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2009
A Giuliano e Ilaria.
Indice
Introduzione
1. Il diritto d'autore in ambito WTO
1.1. L'Accordo TRIPs
1.2. La Convenzione di Berna
1.3. Le questioni ancora aperte
2. Il copyleft
2.1. Premessa terminologica
2.2. Le ragioni del copyleft
2.3. Nascita ed evoluzione del copyleft
2.4. Panorama delle principali licenze libere
2.5. Le licenze Creative Commons
2.6. Profili per una evoluzione futura delle licenze libere
Conclusioni
Bibliografia e sitografia
Ringraziamenti
A partire dalla metà degli anni ’90, la rivoluzione digitale ha pian piano sconvolto le
nostre esistenze: la potenza di calcolo dei computer, in costante aumento, appariva ormai
incomparabile con quella di soli dieci anni prima; videocassette, musicassette e perfino i
più recenti floppy disk venivano scalzati dai nuovi supporti (CD-ROM, DVD-ROM e
ancor più recentemente Blu-ray disk) lanciati sul mercato in rapida successione; Internet
intraprendeva la sua irresistibile ascesa come mezzo di comunicazione di massa.
È così che il rapido sviluppo delle moderne tecnologie digitali ed il fenomeno della
crescente interconnessione di massa hanno rivoluzionato la nostra vita privata,
consentendo a chiunque lo desiderasse di accedere, produrre e condividere contenuti
tramite l’utilizzo di apparecchiature e connessioni sempre più sofisticate, conducendoci
a ciò che oggi viene comunemente chiamato "Web 2.0".
Com’è naturale, non vi è stata uniformità di giudizi sul fenomeno del crescente successo
di programmi ed iniziative basate sulla condivisione e sulla partecipazione attiva di
utenti collegati alla stessa rete. Molti sono stati e sono gli interrogativi sulla affidabilità,
sulla stabilità, perfino sulla utilità di alcune iniziative. Interrogativi talvolta fugati da
espressioni di sufficienza o insofferenza, talvolta forieri di utili riflessioni sulla loro
reale qualità, così come sulle loro implicazioni giuridiche, economiche e sociali.
Gli stessi attori "istituzionali" (emittenti radiotelevisive, editori di giornali e riviste, case
editrici, aziende cinematografiche, aziende di programmi informatici e così via) hanno
dovuto riconoscere, ad esempio, la loro "permeabilità" nei confronti di contenuti
multimediali prodotti da persone "non professioniste" che oggi hanno la possibilità di
immettere e pubblicizzare il proprio materiale in un libero circuito che ne permette la
divulgazione (c.d. user generated content).
Scopo finale è quello di analizzare quali siano i profili di compatibilità e quali quelli di
incompatibilità con l’attuale schema di tutela del diritto d’autore, quali siano le tendenze
che si stanno producendo e se e come sarà possibile armonizzare l’approccio copyleft
con le attuali norme del WTO, soprattutto considerando gli effetti, che sempre meno
possono essere sottaciuti, della commercializzazione di opere rilasciate con c.d. "licenze
libere".
Indice
1.1. L'Accordo TRIPs
1.2. La Convenzione di Berna
1.3. Le questioni ancora aperte
L'Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (c.d. Accordo
TRIPs) fu firmato a Marrakesh il 15 aprile 1994 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1995, in
contemporanea con l’Accordo istitutivo della Organizzazione mondiale del Commercio,
ai cui Membri si applica anche l’accordo citato.1
Questi due fenomeni – e più ancora le loro ricadute economiche – hanno portato i
detentori dei diritti di proprietà intellettuale, lungo gli anni ’70 ed ’80, a far pressione sui
Governi occidentali, perché intervenissero più drasticamente nel riaffermare la
legittimità di tali diritti e limitare quanto più possibile gli effetti negativi di una loro
violazione.
Le contromisure adottate dai Paesi occidentali e la prospettiva per i PVS di ottenere delle
concessioni in altri ambiti commerciali, come quello tessile ed agroalimentare,
portarono all’avvio di una nuova trattativa (stavolta conclusasi positivamente)
nell’ambito dell'Uruguay Round. In merito, notano Picone e Ligustro che probabilmente
"molti PVS non avrebbero firmato l’Accordo TRIPs se i Paesi occidentali non avessero
ideato il principio del «single package», che impegna gli Stati che intendono aderire [al
WTO] a partecipare a tutti gli accordi multilaterali conclusi nell’ambito dell’Uruguay
Round".5
La Parte I dell’Accordo TRIPs delinea natura ed ambito degli obblighi che le Parti
contraenti hanno convenuto di rispettare, fra cui rilevano i principi di trattamento
nazionale (art. 3) e della nazione più favorita (art. 4) – due cardini dell’intera architettura
del WTO. La Parte II opera una sintesi dei maggiori temi del diritto industriale ed
intellettuale, individuando una disciplina minima riguardo i diritti d’autore e i diritti
connessi delle opere letterarie ed artistiche (artt. 9-14), dei marchi d’impresa (artt. 15-
21), delle indicazioni geografiche (artt. 22-24), dei disegni industriali (artt. 25-26), dei
brevetti (artt. 27-34) e delle topografie di prodotti a semiconduttori (artt. 35-38).
L’Accordo stabilisce poi il principio del controllo delle pratiche anti-concorrenziali nel
campo delle licenze (art. 40), ripreso ed ampliato nella Parte III, dove vengono stabiliti
con precisione gli obblighi, le procedure e le misure da applicare in caso di violazione
dei diritti menzionati.6
Rileva, infine, citare in questa sede gli artt. 66 e 67, che dispongono misure preferenziali
nei confronti dei Paesi meno sviluppati, e l’art. 68, che istituisce il Consiglio TRIPs
(competente sia sul controllo e l’applicazione dell’Accordo, sia nei rapporti con la
WIPO).
c) ai produttori di fonogrammi;11
f) ai curatori di "compilazioni di dati o altro materiale [...] che a causa della selezione o
della disposizione del loro contenuto costituiscono creazioni intellettuali", fatti salvi i
diritti eventualmente esistenti sui dati o sul materiale utilizzato, a cui comunque non si
applica la tutela prevista (art. 10, par. 2);
Per quanto riguarda l’individuazione dei soggetti di cui alle lettere da a) a d), si
applicano – ai soli Paesi aderenti al WTO – i criteri di idoneità previsti ex art. 3, par. 1,
della Convenzione di Berna o ex artt. 4-6 della Convenzione di Roma.
