che se li portasse via, dissi che erano i miei e aggiunsi con spavalderia che li usavo dall’inverno prima, il che era vero, ma in realtà avevo imparato solo verso la fine della stagione a mantenermi bene in equilibrio. Allora l’uomo, tutto contento, rispose che magari potevo uscire qualche volta con Hans e insegnargli anch’io visto che ormai ero un esperto: scambiò un’occhiata con mio padre come a dire che aveva capito che esageravo un poco. Mio padre si accordò con l’uomo e, prima che riuscissi a dire una parola, erano già andati via ma in cuor mio speravo che il bambino tornasse, perché stavo quasi sempre solo. I ragazzi piú grandi non mi volevano tra i piedi e non conoscevo bambini simpatici della mia età, così fu con vera gioia che rividi Hans, credo due settimane dopo, venuto con il padre a ritirare i pattini: erano riusciti molto bene, precisi ai miei come disse mio padre, ma a me sembrava che i miei fossero piú belli anche se piú consumati. L’uomo chiese se volevo andare con loro, la mattina dopo, e risposi che sarei andato volentieri se mio padre mi avesse dato il permesso. Così la mattina seguente scivolavo sul ghiaccio dell’Inn mentre Hans cercava di stare in piedi e un po’ mi dispiaceva umiliarlo a quel modo, e passargli davanti mentre lui ancora non era capace, ma dopo un po’ tornai lí vicino e gli mostrai come fare per non cadere; lui naturalmente cadde lo stesso diverse volte, ma si divertiva a provarci e suo padre pareva contento che fossimo diventati amici. Passò così quell’inverno, e fino ad aprile il ghiaccio non si sciolse e i vecchi seguitavano a dire che un freddo del genere non lo ricordavano in tutta la loro vita. In quei mesi Hans era riuscito a mantenere l’equilibrio abbastanza bene e ormai uscivamo da soli stando ben attenti a non passare nei punti dove la lastra di ghiaccio era piú fine. Era accaduto anche un altro fatto quell’inverno. In una delle nostre uscite notammo un bambino schizzare via veloce, come mai avremmo creduto possibile e poi farci il verso mentre tentavamo invano di stargli dietro. Altre volte si comportò in quella maniera, e mentre si allontanava sul ghiaccio urlava che io e Hans eravamo due mocciosi, solo perché, come nel frattempo avevamo scoperto, aveva un anno piú di noi e già sapeva leggere perché andava a scuola. Ogni volta ci sentivamo pieni di rabbia e gridavamo che l’avremmo riempito di botte, al che quello si voltava ridendo come un matto. Una domenica stavamo nel solito posto appena fuori il boschetto di betulle ad allacciarci i pattini presso una staccionata, quando udimmo delle grida provenire da poco lontano. Infilammo i pattini il piú in fretta possibile e intanto la voce seguitava a chiamare aiuto. Arrivati senza fiato fin dove iniziava il pericolo, notammo qualcuno con la gamba intrappolata nel ghiaccio che si muoveva per cercare di tirarsi fuori, ma piú si divincolava piú il ghiaccio intorno si rompeva e presto sarebbe caduto tutto nel fiume. “È lui” disse Hans e infatti era proprio il ragazzino che tanto spesso ci aveva derisi. Gli passammo vicini, ma non troppo, quasi contenti che gli fosse capitata quella disgrazia e intanto, come due schiocchi, facevamo boccacce e sghignazzi mentre quello affondava sempre piú. Ci guardava disperato e piangeva forte finché, capita la gravità della situazione, e mi pare ancora incredibile pensando che avevamo solo cinque anni, cercammo sulle sponde qualcosa per afferrarlo, e trovato un grosso bastone lo trascinammo a fatica fin da lui, che vi si aggrappò con tutte le forze. Lo issammo fuori con una fatica che ricordo sproporzionata ai nostri corpi di bambini, e una volta fuori dissi ad Hans di star lí con lui mentre io correvo a dire a mio padre quello che era accaduto. Intanto il bambino non parlava e tremava dal freddo e prima di correre a dare l’allarme gli tolsi i guanti zuppi d’acqua e gli infilai i miei; mio padre, con altri vicini, arrivò dopo un tempo che mi sembrò durare in eterno, ma forse erano solamente pochi minuti, lo presero e l’avvolsero in alcune coperte e gli uomini dissero che eravamo stati davvero coraggiosi e che quel bambino sarebbe stato bene ma a noi non importavano le loro lodi tant’era lo spavento preso, quando avevamo capito che quello sbruffone rischiava di morire davvero nell’Inn. I giorni passavano e del ragazzino si sapeva solo che la febbre alta non l’aveva piú abbandonato e i grandi ne parlavano come “quel povero ragazzo” quasi fosse stato già morto. Io e Hans volevamo passare a trovarlo, ma la paura di vederlo in un letto mezzo morto ci tratteneva, così seguitavamo le nostre scorribande sul ghiaccio, senza però la gioia di prima, e sempre speravamo che non morisse visto che l’avevamo tirato fuori. E alla fine non morì: me lo trovai davanti alla bottega di mio padre, una domenica che ritornavo dopo la Messa ed avvicinandomi ebbi un sussulto come avessi visto uno spettro. Lui, seppur ancora pallido per la malattia, rise della mia paura, e a me parve che tutto fosse tornato come prima; in tasca aveva i miei guanti, li prese e me li passò, poi disse se da lí a qualche tempo a me a ad Hans sarebbe piaciuto pattinare con lui, ben vicino alla riva, s’intende. Rimasi sbalordito ma gli dissi di sí anche per il mio amico, e fu così che diventammo inseparabili, io, Hans e Joseph, e la madre di quest’ultimo gli gridava sempre di stare attento al ghiaccio quando s’andava fuori e quando quell’inverno fu terminato iniziarono le scuole, e insieme al nostro antico nemico imparammo anche noi a leggere e scrivere e far di conto, anche se ormai da un pezzo Joseph non ci prendeva piú in giro. Nella nostra classe stava appeso il ritratto di un vecchio, un tal signore baffuto che un tempo, ricordavano i piú vecchi che passavano dalla bottega, era stato un bell’uomo anche se niente a paragone dell’imperatrice. Era il Kaiser Franz Joseph e mio padre diceva che bisognava rispettarlo perché in tanti anni di regno era stato capace di amministrare gli immensi confini dell’impero, diventando addirittura amico e re degli ungheresi che prima lo odiavano. “Ma quello è merito della nostra compianta imperatrice” commentava mio padre, accarezzando un suo piccolo ritratto che conservava accanto a quello di mia madre, morta nel mettermi al mondo. Quando raccontavo queste storie ad Hans lui diceva di sapere già ogni cosa, ed era vero perché leggeva tanti libri quanti io immaginavo di non riuscire a leggerne in tutta la mia vita. Suo padre era uno speziale e quando andava fuori città a qualche fiera tornava sempre con dei libri per Hans; lui prima li leggeva da solo, poi ne portava uno alle nostre riunioni segrete nei boschi, e mentre io e Joseph ascoltavamo rapiti, lui recitava con aria solenne i versi e i racconti che tanto amava. La nostra infanzia trascorse così, tra letture fantastiche e bagni nell’Inn in estate, i pattini quando tornava il freddo inverno, la nostra adolescenza alla ricerca di qualche ragazzina che non ci detestasse. Avevamo quattordici anni quando scoppiò la guerra