La tutela accordata ex art. 12 agli aventi diritto è di non meno di 50 anni dall’anno di
autorizzazione alla pubblicazione dell’opera, ovvero dall’anno di realizzazione
dell’opera, in assenza di tale autorizzazione.15 Possono però essere imposte delle
eccezioni o dei limiti "che non siano in conflitto con un normale sfruttamento dell’opera
e non comportino un ingiustificato pregiudizio ai legittimi interessi del titolare" (art.
13).
La vera novità dell’Accordo è nella previsione, inedita, di misure specifiche per la tutela
coattiva dei diritti d’autore. Infatti, fra le critiche alle altre Convenzioni vigenti in
materia, rilevano quelle riguardo il fatto che "while they establish rights for various
interested parties, they contain no obligations regarding the application of effective
enforcement measures. In this respect the TRIPs Agreement marks a major advance".16
È pur vero che diversa è anche la genesi di questo accordo: al contrario delle
Convenzioni citate, infatti, l’Accordo TRIPs "non mira a tutelare internazionalmente i
diritti di proprietà intellettuale, ma a ridurre distorsioni e impedimenti al commercio
internazionale, derivanti non solo dal mancato riconoscimento dei diritti di proprietà
intellettuale e industriale riferibili ad ordinamenti stranieri, ma anche da una tutela
eccessiva".17
La tutela coattiva si desume ex art. 1, dove si afferma che tutti i Membri "danno
esecuzione alle disposizioni del presente Accordo", sebbene abbiano "la facoltà di
determinare le appropriate modalità di attuazione delle disposizioni del presente
Accordo nel quadro delle rispettive legislazioni e procedure".
È in quest’ottica che vanno valutati gli effetti dei già citati principi cardine del WTO, il
trattamento nazionale e la clausola della nazione più favorita. Quest’ultima è stata
inserita su precisa pressione della Svizzera e di altri Paesi industrializzati, privi di quel
"peso" economico di cui potevano disporre i Paesi più "grandi", come gli Stati Uniti. Il
timore era, infatti, che i trattamenti preferenziali stabiliti fra Washington ed altri PVS
non venissero estesi anche agli altri Membri del WTO, anche in ragione di quanto
disposto dalla Convenzione di Berna18 – con ciò violando l’architettura stessa
dell’Organizzazione.
Pertanto ex art. 41, par. 1, gli Stati sono obbligati sia ad adottare norme efficaci "contro
qualsiasi violazione dei diritti di proprietà intellettuale contemplati dal presente
accordo" sulla falsariga di quanto ivi disposto, sia ad applicare tali misure "in modo da
evitare la creazione di ostacoli ai legittimi scambi e fornire salvaguardie contro il loro
abuso" (corsivo aggiunto).
Si può dunque affermare che il diritto d’autore "non viene soltanto affermato, ma anche
garantito internazionalmente tramite una procedura automatica, obbligatoria e soggetta
a termini specifici, sia pure attivabile dagli Stati membri e non dalle persone fisiche e
giuridiche titolari dei brevetti, che ne assicura la protezione effettiva a livello
globale".20
a) di poter accedere alle corti civili, in tempi e modi certi e non eccessivamente
complicati e/o costosi, anche attraverso propri rappresentanti (artt. 41-42);
b) di poter ottenere una ordinanza di cease-and-desist (art. 44);21
La corte, a sua volta, ha la facoltà di chiedere alla presunta parte lesa di produrre prove
concrete della violazione contestata (art. 43) e ordinare la distruzione del materiale
contraffatto (art. 46).
In merito, il titolare dei diritti può richiedere alle autorità doganali la sospensione
dell’immissione in libera pratica delle merci in oggetto (art. 51) e la possibilità di farla
ispezionare al fine di poter dimostrare la validità della propria pretesa (art. 57), previa
ovviamente comunicazione da operarsi "senza indugio" nei confronti dell’importatore
(art. 54).
Rileva però ricordare come quasi tutti i Paesi aderenti al WTO siano anche membri della
WIPO, che applica nella sua interezza la più volte citata Convenzione di Berna – ivi
compreso, quindi, l’art. 6-bis. Proprio con la WIPO viene instaurato un rapporto di
collaborazione molto stretto dagli artt. 63 e 68.
Il primo articolo, come accennato prima, introduce il principio di trasparenza, ossia pone
a carico di uno Stato membro l’obbligo di notificare tutte le disposizioni normative e
regolamentari pertinenti. Lo stesso articolo però concede la facoltà al Consiglio TRIPs di
attingere direttamente ai registri della WIPO, riducendo gli oneri a carico dei Membri.
Note
b) le traduzioni, gli adattamenti e gli arrangiamenti di opere già edite, equiparate alle
opere originali (art. 2, par. 3);
In entrambi i casi di cui alle lettere b) e c), tale tutela si applica senza pregiudicare i
diritti degli autori originali dei contenuti tradotti, adattati o selezionati. Ciò va inteso
anche nel senso che l’eventuale editore intenzionato a pubblicare una traduzione di
un’opera o un’opera composta da testi di più autori deve essere esplicitamente
autorizzato alla pubblicazione dal detentore originale dei diritti.5
Viene inoltre lasciata la facoltà ai singoli Paesi, ex artt. 2 e 2-bis, di ampliare la tutela
anche ad altre forme di espressione delle opere e ad altre tipologie di opere (documenti
ufficiali, traduzioni ufficiali di tali documenti, interventi in ambito parlamentare o in
ambito giudiziale, eccetera).
Beneficiari di questa tutela sono gli autori delle opere (art. 1) o i loro legittimi
successori (successors in title, art. 2, par. 6). Per "autori" si intendono:
b) i cittadini di un Paese non contraente che abbiano pubblicato per la prima volta la loro
opera in un Paese contraente oppure simultaneamente6 in un Paese contraente e in uno
non contraente (art. 3, par. 1, lett. b);
c) i cittadini di un Paese non contraente che però hanno la propria residenza in un Paese
contraente (art. 3, par. 2).
Queste misure si applicano anche agli autori di opere cinematografiche (art. 4, par. 1), ai
detentori dei diritti di sfruttamento di opere cinematografiche (art. 14-bis, par. 1) o di
opere architettoniche o integrate all’interno di edifici o strutture costruite in Paesi
contraenti (art. 4, par. 2).
Vengono altresì protetti gli autori di opere anonime o pubblicate sotto pseudonimo (art.
15, par. 1), stabilendo che, in assenza di prova contraria, l’autore originale debba essere
tutelato "as such where his name appears on the work in the usual manner".7 In questo
caso, l’editore è autorizzato ad esercitare e difendere i diritti dell’autore originale in sua
vece (art. 15, par. 3).
Un’ulteriore tutela può, infine, essere prevista dalle singole legislazioni nazionali per le
opere non ancora pubblicate, anche nel caso in cui l’autore sia sconosciuto ma "può
tuttavia presumersi come appartenente ad un Paese dell’Unione" (art. 15, par. 4, lett. a).
Ai beneficiari, così come individuati, è garantita innanzitutto la tutela dei propri diritti
secondo i principi del trattamento nazionale (art. 5),8 a cui però fanno seguito una serie
di eccezioni riguardo:
a) i modelli ed i disegni industriali, i quali possono essere tutelati come opera artistica
qualora manchi una forma dedicata di tutela (art. 2, par. 7);
c) la durata della protezione accordata, che non può essere maggiore di quella accordata
nel Paese d’origine, a meno che la legislazione del Paese in cui viene richiesta la
protezione non disponga altrimenti (art. 7, par. 8);
d) la cointeressenza (droit de suite), che può essere richiesta solo se la legislazione del
Paese in oggetto lo permette e solo nei termini da essa previsti (art. 14-ter, par. 2).
È prevista inoltre una deroga in caso di opere cinematografiche, in base alla quale i
diritti di sfruttamento commerciale possono definirsi scaduti dopo 50 anni dall’anno di
autorizzazione dell’opera, ovvero dall’anno di realizzazione (art. 7, par. 2).
Riguardo la forma dell’opera, non è richiesto esplicitamente che questa venga realizzata
su un supporto materiale affinché venga tutelata. Tuttavia, è concessa la facoltà ai
singoli Membri di non proteggere un’opera fintantoché essa non sia realizzata su detto
supporto materiale (art. 2, par. 2).
Riguardo invece la sfera di applicazione della Convenzione (art. 3), restano ovviamente
esclusi gli autori cittadini di un Paese non contraente e le opere di tali autori pubblicate
per la prima volta in un Paese non contraente. Tuttavia, va notato come, in seguito
all’integrazione della Convenzione di Berna all’interno dell’Accordo TRIPs, l’art. 3 si
applichi de facto anche agli autori cittadini di un Paesi aderente al solo WTO e alle opere
di tali autori pubblicate per la prima volta in un Paese aderente al solo WTO.9
La tutela a cui sono sottoposti autori ed opere si esplica sotto due punti di vista: c.d.
morale ed economico.
L’art. 6-bis della Convenzione garantisce la tutela dei c.d. diritti morali di:10
Tali diritti devono garantirsi anche nel caso in cui l’autore acconsenta a cedere a terzi i
diritti di sfruttamento economico sulla sua opera o che questi risultino decaduti (art. 6-
bis, par. 1). In generale, essi sono garantiti "almeno fino allo scadere dei diritti
economici", anche se i Paesi membri possono decidere di ampliare ulteriormente
l’ambito temporale di applicazione (art. 6-bis, par. 2), così come a loro è delegata la
facoltà di scegliere come la tutela degli stessi vada esplicata (art. 6-bis, par. 3).
Per quanto riguarda la riproduzione di un’opera, gli autori detengono il diritto esclusivo
di autorizzarla "in qualsiasi maniera e forma" (art. 9, par. 1).13 È però possibile (art. 9,
par. 2) per gli Stati membri della Convenzione permetterne la riproduzione, a patto che
vengano soddisfatte tre condizioni (c.d. three step test):
a) che tale decisione sia limitata a casi sui generis (special cases);
Più complesso appare il discorso riguardo il complesso dei diritti relativi alla
pubblicazione dell’opera. Essendo il frutto di varie e successive Conferenze
Diplomatiche sul punto, essi non si applicano in modo uniforme a tutte le fattispecie di
opere, sussistendo, in aggiunta, difficoltà di interpretazione fra le versioni francese ed
inglese.15
Ex art. 11-bis, par. 1, viene garantito agli autori di "opere letterarie ed artistiche" il
diritto esclusivo di autorizzare, riguardo la propria opera:
Fatti salvi il rispetto dei diritti morali e del diritto di ricevere un equo compenso in capo
all’autore, le condizioni per l’esercizio dei diritti di cui all’art. 11-bis, par. 1, sono
determinati dai singoli Paesi membri e avranno effetto solo all’interno dei rispettivi
confini nazionali (par. 2).
Viene inoltre statuito che l’autorizzazione non implica, salvo accordo contrario, la
possibilità di registrare l’opera. Tuttavia, viene demandata ai singoli Paesi la
determinazione delle condizioni per l’esercizio delle c.d. "registrazioni effimere"16 ed
eventualmente per la conservazione di tali registrazioni in archivi ufficiali "in
considerazione del loro eccezionale carattere documentario" (par. 3).
In ultimo, rileva notare una sfumatura riguardo l’oggetto stesso della Convenzione. Fino
alla revisione apportata dall’Atto di Stoccolma del 14 luglio 1967, l’unica versione
ufficiale della Convenzione era quella stesa in lingua francese. Con la revisione decisa
nel 1967, a questa venne affiancata ex art. 37, par. 1, lett. a) una traduzione in lingua
inglese.18 Tuttavia, ex art. 37, par. 1, lett. c), in caso di controversie continua a far fede la
versione in lingua francese.
È questo un particolare non di poco conto, se si considera che non sempre la
terminologia inglese rende con precisione i concetti linguistici espressi da quella
francese. Il caso più eclatante è quello dell’utilizzo del termine copyright per indicare il
droit d’auteur: sebbene il termine inglese in questo caso vada inteso come sinonimo del
termine francese, non si può affatto trarre la conclusione che i due siano perfettamente
sinonimi anche in altri casi.19
Note
Si è già accennato all’esclusione dell’art. 6-bis della Convenzione di Berna – articolo che
si rivelerà estremamente importante nella presente analisi. Questa decisione è motivabile
con la mancante o insufficiente tutela di questi diritti in alcuni Stati membri,1 fra cui
rileva la posizione degli Stati Uniti, a cui maggiormente si può imputare l’esclusione in
oggetto.
Infatti, tale scelta "è il risultato del recepimento della proposta della delegazione
statunitense che faceva esclusivo riferimento ai diritti di utilizzazione economica
previsti dalla Convenzione di Berna, nonché alla alienabilità di tutti i diritti protetti
dall’accordo TRIPs. Gli Stati Uniti, infatti, non tutelano i diritti morali, nonostante
siano parte contraente della Convenzione. Non a caso, in sede di adesione alla
Convenzione, essi fecero presente che il proprio ordinamento tutela i diritti morali
dell’autore mediante le norme poste a tutela della privacy e contro la diffamazione".2
La decisione di non applicare tale norma in ambito WTO appare comunque discutibile.