ed esultanti corremmo per le strade, tutte piene di gente in subbuglio occupata a leggere le ultime notizie dai giornali, sperando di essere chiamati anche noi al fronte anche se tutti dicevano che eravamo troppo giovani e mio padre in particolare lo sottolineava, come a farsi coraggio e convincersi che non avrebbe perso anche me, che ero l’unica cosa che gli restava. Lo ripetevano anche le sorelle Von Lichem, che di tanto in tanto uscivano con noi e che già noialtri consideravamo nostre fidanzate. E invece la guerra ci portò via, da lí a qualche anno, anche se davvero eravamo troppo giovani. Io e Hans ci eravamo appena diplomati (Joseph aveva terminato gli studi l’anno prima) che la guerra ci tolse da tutto quanto avevamo di piú caro. Noi speravamo ancora di tornare a casa ornati di medaglie, fosse anche senza un braccio ma fieri combattenti della Patria. Progettavamo la nostra partenza in ogni dettaglio, quasi giocassimo ancora a costruire fortini sugli alberi e con la fantasia c’immaginavamo audaci ed invincibili nella battaglia. Ma una cosa non avevamo previsto e la scoprimmo il giorno fissato per la partenza mentre dal nostro scompartimento guardavamo muti l’Inn scorrere poco lontano dai binari del treno e le montagne di Innsbruck si allontanavano ad ogni sbuffo e i volti dei nostri cari, anche di mio padre che a furia di lavorare il legno aveva mani ruvide e nodose e delle sorelle Von Lichem con i fazzoletti in mano, diventavano sempre piú piccoli e sfocati finché scomparvero del tutto, ed era il dolore che sempre procura una separazione. Vedevo gli amici fissare pensosi le sponde del fiume ed ero sicuro che, come me, ripensavano ai nostri giochi d’infanzia e con la mente già tornavano a quei posti, quei luoghi in cui, insieme, avevamo passato intere giornate senza sospettare che un giorno li avremmo lasciati e già il rimpianto prendeva il posto dell’iniziale ardore. Accadeva davvero e davvero potevamo morire: solo in quel momento ce ne rendemmo conto sul serio. Il conflitto era già iniziato da tre anni quando arrivammo in quella valle e per la prima volta salimmo sulle sue alte cime, costantemente innevate; siccome avevamo qualche cognizione di medicina, ci affidarono al reparto sanità. Non starò qui a raccontare quanti fratelli cercammo di salvare con i pochi farmaci e le misere bende che avevamo a disposizione, né quanti spirarono nell’infermeria improvvisata che noi, con altri due medici veri, avevamo scavato nel ghiaccio, basti dire che furono talmente tanti che dopo un po’ dimenticavo i loro volti e perdevo ogni fisionomia, ed alla fine ognuno pareva sempre la stessa persona. Avevamo rifugi nelle caverne e baracche dove si tentava di non morire di freddo e Joseph disse che a confronto di quelle bufere il freddo dell’Inn gli sembrava quasi caldo. Hans s’era portato dei libri ed alla sera, quando anche gli italiani riposavano, leggeva per i nostri commilitoni, che come noi anni prima restavano affascinati da quel suo particolare modo di raccontare. Di giorno si rinforzavano i forti, si scaricavano le teleferiche che trasportavano cibo e altro di cui lassú c’era bisogno e quando, dopo il sempre faticoso cammino nella neve, ci si avvicinava ai presidi degli alpini, allora infuriava la battaglia e senza rendercene conto in un attimo piovevano morti da ogni dove e da una parte e dall’altra si udiva il grido dei soldati e piú di tutti quelli di chi stava per morire. Nessuno di noi tre lo ammise, ma fummo contenti di essere in quel reparto, noi con la nostra smania di combattere, con i nostri progetti di gloria, perché trovarsi davanti un uomo e sparargli così, senza sapere neppure chi fosse, per i nostri compagni dev’essere stato terribile e anche se, dopo, festeggiavano la vittoria e cantavano allegri nelle baracche, in fondo c’era lo strazio per aver ammazzato degli uomini; udii anche gli alpini, una volta che la notte era calma e chiara e pensai che anche da loro esisteva chi si lavava le mani del sangue altrui con profondo disgusto per ciò che aveva compiuto. Era dura lassú, con i piedi sprofondati nella neve, pensare alle nostre case riscaldate da un fuoco scoppiettante, e sempre il pensiero tornava a chi avevamo lasciato con una nostalgia che ammorbidiva anche i dissapori ed i litigi che c’erano stati. Noi tre non facevamo che aiutare i medici nel loro lavoro, che il piú delle volte consisteva nel somministrare quel poco di morfina che avevamo a chi era stato colpito da una granata o una scheggia o da un colpo partito dal fucile nemico e aspettavamo con loro la morte mentre parlavano ad una madre lontana. Ci guardavamo negli occhi seduti uno accanto all’altro fuori dall’infermeria, e senza parlare ognuno sapeva che nell’altro ogni entusiasmo per la guerra s’era spento. Nei momenti di calma parlavamo di ciò che avremmo fatto tornati ad Innsbruck e mentre io e Joseph pensavamo di metter su una fabbrica di pattini da ghiaccio Hans stava sempre sul vago, diceva che piú di tutto gli sarebbe piaciuto scrivere, e infatti ogni giorno, la sera, si metteva seduto ad una specie di rozzo tavolino di legno e scriveva lunghe lettere al padre e poi annotava le sue impressioni su un taccuino di pelle che non ha mai voluto mostrarci. Ridevamo, anche, ricordando gli scherzi e i nostri giochi nell’Inn, certe estati afose che nel pomeriggio ci riempivano di sonnolenza ed il mese di settembre, quando da noi già comincia a rinfrescare. E venne settembre anche sulle cime. Da settimane il comando preparava un’offensiva per sorprendere gli alpini e riprenderci punta San Matteo, un’impresa tanto ardita da sembrare impossibile anche ai nostri tenenti, ma era in gioco l’onore della Patria e, dicevano, si doveva tentare il tutto per tutto. Il giorno prima, mentre, solo, guardavo la valle sottostante ed i miei occhi incontrarono la luce accecante del sole, un alito gelido percorse tutto il mio essere. Non era il solito freddo provato tutti i giorni a quelle quote, che ormai conoscevo bene, era qualcosa di diverso, una paura che mi accompagnò per tutta la notte. Il giorno successivo, prima dell’alba, scalavamo la parete vetrata ancora illuminata dai fili argentei della luna, mentre gli italiani dormivano nei loro accampamenti ignari d’ogni cosa: da lassú, nelle loro caverne di neve simili in tutto alle nostre, s’erano illusi di aver eretto un baluardo alla gloria italiana. Io avevo perso i guanti, Joseph con un sorriso mi passò un paio dei suoi. Tutto si compì rapidamente: i primi caddero subito, forse ancora addormentati neppure se ne accorsero; altri tentarono di fuggire lanciandosi velocemente giú per i pendii ma furono decimati dai colpi della mitragliatrice e subito la neve divenne rosso sangue, altri ancora si arresero e divennero nostri prigionieri. Mentre infuriava la battaglia, guardandomi intorno vidi parecchi dei nostri riversi a terra ormai privi di vita, ma non c’era tempo per pensare o per piangere, solo per andare avanti, sempre avanti, difendersi alla bell’e meglio, recuperare i