Si può affermare che diritti morali e diritti di sfruttamento commerciale sono
strettamente connessi gli uni agli altri e che, addirittura, i secondi siano indirettamente
derivanti dai primi: è infatti l’autore dell’opera a decidere se alienare o meno i propri
diritti a favore di terzi e può farlo perché gli si riconosce (anche solo implicitamente) la
paternità sull’opera prodotta.
Allo stato è ancora potenziale, sebbene da non sottovalutare, anche il problema derivante
dalla "dinamicità" delle Convenzioni esplicitamente incorporate: l’Accordo TRIPs,
infatti, fa riferimento alle disposizioni di tali accordi come da ultimo revisionate, ma
nulla statuisce riguardo ad un’eventuale nuova revisione degli stessi e, di conseguenza,
sul coordinamento fra TRIPs e nuova normazione degli Accordi. Su questo, la dottrina è
ancora in dubbio se possa anche qui valere il principio per cui lex posterior derogat
priori, ovvero se il sistema scaturito dal TRIPs abbia una forza tale da "resistere" ad
eventuali norme successive che siano in contrasto con le disposizioni di quel trattato.4
Appare inoltre difficile che simili problemi di coordinamento possano essere risolti con
facilità attraverso gli organi e le procedure previsti dal WTO per la risoluzione delle
controversie, considerando che un panel non è vincolato dalle decisioni dei panel
precedenti.
Il WCT infatti "sembra poggiare per larga parte sul modello nordamericano –
eccettuata la prevista tutela dei diritti morali – e, quindi, condivide molto poco della
concezione continentale del diritto d’autore (e, in particolare, di quella francese)", in
taluni casi ricalcando le norme dell’Accordo TRIPs, in altri prevedendo accorgimenti
che si spingono anche oltre tale portata.7 Lo stesso si può dire per il WPPT, di cui "parte
delle disposizioni [...] sono modellate su quelle del WCT".8
In merito, molte critiche sono emerse riguardo il fatto che il TRIPs, e più in generale le
misure decise in ambito WTO non considerano "né la tutela dei diritti fondamentali
della persona umana e dei lavoratori né la protezione dell’ambiente come discriminanti
nel commercio internazionale", laddove invece impongono "la valenza universale dei
monopoli sullo sfruttamento commerciale delle invenzioni che inevitabilmente creano un
freno al sistema multilaterale degli scambi",11 oltre a porre una serie di dubbi etici
riguardo l’assenza di qualsivoglia "restrizione al suo esercizio (né generale né specifica)
riguardante la tutela dei diritti umani, ma soltanto una serie di deroghe eccezionali di
non sempre facile interpretazione" che costituiscono "un azzardo giuridico di dimensioni
inaudite".12
Il dibattito in corso evidenzia comunque come si sia persa, perlomeno fino ad ora, una
occasione storica per gestire un fenomeno che, a partire dal 1998, ha trasceso la semplice
dimensione commerciale per entrare in una dimensione più "etica". Il riferimento è
ovviamente alla causa giudiziaria intentata nel febbraio 1998 da 39 multinazionali
farmaceutiche contro il Sudafrica per violazione, inter alia, dei brevetti sui farmaci
antiretrovirali e delle normative TRIPs.
Il procedimento è proseguito, fra alterne vicende, fino alla decisione delle multinazionali
di ritirare il proprio ricorso, annunciata il 19 aprile 2001. Sicuramente ha influito sulla
decisione "il ruolo assunto dall’opinione pubblica nazionale ed internazionale che,
attraverso vaste campagne di mobilitazione a favore dell’accesso ai farmaci", hanno
indotto a ben più miti consigli dapprima gli Stati occidentali, costringendoli "a ripensare
l’iniziale posizione fortemente contraria nei confronti della normativa sudafricana e poi
dissuaso i ricorrenti dal continuare la loro azione".13 Un reclamo simile, esperito dagli
Stati Uniti nei confronti del Brasile in ambito WTO, fu parimenti ritirato in seguito alle
reazioni indignate dell’opinione pubblica, inducendo il ricorrente alla ricerca di una
soluzione negoziale della controversia.14
È tuttavia giusto notare come entrambi i ritiri "non devono essere interpretati come il
riconoscimento della piena conformità delle politiche avviate da questi Paesi rispetto
alla normativa TRIPs", ma al contrario come una "presa di coscienza giuridica che le
restrizioni imposte dall’Accordo TRIPs alle iniziative adottate dai Paesi poveri nella
lotta all’AIDS costituiscono una violazione, seppure incidentale, della norma
imperativa15 [...] che prevede il diritto di ogni Stato alla sopravvivenza della propria
popolazione".16
Sebbene sin qui larga parte delle preoccupazioni dei PVS – e delle conseguenti misure
decise in seguito alle vicende descritte – siano rivolte all’ambito farmaceutico, tale
problema riguarda il fenomeno della "pirateria" nella sua complessità. A tal proposito,
alcuni commentatori hanno notato come il commercio parallelo permetta ai Paesi
importatori netti di beni "to benefit from more competition, lower prices and better
availability as a result of its exposure to far larger international markets",19
scoraggiando nei fatti la produzione e vendita di prodotti contraffatti, che perderebbero
così la loro "attrattività economica" non solo nei mercati dei PVS, ma anche in quelli
occidentali.
Altri però fanno notare come, proprio in virtù della clausola del trattamento nazionale,
gli stessi PVS trarrebbero benefici limitati dalla regola dell’esaurimento nazionale,
qualora venisse da loro imposta unilateralmente. Essa infatti si applicherebbe
automaticamente anche alle loro merci negli altri Paesi.20
Note
La parola apparve per la prima volta nel giugno 1976 sulla rivista informatica Dr.
Dobb’s Journal, in una pubblicazione riguardo il linguaggio di programmazione Tiny
BASIC: fra le prime righe di presentazione, il dottor Li Chen Wang inserì il commento
"@COPYLEFT ALL WRONGS RESERVED" (letteralmente: "Copyleft, tutti i torti
riservati").2
Il gioco di parole usato si basava sui vari significati che assume la parola right in
inglese, che può significare infatti "diritto", ma anche "destra" (da cui l’uso dell’opposto
left, "sinistra")3 oppure "giusto" (da cui l’uso dell’opposto wrong, "torto").
Una licenza libera4 è una licenza d’uso5 di un’opera, ricompresa nell’ambito delle c.d.
browse-wrap licences,6 con la quale l’autore "chiarisce al pubblico quali diritti intende
riservarsi e di quali intende invece «spogliarsi»".7
In altri termini, queste licenze garantiscono l’autorizzazione ("e non [il] trasferimento,
in quanto la titolarità dei diritti stessi non viene ceduta")8 implicita, rilasciata a titolo
gratuito dall’autore, al compimento di alcune attività altrimenti considerate illegali,
come la copia, la modifica e la redistribuzione dell’opera.
In questo senso, dunque, si possono definire le licenze libere come un "contratto" stretto
in piena autonomia fra l’autore e l’utilizzatore dell’opera. Esistono addirittura licenze
libere, come le licenze Creative Commons, che si strutturano esattamente come dei
contratti.9
Proprio per minimizzare questi rischi e considerato anche che "la redazione delle licenze
richiede una certa competenza a livello giuridico che l’autore medio non sempre
possiede",12 si sono sviluppati alcuni modelli standard grazie all’intermediazione di
alcune organizzazioni (come la Free Software Foundation o la Creative Commons
Foundation) o alla definizione di determinati criteri che possano permettere di definire
una certa licenza "libera".
a) quelle c.d. "non protettive", ossia che non prevengono la possibilità che l’opera possa
essere integrata in opere "proprietarie"14 e che non impongono alcuna limitazione sulla
distribuzione di opere derivate;
b) quelle c.d. "protettive", ossia che applicano delle restrizioni alla redistribuzione
dell’opera al solo fine di mantenerle "libere" perpetuamente.
Il fenomeno delle licenze libere è legato alla nascita dei c.d. free software e dei c.d. open
source software, anche se ormai – come si vedrà – dall’ambito informatico esso si è
esteso anche ad altre forme di pubblicazione.
Free software è un termine inglese che indica un programma che può essere liberamente
usato, copiato e modificato, così come distribuito nella sua versione originale o in una
modificata senza restrizioni, tranne quella di garantire che anche altri possano usufruire
delle stesse libertà.
Per dirla con le parole di Richard Stallman, fondatore della Free Software Foundation, "
[f]ree software is a matter of liberty, not price. To understand the concept, you should
think of free as in free speech, not as in free beer".16 Per questo motivo, si usa talvolta
anche la definizione software libre o libre software.17
3) libertà di distribuire le versioni modificate, così che tutta la comunità ne possa trarre
beneficio.
Sia nel caso della "libertà 1" che della "libertà 3", l’accesso al codice sorgente del
programma è un prerequisito fondamentale. Così come, affinché queste quattro libertà
siano rispettate, "they must be permanent and irrevocable as long as you do nothing
wrong",20 ossia che possono essere revocate in presenza di una violazione dei termini
d’uso.
La metodologia qui descritta era già in uso negli anni ’50 e ’60 nelle Università
statunitensi, che all’epoca erano di fatto le uniche produttrici di programmi per
computer. Dal momento che si trattava di prodotti di ricerca, i codici sorgenti22 dei
programmi venivano liberamente allegati al programma dagli stessi
ricercatori/programmatori. In questo modo, chiunque avesse riscontrato un
malfunzionamento o avesse voluto aggiungere una nuova funzionalità ritenuta
necessaria, avrebbe avuto già a disposizione le "istruzioni di base" per poterlo fare.
La tendenza iniziò a invertirsi verso la fine degli anni ’60 fino ad annullarsi quasi
completamente negli anni ’80, quando le aziende private si sostituirono alle Università
nella produzione di programmi e brevetti e licenze d’uso restrittive diventarono la
norma. Nonostante tutto, la prassi di scambiare i codici sorgenti dei programmi restò in
vita, sebbene limitata a piccole comunità di programmatori.
Nel 1991, con la nascita del sistema operativo Linux, il metodo "open" riacquistò man
mano vigore, sfruttando anche lo slancio fornito dal movimento dei free software. Nel
1998, Bruce Perens e Eric S. Raymond fondarono la Open Source Initiative (OSI), una
associazione per promuovere i programmi open source, diventata in breve una delle
organizzazioni di riferimento nell’area.
1) Libera distribuzione: non possono essere previste restrizioni alla libera diffusione (a
pagamento o gratis) dei programmi;25
4) Integrità del codice sorgente: è ammessa la non modificabilità del codice sorgente
solo se è permesso rilasciare eventuali modifiche a parte attraverso le c.d. patch,28
facendo salva la possibilità di distribuire versioni modificate del programma;29
5) Divieto di discriminazione verso persone o gruppi: non può essere operata alcuna
forma di discriminazione nella distribuzione del programma, anche se la licenza può
avvertire della presenza di determinate limitazioni derivanti dalle norme vigenti
all’interno del Paese e/o dalle specifiche restrizioni imposte da un Paese nei confronti di
un altro Paese;30
6) Divieto di restrizioni riguardo i campi di utilizzo: non può essere operata alcuna
forma di divieto di utilizzo di un dato programma in un dato ambito;31
8) Divieto di licenza specifica: non può essere applicata una licenza specifica ad un
programma distribuito in un pacchetto ("distribuzione") più ampio di programmi, ma va
applicata la licenza del pacchetto da cui è stato tratto il programma;33
10) Neutralità tecnologica: la licenza non può prevedere alcuna misura riguardo
qualsivoglia tecnologia o modalità di interfaccia.35
Note
Parlare di copyleft implica anche l’analisi (che sarà condotta nel paragrafo successivo)
della storia dei programmi e dei progetti nati da questa filosofia, inizialmente legata
all’ambito informatico e solo più recentemente ampliatasi alle espressioni letterarie ed
artistiche.
Indubbiamente, questo "percorso breve" è figlio della rivoluzione digitale in corso dagli
anni ’80: come si accennava nell’introduzione a questa analisi, la crescente
velocizzazione dei processi produttivi dovuta all’uso di tecnologie informatiche sempre
più potenti ha "naturalmente" prodotto la necessità di ridurre ulteriormente i "tempi
morti" della produzione.
Il nodo è un altro. Come suggerisce l’adagio, est modus in rebus: esiste un modo con cui
far valere le proprie ragioni, senza per questo cadere nel torto o apparire come
intenzionati solo a mantenere la propria posizione di privilegio, sancita e legittimata
dalla legge.