feriti accasciati sotto la pioggia scintillante. Trovai ancora vivo con una pallottola nella gamba Karl, un ragazzo del mio quartiere di Innsbruck e lo caricai su una barella improvvisata, portandolo verso una grande roccia che fece da scudo ed in quella fui raggiunto dai miei amici, anch’essi con due compagni feriti ma ancora in vita. Li lasciammo lí alle cure dei medici e per tre volte ancora affrontammo l’inferno per cercare di salvare chi ancora aveva speranza, mentre i colpi rimbombavano in testa, sui costoni delle vette, echeggiavano nell’aria. Sotto un monticello di neve scorgemmo muoversi una mano: apparteneva ad un nostro commilitone, uno di quelli che con la guerra speravano di fare carriera e che noi tre detestavamo. Tuttavia non potevamo lasciarlo lí sotto, ed insieme, procedendo carponi, lo raggiungemmo togliendo la neve e, sempre in quella posizione, lo trascinammo con gli altri. L’avevamo appena consegnato nelle mani dei due dottori, quando quel refolo di vento mi raggiunse di nuovo, e credo accadde contemporaneamente anche agli altri perché rabbrividirono entrambi. Per la prima volta dopo quei mesi di freddo intenso percepii un gran calore che partiva dal torace e saliva su, insieme a un boato di vento da togliere il fiato; volavo e insieme a me volavano i miei amici e pensavo che era ben strano volare senza ali tra gli sbuffi di neve e intanto il vento non smetteva di soffiare, finché si stancò e ci fece cadere all’indietro, con un botto, uno sopra l’altro, ad osservare a testa in giú i soldati che continuavano ad ammazzarsi e guardavamo con lo stupore di chi, ancora, non ha capito. Ad Hans scivolò fuori dalla giubba il taccuino di pelle, allungò una mano per prenderlo ma quello scivolò piú giú, non tanto lontano ma abbastanza per non essere piú ripreso. Joseph si sforzava di dire qualcosa, vedevo la sua bocca contorcersi per far affiorare delle parole e piangeva nello sforzo di esprimere quei suoi ultimi pensieri che invece si cristallizzarono per sempre sulle sue labbra: pensava forse a sua madre che sempre gli raccomandava di stare attento al ghiaccio. Io stavo lí, stretto ai loro corpi, con occhi sbarrati vedevo continuare la battaglia ed infine esultare i nostri commilitoni per una vittoria di cui ormai non m’importava piú. Poco prima uno dei medici aveva tentato di raggiungerci, ma una scarica di mitraglia degli alpini lo aveva fermato, così ci lasciarono lí, insieme come lo eravamo sempre stati e vedemmo sbiadire con il tempo le parole contenute nel taccuino di Hans, le pagine girate dal vento, a volte strappate, e le divise di cui tanto andavamo fieri si dissolsero poco alla volta lasciandoci quasi nudi, finché la neve e poi il ghiaccio, quel ghiaccio un tempo amico che ci aveva fatti conoscere sull’Inn, coprì i nostri corpi. A me dispiaceva soprattutto per mio padre, che sarebbe rimasto là, nella bottega, ad aspettare invano un figlio disperso chissà dove e avrebbe lavorato tanto per soffrire meno, e le sue mani sarebbero diventate ruvide come carta vetrata e l’impossibilità di lenire almeno un poco il suo dolore fu il mio piú grande rimpianto. Ora i nostri nomi non importano piú. Sepolti nel ghiaccio per tanto tempo, perfino noi li abbiamo quasi dimenticati: siamo diventati dei numeri, tre croci in piú di quella guerra e null’altro. Per lunghi anni abbiamo atteso di rivedere la luce del sole, che filtrava appena sotto la spessa coltre di ghiaccio e neve, di sentire ancora la brezza del vento accarezzarci la pelle e respirare gli odori agrodolci della primavera sulle cime. Per piú di ottant’anni gli animali che si spingono fin quassú sulle crode piú impervie sono stati i nostri unici compagni: gli stambecchi, qualche marmotta, l’aquila reale che volando sopra i nostri corpi ci fissava con occhi stranamente pietosi, per una come lei abituata a non avere pietà se vuole sopravvivere. I primi tempi anche lei volteggiava vicino a noi tentando di beccarci, l’ombra delle sue grandi ali s’avvicinava minacciosa mentre noi, inerti, aspettavamo la sua discesa sui nostri corpi per straziarci, con la disperazione di chi non può difendersi in alcun modo e sa che solo un colpo di fortuna o la misericordia di Dio potranno evitare la sciagura. I primi tempi, dicevo, la signora delle cime tentò di portare al nido dal suo aquilotto pezzi di noi, ma sempre qualcosa le impediva di afferrarci con i suoi artigli, fosse un improvviso colpo di vento o un movimento di vita piú a valle che attirava la sua attenzione ed allora sospiravamo in silenzio di sollievo e intanto faceva sempre piú freddo su quel lembo di montagna. Anche adesso, ora che riposiamo nella terra e non piú nel ghiaccio, continuiamo a sentire freddo: è il freddo del non aver avuto la possibilità di dire addio alle nostre madri, ai padri, alle morose che ci aspettavano a casa, è il freddo di aver perso la giovinezza e la vita ancor prima che cominciassero davvero e forse è ancora il freddo del ghiacciaio che avvinghia le nostre ossa e non vuole lasciarci andare, anche se noi ormai siamo lontani dal suo abbraccio gelido. Un colpo di piccone ci ha fatto rivedere quel luogo e tutto era cambiato: non piú alpini, non piú Kaiserschützen né cannoni, né teleferiche e grida e ordini o camminamenti nella neve, solo silenzio. Mentre ci toglievano a forza dal ghiaccio intravidi un pezzetto, piccolissimo, del taccuino di Hans, tanto minuscolo da risultare invisibile agli occhi degli uomini che lavoravano per portarci via dalla montagna, ma io lo scorsi, e da quant’era rovinato e stinto capii che molti e molti anni erano passati da quel settembre e che nessuno costruiva piú pattini di legno nella bottega di Innsbruck. Ho rivisto, dopo averli unicamente sentiti accanto a me per tanto tempo, i miei amici: Hans aveva ancora la mano protesa verso il taccuino, Joseph la bocca aperta, forse per sussurrare un addio. Ho sentito quegli uomini stupirsi dei miei occhi spalancati: ma è così quando la morte ti passa accanto e ti afferra prima che tu abbia il tempo di accorgertene. Adesso siamo qui, vicini, in un pezzo di terra che non è la nostra terra e di notte sentiamo ancora lo scricchiolio del ghiaccio nelle ossa e nessuno sa chi siamo veramente e perciò abbiamo solo una croce di legno ciascuno, senza alcun nome scritto sopra. Ma noi li conosciamo: Louis, Hans e Joseph, fratelli nella vita e nella morte. MITTERNDORF
Erano tornati da poco dalla funzione della sera. In ogni
casa del paese era grande l’incredulità per le parole pronunciate dal prete poco tempo prima, talmente spaventose che nessuno dei partecipanti alla messa inizialmente le aveva credute vere: tanti avevano pensato ad uno scherzo, avevano trattenuto un sorriso; altri osservavano don Giovanni per capire se, per caso, non avesse alzato un po’ il gomito. Anche il parroco guardandosi in giro ad un certo punto s’era accorto di non essere preso sul serio e allora, con un tono che non ammetteva repliche, aveva ripetuto per filo e per segno le indicazioni della Luogotenenza e con le lacrime agli occhi, perché sapeva bene di dover andar via anche lui, aveva concluso la messa con un: “Facciamoci coraggio, fratelli. Dio non ci abbandonerà”, ma la voce gli tremava in gola e tradiva tutta la sua disperazione. Intorno la gente si accalcava per andargli vicino, chiedere se era tutto vero e se veramente sarebbero stati costretti ad abbandonare ogni cosa. E a tutti il povero sacerdote rispondeva che sì, era vero, che gli austriaci avevano ordinato di evacuare il paese, che c’era poco tempo e che altro non sapeva. Ed era vero: a lui non era stato comunicato nulla di piú e per quanto si sforzasse di rincuorare gli altri, lui per primo aveva bisogno di un poco di speranza. Ma dove trovarla, dove, tra quella gente impazzita che lo assale di domande, urla che dal paese non se ne andrà a costo di lasciarci la pelle? Alla fine era riuscito a far sgomberare la chiesa stracolma, dove all’ultimo erano entrati anche quelli che prima stavano in osteria e che non partecipavano mai alla messa, aveva ripetuto un’ultima volta le norme stabilite per la partenza dal paese: portare con sé non piú di cinque chilogrammi di effetti personali, cercando di privilegiare il cibo ed i vestiti (per quanto una fotografia o un oggetto caro possano costituire un cibo per l’anima ben piú importanti) e scrivere sulle valigie l’indirizzo di Salisburgo. “Ma dov’è che andremo, don Giovanni?” gli chiese una vecchina che tremava tutta, e alla sola idea di abbandonare il paese si sentiva morire. “Non lo so, Maria, non lo so. Ma io sarò con voi”. Erano state quelle ultime parole a risollevare per un attimo il morale ai presenti: “Se il signor parroco viene con noi” pensarono “vuol dire che non saremo del tutto soli ad affrontare il nostro destino”. Aveva spento le candele votive mentre anche gli ultimi fedeli s’incamminavano verso casa, chiuso a chiave le porte della chiesa. Mentre si avviava verso la canonica lí vicina, sentiva ancora il brusio degli abitanti che per le vie parlavano della tragedia che li aveva colpiti, i pianti e la rabbia di molti. Andavano verso casa, a consolarsi l’un l’altro: solo lui restava solo, senza un volto amico cui rivolgersi per alleviare le proprie pene. Non c’era piú neppure la perpetua, morta mesi prima e fino a quel momento don Giovanni non aveva ancora trovato una sostituta. “Pazienza” si disse “ormai non servirà piú”. Prese posto al piccolo tavolo della cucina, con il volto tra le mani. Era arrivato in quella comunità sette anni prima, giovane sacerdote pieno d’entusiasmo, e si era innamorato del paesino tra le montagne, dell’aria pura che si respirava a quell’altitudine, dei boschi e delle acque limpide dei suoi torrenti; gli era piaciuta anche la gente. Un po’ chiusa all’inizio, ma semplice e diretta, in definitiva: buona. Era gente abituata a lavorare tanto, chi nei campi, nelle stalle e sulle malghe che punteggiavano le cime, chi nei boschi a tagliare la legna, persone che avevano poco tempo per discutere di sofismi o filosofie e quel poco che dicevano era quasi sempre legato alle attività pratiche cui si dedicavano giorno e notte, alla famiglia, alla fede. Sì, perché in quel luogo don Giovanni aveva trovato buoni cristiani, che non dimenticavano di andare a messa la domenica o di fare un’offerta alla Madonna o accendere un cero quando le loro preghiere venivano ascoltate; soprattutto, comprendevano appieno il significato del termine solidarietà, e quando uno di loro aveva bisogno d’aiuto mettevano da parte i rancori o le inimicizie che inevitabilmente esistevano tra le famiglie o tra i singoli individui, e cercavano di rendersi utili. Si era integrato perfettamente, tanto che ormai gli sembrava quasi di esser nato in quel luogo e di ogni uomo, donna o bambino poteva ricordare un fatto, un episodio che l’avevano visto protagonista e parlava perfettamente il dialetto della zona, mentre aveva quasi scordato il suo. Dal canto loro gli abitanti vedevano nella sua figura timida ed al tempo stesso risoluta una sorta di mite protettore d’anime e gli si rivolgevano per ogni sciocchezza per avere un consiglio. Come quella volta in cui Giacomo gli aveva mostrato le patate del campo appena zappate fuori dal terreno, mezze marce, e gli aveva domandato se per caso quello fosse un castigo di Dio per essersi addormentato la domenica delle Palme, o quella volta che i bambini del catechismo, per fargli uno scherzo, l’avevano chiuso nel confessionale o quando, anni prima, un incendio aveva danneggiato gravemente un casolare isolato dal paese e don Giovanni aveva ospitato in canonica quella famiglia per tre mesi. Eppure, nonostante l’affetto che la gente gli dimostrava, il prete aveva costantemente il timore di non essere all’altezza di certe situazioni, di sbagliare in qualcosa e di non essere un buon sacerdote per i suoi parrocchiani. A questo pensava quella sera don Giovanni, dopo aver dato l’annuncio dell’imminente partenza dal paese verso l’Austria. Il primo gruppo sarebbe partito due giorni dopo e lui aveva deciso di andare con quegli sfollati; gli altri li avrebbero seguiti a distanza di pochi giorni. Per quanto tempo sarebbero stati via, lontani dal paese? Dove li avrebbe mandati il governo austriaco, in quel momento impegnato con le sue compagnie di soldati proprio su quelle cime che a don Giovanni piacevano tanto? Erano interrogativi cui per il momento era impossibile dare una risposta. Nessuno riuscì a dormire quella notte; le fiammelle delle candele accese illuminarono le finestre di bagliori di luce: pregarono tutti chiedendo alla Madonna di restare in paese, di non dover lasciare i muri della casa in cui avevano gioito e sofferto, dove erano nati i loro figli, dove i vecchi volevano morire nel loro letto, e le strade dove correvano i bambini e le fontane dove al mattino le donne cantavano lavando i panni e la piazza della chiesa dove si parlava del piú e del meno e dove iniziavano le processioni di maggio, ed i ponti sopra i torrenti scroscianti e i prati dove era faticoso tagliare l’erba con il caldo dell’estate ma era bello fermarsi all’ombra, alla fine, e bere insieme un bicchiere di vino. E chiesero di non dover lasciare gli animali che, quasi consapevoli che qualcosa di terribile stava per accadere si agitavano inquieti nella stalla, e il cimitero dove riposavano per sempre i loro morti. Perfino i sassi dei muretti a secco costruiti a margine delle viuzze strette e ripide e le viole del pensiero che sbucavano qua e là tra le crepe costituivano motivo di nostalgia e rimpianto, e addirittura i lunghi e freddi inverni di cui tanto si erano lamentati parevano ora insostituibili e belli ai loro occhi. Fino all’ultimo la gente portò lumi nella chiesetta tanto che l’altare maggiore splendeva rischiarato da centinaia di luci. Furono suppliche non ascoltate o, semplicemente, ascoltate ma non esaudite per misteriose ragioni. Due giorni dopo, infatti, il primo gruppo era radunato in piazza e c’era voluto un bel po’ perché tutti gli abitanti della frazione fossero