Ad essere sempre più criticato è il modo scelto da molte imprese per difendersi: anziché
accettare il dato di fatto di una tendenza incontrovertibile e adeguarsi alla necessità di
rinnovarsi per poter continuare a restare sul mercato, si preferisce – per utilizzare una
terminologia scacchistica – l’arrocco in difesa, richiedendo e ottenendo un
rafforzamento dei termini di protezione delle opere e procedendo con costose (e non
sempre efficaci) azioni legali, perfino di tipo penale, contro chi viola le norme sul
copyright.3
È stato comunque notato come l’inasprimento dei metodi con cui si perseguono i
"pirati", in realtà, non porti affatto a recuperare quei profitti che si intendono
illegalmente sottratti dalle attività di contraffazione, anzi. "Le verifiche empiriche
mostrano che [...] ciò in molti casi si traduce semplicemente nell’abbandono di consumi
e mercato"4 da parte di chi viene perseguito, ossia nel dirottare altrove le proprie
intenzioni di spesa.
A questo, si aggiunge il finanziamento, da parte delle major, della ricerca nel campo del
Digital Rights Management (DRM), ossia nel campo delle nuove tecnologie volte ad
impedire o limitare la possibilità di copiare un’opera, soprattutto in ambito musicale.
Tentativi questi che, al pari delle altre iniziative, non hanno portato i frutti sperati e che,
anzi, hanno causato in taluni casi effetti diametralmente opposti a quelli ricercati.
Il caso più eclatante fu quello che coinvolse la Sony BMG nel 2005, accusata di aver
inserito un programma DRM "nascosto" in circa un centinaio di titoli musicali. Già in
passato, un paio di CD prodotti dalla casa discografica prevedevano una limitazione (di
cui però l’utente finale era avvertito) di questo genere. Inoltre, la stessa aveva già
integrato nei propri CD un particolare software di riproduzione musicale, la cui
installazione sul computer era obbligatoria qualora si volesse utilizzare il proprio PC per
ascoltare quel CD e che limitava a tre le copie possibili dello stesso.
In seguito, si scoprì che i programmi DRM utilizzati, Extended Copy Protection (XCP) e
MediaMax CD-3, erano in effetti programmi che si auto-installavano sul computer nel
momento stesso in cui il CD veniva inserito per la prima volta – in assenza di adeguata
segnalazione della loro presenza e, dunque, di assenso esplicito dell’utente finale
all’installazione degli stessi.
I programmi venivano poi considerati come "file nascosti" dal sistema, ne rallentavano il
funzionamento e avrebbero potuto generare improvvisi malfunzionamenti. Soprattutto,
generavano notevoli falle nella sicurezza del computer, facilmente sfruttabili da virus5 e
malware6 – cosa che poi puntualmente avvenne.7 Infine, il programma non poteva essere
disinstallato, se non con procedure che avrebbero potuto compromettere il sistema.
Russinovich lo definì senza mezzi termini "a clear case of Sony taking DRM too far".8
Il caso appena presentato, ad onor del vero, rappresenta un tentativo spintosi "troppo
oltre" nella difesa delle legittime prerogative dell’industria informatica, delle emittenti
radiotelevisive e delle case editrici, discografiche e cinematografiche. Tuttavia, questo
non impedisce di riconoscere realisticamente l’esistenza di difetti nel modello copyright
e di valutarne gli effetti in termini economici, così come di circolazione delle idee.
Nella pratica, però, possono verificarsi situazioni completamente diverse, nelle quali
l’applicazione troppo restrittiva di queste norme può rivelarsi dannosa per le dinamiche
del mercato, determinando una serie di comportamenti inefficienti.
Gli economisti Antonella Ardizzone e Giovanni Ramello hanno individuato tre critiche
al sistema del copyright,14 che per comodità saranno analizzate separatamente. Esso
potrebbe determinare:
Si può ritenere che la produzione di nuovi contenuti "è per sua natura incrementale, in
quanto trova fondamento e ispirazione nelle opere precedenti e nel contesto culturale di
riferimento. Spesso gli autori aggiungono una nuova riflessione ad idee preesistenti, le
riorganizzano, le imitano o le copiano per giungere ad un risultato inedito".15
"Questo «prendere in prestito» – continua Lessig – non era affatto raro, né per Disney
né per l’industria dei cartoni animati. Disney rifaceva sempre il verso ai lungometraggi
di maggiore successo dei suoi giorni".16 E non fu il solo episodio: larghissima parte dei
lungometraggi prodotti dalla Walt Disney Company si basano su o sono riadattamenti di
favole, leggende ed opere letterarie del passato (Biancaneve, Pinocchio, Alice nel Paese
delle meraviglie, Robin Hood, La spada nella roccia, Il libro della giungla...).
Poiché dunque la creatività nelle c.d. arti liberali non nasce quasi mai ex nihilo,
l’imposizione di un prezzo sull’opera "ispiratrice" aumenta ipso facto il costo di
produzione dell’opera "derivata", che a sua volta si scaricherà sul prezzo proposto
all’utente finale. E più sono i soggetti coinvolti, più "aumenta l’onere che i creatori
devono sostenere per [...] riunire i singoli diritti", aumentando dunque ulteriormente i
costi di produzione e limitando dunque "l’accesso all’attività creativa solo per coloro
che hanno risorse sufficienti per sostenerli (non sempre i creatori più efficienti) e
addirittura scoraggiarla".17
Lessig cita come esempio di questo fenomeno l’iniziativa di una azienda, la Starwave,
che nel 1993 era intenzionata a promuovere l’immissione sul mercato dei CD-Rom
attraverso una serie di retrospettive sui più grandi attori di Hollywood. La realizzazione
della prima retrospettiva, che avrebbe visto protagonista Clint Eastwood, richiese circa
un anno di lavoro, consistente perlopiù nel rintracciare i legittimi detentori dei diritti di
sfruttamento commerciale su sceneggiature, spezzoni di film, locandine, manifesti ed
altro materiale – "e neppure allora eravamo sicuri che fosse tutto a posto", ammise
l’ideatore del progetto, Alex Alben.18
Va da sé che un lavoro del genere può essere effettuato solo da persone che hanno una
struttura simile a quella della Starwave alle spalle – struttura che, comunque, non
garantisce affatto la possibilità di raggiungere lo scopo che ci si prefigge, poiché il vero
problema è dato dalla dipendenza dai desiderata dei detentori dei diritti.