pronti. Ognuno aveva lasciato libere le bestie, carezzandole un’ultima volta, e tutti sfioravano piano le casette chiuse e ormai disabitate e quando per caso un pezzetto d’intonaco cadeva loro in mano, lo riponevano in tasca come il piú prezioso dei tesori e non staccavano gli occhi dal loro piccolo mondo fino a quando l’abitazione non scompariva alla loro vista dietro una curva, un pendio, ed allora le lacrime trattenute fino a quel momento esplodevano senza sosta, e tutti, chiusi nel loro personale dolore, condividevano la medesima angoscia. Don Giovanni aveva fatto lo stesso chiudendo la porta della canonica e, per ultima, la chiesa. Aveva soffiato sui lumi accesi, li aveva spenti uno ad uno senza fretta, si era inginocchiato nel primo banco di fronte alla statua di Santo Stefano e singhiozzando aveva rivolto un’ultima preghiera; non per restare, stavolta, ma per tornare presto a casa. Poi aveva preso i suoi paramenti sacri, il breviario, il calice per le ostie da distribuire durante la Messa, ed era arrivato in piazza accolto dai suoi. Che spettacolo gli si presentò! Quella brava gente, di solito tanto dignitosa e composta nel mostrare i propri sentimenti, stava ammassata in un blocco, quasi a ergersi in un muro di difesa, ognuno con la sua valigia sotto braccio e un’espressione desolata dipinta in viso. Quanto avrebbe voluto sacrificarsi al loro posto, essere martirizzato come il povero Santo Stefano, piuttosto che vederli ridotti in quello stato! Si avvicinò e subito la muraglia si divise per lasciarlo passare, per richiudersi istantaneamente dopo il suo passaggio: intorno stavano militari e gendarmi a controllare le operazioni di sgombero, e chi si preparava a sfollare, anche i bambini, li fissava con occhi torvi, in un muto rimprovero. “Dove ci porteranno, don Giovanni? Non hanno voluto dirci niente” chiedevano indicando i militari e don Giovanni poteva solo rispondere come la sera dell’annuncio, cioè spiegando che anche lui non conosceva la loro destinazione ma che “ovunque andremo, Cristo sarà con noi”. Stavolta però le parole non ebbero lo stesso effetto della volta precedente, anche se nel pronunciarle il sacerdote aveva sorriso, aveva stretto mani, asciugato qualche lacrima: pazzi di dolore per essere strappati dalle proprie radici come piantine brutalmente tolte dal terreno, a nessuno era di gran conforto sapere che Cristo li seguiva in quell’odissea. Quelli del gruppo destinato a partire tre giorni piú tardi non si erano fatti vedere, giú nella piazza: stavano sui balconi, alle finestre, avevano deciso di salutare così gli amici che partivano, come temessero di abbandonare le case prima del tempo e volessero godere di ogni minuto, ogni attimo in più di quell’intimità domestica ed allo stesso tempo guardavano incuriositi la folla radunata, pronta all’addio, consapevoli che di lí a poco sarebbe toccato anche a loro. Gli altri, in attesa di un ordine per intraprendere il lungo cammino, si accorgevano appena di ciò che accadeva loro intorno, e udivano solo voci spezzate e lamenti: ma se avessero notato la gente del paese affacciata alle finestre, ne avrebbero provato invidia. Un’invidia effimera, è vero, per un privilegio destinato a dissolversi in brevissimo tempo, ma avrebbero dato qualunque cosa per dormire ancora una notte, una sola, nel proprio letto. Poi l’ordine giunse e la lunga fila di persone, scortata dai militari, abbandonò il paese con passi pesanti e lenti, per prolungare anche solo di un secondo la permanenza su quel suolo. Sudavano sotto i panni che avevano indossato: per portare via di nascosto un po’ piú di roba sotto l’abito estivo avevano messo camicie invernali, qualche maglione, mutande di lana, conciando così anche i bambini, e fuori c’era il caldo d’agosto. Un po’ alla volta sul corteo scese il silenzio e giunti dinanzi al camposanto tutti tacquero e fecero il segno della croce, salutando i propri cari: ogni famiglia il giorno prima aveva portato fiori freschi sulle tombe, ben sapendo che da quel momento in poi nessuno si sarebbe piú curato dei morti. Alcuni vecchi e diversi ammalati stavano nei carri della Croce Rossa e tenevano gli occhi bene aperti e si sporgevano per vedere l’ultimo lembo di Vermiglio mentre si allontanavano. Erano ormai alla fine del paese. Ignorando gli ordini dei gendarmi che li spronavano a proseguire, la processione si arrestò di colpo e grandi e piccoli si girarono come per tornare indietro: ma indietro non si poteva tornare. Allora rimasero lí, muti, uno accanto all’altro, ad osservare quei tetti e quelle strade tanto familiari, e la cima della Presanella, e con il cuore salutarono tutto quanto avevano di piú caro. Don Giovanni, in mezzo a loro, non parlava, incapace di articolare una sillaba, ma con il solo sguardo cercava d’infondere speranza nella sua gente, la speranza di dire arrivederci e non addio. Camminarono per i venti chilometri che li separavano dalla ferrovia e gli unici rumori erano i continui lamenti di chi non si rassegnava, le domande sulla destinazione di quel viaggio che la gente sussurrava di tanto in tanto e che nessuno osava porre ai soldati; intanto da ogni casa dei paesi della valle al loro passaggio si levavano mani in segno di saluto ed occhi che vedevano passare la mesta sfilata e provavano pena per loro. Il piccolo popolo in marcia procedeva meccanicamente; le madri si stringevano ai padri, ai figli, ai nonni come a farsi forza a vicenda, e si consolavano un poco pensando che pur avendo lasciato il paese, erano essi stessi ancora un paese. I valligiani ai bordi della strada offrivano latte per i piú piccoli, del pane, qualche biscotto per il viaggio ed era tutto ciò che potevano fare per aiutare quelle povere anime. I gendarmi li scortavano senza una parola, impassibili alle loro sofferenze ma don Giovanni, che stava proprio vicino a uno di loro, notò che l’uomo teneva la testa bassa, quasi si vergognasse dell’ignobile compito che era tenuto a svolgere e per la prima volta dalla sera dell’annuncio sperò di nuovo in un pizzico di benevolenza da parte dei soldati dell’imperatore. “Chissà che cosa ci aspetta” pensava “forse non sarà così terribile” e mentre pensava un bambino di forse tre anni cadde a terra davanti a lui, esausto per quella marcia troppo lunga per le sue gambette. La madre non aveva potuto portarlo in braccio: con una mano stringeva la valigia, con l’altra il bambino piú piccolo, di pochi mesi. Don Giovanni si avvicinò al bimbo e, fatto un cenno alla madre, si offrì di portarlo lui fino in stazione ed il bambino s’addormentò non appena appoggiò il capo sulla sua spalla. Notando lo sconforto sempre maggiore della sua gente, prese a recitare qualche preghiera, e subito un coro di voci si unì alla sua e a quel punto sembrava davvero una processione religiosa, di quelle che tante volte aveva celebrato a Vermiglio. Cercava di fare del suo meglio, don Giovanni, sempre roso, comunque, dalla paura di essere inadatto a gestire quella situazione: non sapeva bene che cosa dire, forse quel gregge di uomini si aspettava delle parole diverse di conforto, voleva una presenza piú coraggiosa della sua. È vero, quello era un gregge, tuttavia lui non si sentiva il buon pastore ma un pastore e basta, cercava di essere una guida senza sapere se fosse stato fino a quel momento (e a maggior ragione, se lo sarebbe stato in seguito) una buona guida. Finalmente giunsero alla stazione, dove una folla li attendeva per porgere ancora dei viveri e per rincuorarli e, ad essere sinceri, era gente che suscitava quasi odio piú che riconoscenza, perché restavano mentre gli altri partivano. Salirono lentamente sulle carrozze, in realtà spogli vagoni riempiti di paglia, e c’era chi sperava in un guasto, almeno in un ritardo: ma il treno partì in perfetto orario. Stanca, la comunità dell’esodo lasciava scivolare lo sguardo sul paesaggio fuori del finestrino e attraverso gli occhi gonfi di lacrime vedeva scorrere i paesi del fondovalle tanto noti, i frutteti con le mele che neanche un mese dopo sarebbero state colte, il fiume che gorgogliando, scorreva piú in basso e la spuma bianca creata dall’acqua tra i sassi, visibile anche a distanza, i contadini che falciavano il fieno sotto il sole e, nell’udire il fischio del treno, si toglievano il cappello come si fa quando passa qualcuno di importante, o quando qualcuno muore. Ed era infatti come se la morte stessa viaggiasse su quel treno, perché nessuno sentiva piú appartenergli la vita. Don Giovanni cercava disperatamente di riportare alla mente le impressioni di quando, anni prima, era arrivato in valle per la prima volta; gli era sembrato un posto primitivo e soffocante, chiuso tra una corona di montagne con i paesi in basso come in una ciotola e la gente gli era parsa schiva e taciturna. Erano impressioni svanite nel giro di qualche giorno e in quel momento il sacerdote vedeva allontanarsi sempre piú la valle e la rimpiangeva come fosse stata il Paradiso Terrestre. Infine, anche l’ultimo paesino scomparve e tanti furono i sospiri e i pianti e il prete, che pure aveva molta voglia di piangere, si trattenne per far intendere alla gente che la disperazione non si era impadronita anche del suo essere; una bugia, certo, necessaria però al fine di sostenere almeno un poco il morale degli sfollati. Anche la vecchina che tremava continuamente notando la sua fermezza smise per un attimo di tremare, ed una flebile speranza si fece spazio nei cuori di tutti. Intanto il viaggio proseguiva e solamente quando, il pomeriggio del giorno dopo, il treno si arrestò per farli scendere, su un cartello in legno lessero il nome della località: Mitterndorf. Pioveva ed il cielo plumbeo, unito all’insonnia della notte ed alla fame (i soldati avevano distribuito solo pane duro ed acqua) contribuì ulteriormente a svelare alla popolazione tutta la miseria della loro nuova sistemazione: davanti a loro si estendeva un campo costellato da un’infinità di baracche di legno. Non esistevano finestre e l’acqua piovana penetrava nelle baracche inzuppandole mentre il terreno era ridotto a fanghiglia dove le scarpe sprofondavano ad ogni passo. “Mio Dio! Sarà questo il posto dove dovremo vivere?” chiedevano costernati i profughi, mentre i soldati facevano segno di entrare nelle baracche, tre o quattro famiglie in ognuna, e di prepararsi un giaciglio con la paglia ammucchiata in fondo al campo. A piccoli gruppi, esitando, entrarono nelle casupole, con i bambini che piangevano, i vecchi che ripensavano alla legna che l’inverno prima scoppiettava nel focolare della loro casa ormai abbandonata, incapaci di credere alla loro sorte; dentro non c’era nulla, neppure un letto, un tavolino, solo le pareti nude di legno, umide d’acqua. Non avevano dove dormire, di che mangiare, non sapevano come e dove lavarsi. Allora in ogni baracca del campo le urla si mischiarono alle imprecazioni, e neppure don Giovanni si azzardò a riprendere chi bestemmiava. Nella mente di ognuno un pensiero: come sopravviveremo? I soldati stavano ai margini del campo, in nessun modo cercavano di aiutare i profughi e di spiegare loro almeno l’essenziale: avrebbero imparato tutto da soli, in quei lunghi mesi di prigionia. La rabbia di don Giovanni fu grande, specialmente verso quel militare che aveva camminato accanto a lui e che gli era sembrato un brav’uomo, nonostante tutto. Il sacerdote si era sistemato in una baracca all’incirca a metà campo, con la famiglia del bambino che aveva tenuto in braccio ed altri tre nuclei che comprendevano due vecchi malati. Ancora una volta riuscì a dominarsi, uscì dalla baracca e chiamò a raccolta la folla, organizzando uomini e donne che avevano il compito di trasportare la paglia che sarebbe servita da giaciglio e di coprire con vestiti e materiali di fortuna le finestre delle baracche. Ci vollero ore prima di dotare ogni baracca di un letto di paglia, anch’essa mezza fradicia, per famiglia, e pochi furono i fortunati a dormire al riparo dalla pioggia. Ma quella prima notte sul suolo austriaco nessuno riuscì a dormire, come già era accaduto le sere precedenti, e chi non aveva le finestre coperte scorgeva lo scintillio delle stelle, e anche quelle gli sembravano diverse dalle stelle che splendevano nel cielo a Vermiglio. In quei primi giorni, per non cedere alla malinconia, tutta la popolazione si attivò per organizzare il campo delle baracche, dove mancava tutto, anche l’acqua. Un gruppo di donne scorse poco lontano un fiume delle cui acque, a volte anche un poco torbide, furono riempiti dei secchi e portati nelle baracche e dove la gente si recava a lavarsi per togliersi di dosso il puzzo e la stanchezza di quel viaggio; un po’ alla volta furono coperte altre finestre ma si scoprì ben presto che in quel modo la pioggia non entrava ma così isolate le baracche diventavano dei forni con il caldo soffocante di quell’estate. Dopo queste occupazioni però, restava tutto il resto della giornata per pensare e la voglia di vivere si stava spegnendo un po’ alla volta, come un lumino. I soldati distribuivano i pasti due volte al giorno: una scodella di minestra e un pezzo di pane che consentivano appena di sopravvivere. Dopo la cena la popolazione si riuniva al centro del campo, insieme a don Giovanni che confinato in quel luogo sentiva tutta la propria impotenza, mentre nel frattempo era arrivato anche l’altro gruppo degli sfollati, non meno spaventato di chi l’aveva preceduto. Erano appunto riuniti nello spiazzo fuori della baracca del parroco, circa dieci giorni dopo la partenza dal paese, quando riemerse la voglia di essere di nuovo una comunità attiva, abbandonando l’atteggiamento disfattista e rassegnato in cui si erano crogiolati per giorni, quasi incapaci di risvegliarsi da quello che sembrava un brutto sogno. Non erano certo facce allegre quelle che si presentarono a don Giovanni, ma lui notò quell’impercettibile cambiamento: erano stanchi di gironzolare per il campo e non fare nulla, aspettando il giorno in cui, forse, avrebbero lasciato quella vita e non sarebbero piú stati prigionieri.