Una tale conformazione del mercato genera numerosi effetti perversi nell’allocazione
delle risorse. Innanzitutto, spinge le aziende dominanti ad adottare comportamenti anti-
concorrenziali, quali l’acquisizione di potenziali concorrenti "pericolosi" o di ampie
quote dei canali di distribuzione e il ricorso a pratiche volte a danneggiare i concorrenti
più deboli e scoraggiare l’entrata nel mercato di nuovi attori.
Queste pratiche sono talvolta in opposizione alle normative anti-trust nazionali, talvolta
derivanti proprio dalla posizione di dominanza, assunta sul mercato, come la possibilità
di poter investire molti più soldi nel battage pubblicitario o nell’acquisizione di titoli di
sicuro successo, oppure ancora la possibilità di poter disporre di propri canali di
distribuzione in modo da limitare la distribuzione dei prodotti della concorrenza.
Gli effetti si ripercuotono sugli autori messi sotto contratto dalle due categorie di attori.
Le indagini condotte "su alcuni mercati artistici, anche in Italia, confermano quanto
affermato, mostrando da un lato che le remunerazioni [del diritto d'autore] procurano
redditi significativi ad un numero esiguo di autori, e dall’altro che esiste una certa
inerzia in tali redditi, per cui nei vari anni sono sempre gli stessi autori a ricevere
redditi rilevanti, mentre il ricambio di tale popolazione è minimo".22
L’asimmetria nella retribuzione degli attori insider e di quelli outsider genera, inoltre,
una tendenza dei primi a disperdere ulteriormente le risorse a propria disposizione,
attraverso una serie di investimenti improduttivi (magari sostenuti da sussidi statali)
effettuati al solo scopo di rafforzare la propria posizione dominante e ricercare
dinamiche di rent-seeking.
Non a caso, l’esempio di Apple e di iTunes è lampante: è toccato ad una azienda che non
aveva rapporti col mondo della musica rompere gli schemi e dare ad un fenomeno come
quello del download illegale di musica una conformazione legale, a pagamento e
perdipiù senza fare ricorso al DRM. Seguendo questo approccio, oggi Apple detiene
circa i due terzi del mercato.24
Al riguardo, rileva notare come in passato "[n]el campo della musica registrata, la
pirateria è stata de facto ben accetta nel contesto analogico perché consentiva alle
imprese [...] di ottenere sussidi incrociati dalla vendita di supporti vergini e apparecchi
di registrazione prodotti, e inoltre svolgeva una funzione promozionale al disco
(«sampling effect») e introduceva comunque i consumatori meno ricchi al consumo di
musica registrata, permettendo poi una successiva loro trasformazione in acquirenti di
prodotti legali".25 Va da sé che il "sampling effect" era, dunque, tollerato anche perché la
qualità della registrazione pirata era inferiore all’originale.
Dal momento che il DAT permetteva di colmare questa differenza di qualità, l’industria
musicale statunitense iniziò una serie di trattative con la Sony ed altre aziende
produttrici affinché venissero messi a punto meccanismi per impedire copie digitali non
autorizzate di eventuali titoli prodotti con la tecnologia DAT. La RIAA, in particolare,
mise in atto un’intensa opera di lobbying presso il Congresso degli Stati Uniti, al fine di
ottenere un provvedimento che regolamentasse il sistema.
Nel 1992, venne approvato (con l’accordo di tutte le parti interessate) l’Audio Home
Recording Act (AHRA), che stabiliva il pagamento di una tassa da parte di produttori ed
importatori di supporti digitali del 2% per singolo supporto. Il ricavato avrebbe
costituito un fondo con il quale si sarebbe finanziato il lavoro di autori, musicisti,
scrittori e anche (per la prima volta) delle etichette musicali. L’AHRA fu abbastanza
restrittivo da rallentare l’adozione del DAT, limitandone la diffusione solo agli ambienti
professionali ed aiutandone la marginalizzazione a favore dei CD. Nel dicembre 2005,
infine, la Sony interruppe definitivamente la produzione dei supporti DAT.
Qualcosa di simile è stato tentato nei confronti delle webradio: la RIAA nel 1995 spinse
per far approvare una regolamentazione particolarmente restrittiva in materia, in base
alla quale le radio che trasmettono via Internet devono corrispondere delle royalty anche
all’artista – al contrario delle radio "terrestri", che continuano ad essere dispensate
dall’obbligo.
"Questo peso finanziario non è cosa da poco. Secondo le stime di William Fisher,
professore di legge ad Harvard, se un’emittente su Internet distribuisse musica di
successo senza inserzioni pubblicitarie a (mediamente) diecimila ascoltatori, per
ventiquattro ore al giorno, i diritti che dovrebbe pagare agli artisti, complessivamente
ammonterebbero a oltre un milione di dollari l’anno".26
Il fenomeno dell’open source e delle licenze libere costituisce una risposta a questi
problemi. Sempre più i dati empirici confermano che, attraverso la rivelazione dei propri
"segreti aziendali" a comunità composte da "anonimi", si ottengono risultati molto più
vantaggiosi rispetto a quando questi segreti vengono gelosamente tutelati.
Il caso probabilmente più eclatante – che verrà ripreso anche nel prossimo paragrafo – è
quello dell’apertura di IBM al mondo dell’open source: passando da un modello di
sviluppo estremamente accentratore e rigido ad uno aperto e dinamico, ha abbattuto i
costi, recuperato importanti fette di mercato e rafforzato la posizione nei confronti dei
principali avversari, Microsoft e Sun.28
Un altro esempio è dato proprio da Sun, che acquisì i diritti nell’agosto 1999 su
StarOffice, un pacchetto di software di produttività personale29 prodotto dalla
StarDivision. Quasi un anno dopo (luglio 2000), il codice sorgente di StarOffice fu reso
pubblico con un formato copyleft30 e venne annunciata la creazione del progetto
OpenOffice.org, con lo scopo di coagulare una comunità open source che potesse
sviluppare un pacchetto basato su un formato "aperto".
L’obbiettivo era quello di sfruttare le soluzioni sviluppate dalla comunità per migliorare
le prestazioni del pacchetto StarOffice, da cui Sun intendeva ottenere profitti sia in
termini di vendite che di fornitura di servizi di assistenza collegati: in parole povere, un
classico esempio di outsourcing. La scommessa sembra aver funzionato: OpenOffice
registra circa 130 milioni di download,31 mentre StarOffice è in vendita a costi
decisamente inferiori rispetto ad altri pacchetti "proprietari", offrendo funzionalità di
qualità simile o addirittura superiore.