“Che cosa possiamo fare, don Giovanni? Vogliamo lavorare
ma qui non sappiamo da dove cominciare” disse l’uomo che il sacerdote aveva ospitato dopo l’incendio a Vermiglio. Si capiva che tutti erano ansiosi di darsi da fare in qualche modo, e don Giovanni sapeva che il lavoro, e soprattutto la stanchezza che procura, era l’unico modo per frenare i ricordi e costringere la mente a concentrarsi su qualcosa di diverso che non fossero le case spoglie e le poche ricchezze murate nelle pareti lasciate senza custodia. Anche lui, del resto, non faceva altro che pensare alla chiesa, chiusa e, magari, saccheggiata dagli austriaci e al povero Santo Stefano forse già estratto dalla sua nicchia e fatto rotolare chissà dove per divertimento dei militari. Se lo raffigurava perfino, mutilato e scrostato, riverso sui ciottoli di qualche stradina sottostante la chiesa, coperto dai sassi che secoli prima erano serviti a martirizzarlo; allora sentiva dentro come un fremito ed un dispiacere tale che doveva allontanare al piú presto quei pensieri. Con nuova forza si rivolse alla gente che aspettava ansiosa una risposta.
“Cari fratelli e sorelle” iniziò “è vero, dobbiamo
rimboccarci le maniche per non impazzire. Qui, come avete visto, manca tutto…ma noi siamo ancora un paese, anche se privato di case, e mura, e prati e come tale dovremmo vivere fino al giorno in cui la liberazione verrà, perché sono sicuro che quel giorno arriverà. Siete falegnami, boscaioli, calzolai, sarte…avrete di certo con voi, nelle valigie, ago e filo, forbici, e attrezzi e quanto serve per questi lavori. C’è bisogno di tutto, più che mai della fede. Per questo domenica celebrerò la messa, qui, in questo spiazzo…poi si vedrà”.
Don Giovanni aveva parlato spinto dall’impulso ed a
discorso finito, quando attorno a lui la gente pareva animata da un nuovo scopo e qualcuno era già corso a svuotare la propria valigia e mettersi all’opera, un lieve rossore gli colorò le guance. Timoroso di essersi infervorato troppo e di aver dato troppa speranza ai compaesani, non si accorse neppure dei benefici che le sue parole erano riuscite ad apportare nell’animo dei presenti. Così il campo gradualmente si trasformò: vi regnavano ancora la fame, le malattie e la tristezza, ma sorsero spazi dove si fabbricavano e si riparavano le scarpe, si cucivano vestiti, si segavano le assi per aggiustare le baracche. Furono attività dapprima svolte dove capitava, poi, grazie all’interessamento di don Giovanni presso i soldati, in apposite baracche, in seguito retribuite con un magro stipendio da parte dei militari stessi, che si rivolgevano agli artigiani per questo o quel lavoro o per far cucire una giacca; anche la messa, dopo l’iniziale celebrazione sul piazzale, fu officiata in un edificio apposito, dove comunque il prete si era rifiutato di lasciare i paramenti sacri e quello che aveva portato via: li teneva con sé nella baracca, per paura di qualche furto da parte dei militari. Si organizzò una scuola per i bambini con un corpo docente, persino un teatro che portava in scena commedie dialettali capaci di strappare qualche sorriso al pubblico. Nonostante questo, nessuno era riuscito a raggiungere l’obiettivo di accantonare per un poco il pensiero del paese, per soffrire meno, e ogni legno, sasso e filo d’erba che capitava sotto agli occhi degli sfollati ricordava loro le case, i muretti a secco e i prati di Vermiglio, e tutti soffrivano in ugual modo come fosse sempre il primo giorno. Don Giovanni era accanto a ognuno e li ascoltava come faceva quand’era in valle ma la sera mangiava in fretta e se ne andava al fiume e, sicuro di non essere visto da nessuno, pregava Dio di liberarlo da quel peso. “Come posso io confortare questa gente ancora per i mesi, o per gli anni che verranno” pensava “quando sono io ad aver bisogno per primo di una spalla su cui piangere, quando sono io il primo a dubitare che per noi ci sarà un futuro fuori da qui?”. Quanto sentiva la necessità di parlare con qualcuno, di ricevere una parola di speranza…ma non poteva certo chiederla ai suoi parrocchiani, che si aspettavano proprio da lui le parole giuste per tirare avanti, che mai avrebbero immaginato i tormenti della sua anima. Si rendeva conto delle condizioni spaventose in cui versava il campo, a cominciare dalla carenza di cibo che rendeva uomini e donne sempre piú deboli ed emaciati, alle cure mediche pressoché inesistenti, tuttavia cercava di non far trasparire le sue preoccupazioni agli occhi degli altri. Non era trascorso un mese e mezzo dall’arrivo al campo che si registrò la prima vittima, una bambina di neppure un anno morta dopo aver contratto la tubercolosi. Grande fu lo sconcerto fra la comunità ed immenso il dolore per aver perso quella piccola vita; era stata ricoverata alla modesta infermeria solo una settimana prima, ma non c’erano medicinali adatti a curarla e la piccola si era spenta senza che fosse stato possibile fare alcun tentativo per salvarla. Al dolore dei genitori si unì lo sdegno della popolazione nell’apprendere che i soldati volevano tumulare il corpo a diversi chilometri dal campo, nel cimitero d’un borgo abbandonato, “al fine di evitare la diffusione di epidemie” dissero.
“Non lasciatela portare via da quelli!” gridavano “Avremo
almeno il diritto di stare vicino ai nostri morti”.
“Ci parlerò io” aveva promesso il prete, ed era riuscito
–cedendo loro il piccolo libro di preghiere regalatogli dai genitori con mille sacrifici in occasione della sua ordinazione, splendidamente ornato da miniature che valeva una piccola fortuna ed aveva conservato per le emergenze- a convincere i soldati a recintare un terreno fuori dal perimetro delle baracche, ma comunque vicino rispetto al cimitero del villaggio. A parte i malati e i vecchi, tutti parteciparono alla cerimonia funebre e quando la piccola bara, costruita dai falegnami, fu calata nella fossa, ognuno pensò che era solamente la prima bambina che non sarebbe cresciuta tra le montagne, ed avevano ragione. Nei mesi successivi il terreno consacrato dal sacerdote si riempì rapidamente di croci: non si salvò neppure il bambino che don Giovanni aveva portato in braccio il giorno dell’esodo ed in generale i piú piccoli e gli anziani non riuscirono a contrastare le malattie infettive che si spargevano veloci come il vento tra le baracche. Don Giovanni provava un’angoscia tanto forte che si stupiva non poco nel constatare che gli altri non la notassero minimamente; cominciava seriamente a dubitare dell’esistenza di un Dio, perché non comprendeva più i suoi disegni. A che cosa dovevano servire tutte quelle morti? Perché, se da qualche parte esisteva Dio, permetteva che tanta gente soffrisse in quella maniera? Un giorno, turbato da questi quesiti, aveva addirittura pensato di rinunciare alla sua missione per essere solo un uomo tra gli uomini e mai piú un prete, ma proprio in quel momento l’avevano chiamato per battezzare un nuovo nato e lui aveva dimenticato i suoi propositi. C’era anche la vita nel campo, d’accordo, ma erano talmente tanti i morti che si faticava a gioire per una nascita perché non c’era di che mangiare, e spesso i neonati morivano dopo pochi giorni: per questo il sacerdote li battezzava appena venuti al mondo. Così era trascorso il primo anno, e poi il secondo, durante il quale se ne andarono anche i due malati della sua baracca. I bambini andavano a scuola, erano stati celebrati anche dei matrimoni, ma i superstiti di quella strage restavano prigionieri ed anelavano sempre piú il ritorno a casa. Don Giovanni aveva organizzato il campo, mantenuto i rapporti con gli austriaci, era stato la roccia cui rivolgersi per ogni dispiacere, ogni lacrima versata, ed era grande l’affetto che la gente nutriva per lui, eppure nessuno si era mai accorto della sua solitudine. Grazie al rispetto guadagnato nei confronti di un militare austriaco, il parroco aveva saputo che erano in corso trattative per il rimpatrio, ma non essendo verificabile la notizia, aveva deciso di non comunicare la novità agli sfollati per non illuderli inutilmente. Non aveva trovato risposte ai suoi dubbi sulla fede, aveva semplicemente continuato il suo compito rendendosi conto che, nonostante le numerose perdite, la piccola comunità era sopravvissuta, e in questo inconsciamente vedeva una specie di grazia divina. Circa un mese piú tardi, il soldato austriaco gli comunicò la tanto attesa notizia; don Giovanni, che come tutti gli altri aveva aspettato con ansia quel giorno, era felice per loro. Sapeva di essere malato gravemente e che non avrebbe rivisto la chiesetta e la cima della Presanella, ne verificato se Santo Stefano stava ancora al suo posto oppure no. Cercava di fingere come meglio poteva, non voleva occupare un letto nell’infermeria già sovraccarica di malati e così si trascinò fino alla domenica successiva, quando, febbricitante, annunciò l’ormai prossima partenza dal campo. Ed accadde allora come la sera dell’annuncio, quando non avevano creduto alle sue parole o non volevano crederle, ma allora erano parole di dolore e non di gioia come in quel momento. E come allora il prete aveva dovuto ripetere la notizia, e solo dopo dalla moltitudine che affollava la chiesa si erano levate grida e pianti e la gente correva ad abbracciarsi e cantava allegra per le strade del campo le canzoni della montagna, come non succedeva da anni. Lui aveva chiuso la chiesa, ancora portando con sé il breviario ed il resto ed era tornato alla baracca buttandosi subito sul suo giaciglio. Un’ora dopo, quando le famiglie che vivevano con lui rientrarono ebbre di felicità, lo trovarono delirante: chiamarono a raccolta l’intero campo, lo trasportarono immediatamente all’infermeria. Il prete bofonchiava frasi senza senso su una statua e dei sassi, scottava ormai come la brace. L’infermiera, una donna del paese che aveva visto molti casi di quel genere, capì subito di che cosa si trattava: tifo. Lo adagiarono in un letto in fondo alla corsia, mentre l’infermiera preparava l’occorrente per far scendere un po’ la febbre, ed era tutto quello che poteva fare per lui. La gente accorreva per assistere il sacerdote e per tutti era impensabile perdere l’unico punto di riferimento che avevano avuto in quella drammatica esperienza; lo vegliarono a turno in quei giorni, mentre contemporaneamente preparavano di nuovo le valigie. Chiedevano all’infermiera se fosse il caso di portarlo via con loro oppure se era possibile restare con lui fino alla guarigione e tornare poi insieme a Vermiglio, ma quella scrollava il capo come a dire che erano discorsi inutili. Don Giovanni aprì gli occhi solo il giorno prima della partenza, quando già un gruppo di uomini aveva deciso di restare per non lasciarlo solo e nel vedere tutta la sua gente radunata attorno a lui, e pronta a restare in quell’inferno solo per lui, capì finalmente di essere stato un buon pastore e non un pastore e basta, e con questa contentezza e l’augurio appena sussurrato di un buon ritorno chiuse gli occhi per sempre. La scomparsa del parroco, ma prima di tutto di un buon amico per ognuno, attenuò di molto la gioia del ritorno; furono costretti a lasciarlo lí, infine, a seppellirlo in quel cimitero invaso di croci, e recitarono a turno la messa perché non c’era più colui che doveva celebrarla, ed al passaggio della bara anche i militari che non avevano mai mostrato un briciolo di umanità per gli sfollati si tolsero il cappello. Poi, era il momento di andare. Guardarono un’ultima volta il campo dove avevano vissuto quei lunghi anni, e quasi ogni famiglia se ne andava lasciando nella terra qualcuno e quando finalmente rividero le loro case, rivolsero a questi il loro pensiero. Il paese, occupato fino a poco tempo prima dai soldati austriaci, era distrutto, non trovarono piú le poche ricchezze murate nelle pareti. Anche la chiesa era stata danneggiata, all’interno mancava quasi tutto: restava, muta nella sua nicchia, solo la statua di Santo Stefano. Chi aveva sentito le parole apparentemente incomprensibili di don Giovanni mentre veniva accompagnato all’infermeria, riuscì in quel momento a comprenderle e sorrise, perché qualcosa del paese si era salvato: avrebbero trovato da lí la forza di ricominciare. Questi e altri racconti li potrete leggere ne “Le Piccole Cose”. Vi aspetto sempre sul blog www.14piccolecose.blogspot.com e sul gruppo Facebook omonimo. Grazie per l'attenzione e spero diventerete miei lettori!