Non è vero, dunque, che solo una indistinta "collettività" sia interessata ad un simile
modello di sviluppo, né che il vantaggio di coloro che collaborano a progetti open source
siano puramente morali, per quanto è pur vero che una libera disponibilità di opere
prodotte in questo modo, che possono essere "anche di nicchia e di alta qualità, [...]
risulta funzionale anche a non accentuare l’appiattimento dei gusti e della sensibilità
degli utenti per effetto della continua stimolazione alle produzioni di massa".32
Proprio questo ampliamento tanto dell’offerta, quanto del mercato stesso potrebbe
generare effetti benefici anche per i Paesi meno industrializzati: sebbene sia
eccessivamente ottimistico pensare che in questo modo essi possano completamente
recuperare il gap tecnologico che li divide dai Paesi occidentali, è ragionevole ritenere
che la fornitura di prodotti basati sulla filosofia "open" possa essere loro d’aiuto nel
colmarlo in parte.34
Barlow è esplicito nel condannare quella che ritiene essere l’inadeguatezza delle attuali
norme: "The laws regarding unlicensed reproduction of commercial software are clear
and stern... and rarely observed. Software piracy laws are so practically unenforceable
and breaking them has become so socially acceptable that only a thin minority appears
compelled, either by fear or conscience, to obey them".36
Oggi, nonostante i sussidi garantiti alle imprese per "compensarle" dei danni subiti dalla
"pirateria" non siano stati né oggetto di rinuncia da parte dei produttori di programmi
informatici o di opere letterarie ed artistiche, né eliminati da parte dei Governi (alcuni
dei quali, anzi, hanno preferito estenderli a nuove forme di supporti),37 il fenomeno è
decisamente meno tollerato dalle major, mentre resta nella società un atteggiamento di
comprensione (se non addirittura di solidarietà "attiva") nei confronti dei "pirati".
Sempre Barlow nota che "[w]henever there is such profound divergence between the law
and social practice, it is not society that adapts. [...] Part of the widespread popular
disregard for commercial software copyrights stems from a legislative failure to
understand the conditions into which it was inserted. To assume that systems of law
based in the physical world will serve in an environment which is as fundamentally
different as Cyberspace is a folly for which everyone doing business in the future will
pay".38 Rileva aggiungere come un "sistema di legge" complesso e affastellato di
continue aggiunte e correzioni sia ancor più inadeguato a gestire tali rapporti.39
Mancanze di questo genere sono "normali" nelle comunità open source, dove spesso ci si
concentra sulla più "gratificante" attività di correzione dei problemi, piuttosto che sulla
lunga e tediosa stesura di documenti sul funzionamento e sul corretto uso del
programma. Scelte del genere sono dovute soprattutto alla natura stessa degli aderenti a
queste comunità, spesso volontari non pagati, e all’assenza strutturale di un "controllo
centrale" che garantisce sì flessibilità, ma può generare meccanismi di disimpegno nei
confronti delle attività noiose o a basso livello cognitivo.42
L’analisi dei costi e dei benefici, dunque, suggerisce un approccio molto più pragmatico
che non consideri il copyleft come "panacea di tutti i mali" o, addirittura, come il regime
che soppianterà completamente il copyright in un prossimo futuro. Soprattutto
quest’ultimo, estremistico obbiettivo (come notato prima) non è nelle corde della
filosofia copyleft, che peraltro rappresenta piuttosto una evoluzione del copyright verso
modalità più flessibili e "liberali".
Notano Ghidini e Falce: "In realtà, dunque, la tutela erga omnes che discende dal potere
escludente del paradigma classico rappresenta l’arsenale difensivo del modello [open
source], consentendo a questo di preservare la sua fisionomia tipicamente di rete di
licenze volontarie[, con ciò] senza degenerare nel caos di un free riding di tutti contro
tutti".43
Date queste premesse, è logico dedurne che l’adozione di un modello piuttosto che
dell’altro continuerà a dipendere unicamente dalle scelte dei singoli autori, incentivati a
"riappropriarsi" delle prerogative che spettano loro in quanto tali, e dei singoli
consumatori, che continueranno ad avere interesse ad acquistare prodotti di qualità a
prezzi competitivi.
Note
Nel 1984, un giovane hacker1 del Massachusetts Institute of Tecnology (MIT), Richard
Stallman, creò un sistema operativo "libero" chiamato GNU, acronimo per "GNU’s Not
Unix" ("GNU non è Unix").2 L’idea di fondo del progetto era costituire (o meglio, ri-
costituire) una comunità di hackers che mettesse in condivisione capacità, esperienza e
creatività per produrre programmi liberi da copyright, in controtendenza rispetto alla
linea, descritta precedentemente, adottata dalle principali aziende informatiche
statunitensi.
Per far questo, Stallman decise di lasciare il MIT, definendo la decisione "necessaria"
per evitare che potesse interferire con la distribuzione di GNU come software libero e
rivendicare la proprietà del lavoro, imponendo i propri termini di distribuzione o
addirittura trasformarlo in un software "proprietario". Nonostante tutto, poté sfruttare
comunque sfruttare le attrezzature del Laboratorio Intelligenze Artificiali, grazie alla
compiacenza dell’allora responsabile.3
Il primo programma libero creato fu l’editor di testo GNU Emacs (versione libera
dell’omonimo programma della Gosling), reso disponibile inizialmente tramite i server
del MIT nel 1985 e, successivamente, su altri supporti dietro pagamento.
Si poneva, però, a questo punto il problema di come impedire che Emacs e i successivi
programmi creati dal Progetto GNU fossero trasformati in software "proprietari",
perdendo così le loro caratteristiche fondamentali: la libera modificabilità e la libera
redistribuzione.
Stallman decise dunque di usare il copyleft come metodo per preservare le sue creature.4
In pratica, avrebbe creato una licenza d’uso che avrebbe concesso a tutti il permesso di
usare, copiare e modificare il programma, di distribuire le versioni modificate – ma non
di poter aggiungere restrizioni a questi diritti.
Con l’aumentare dell’interesse verso l’iniziativa, nel 1985 venne fondata la Free
Software Foundation (FSF), alla quale vennero trasferiti tutti i diritti che riguardavano
GNU Emacs e i successivi software prodotti – o, per meglio dire, la FSF veniva
incaricata non solo della diffusione e della distribuzione dei programmi, ma anche di
verificare che la licenza d’uso ideata venisse rispettata.
I principi di questa licenza vennero poi sanciti definitivamente nel 1986, con la già citata
Free Software Definition, scritta da Richard Stallman e pubblicata dalla FSF. Da questa
deriva la GNU General Public Licence (anche chiamata GNU GPL o solo GPL),5
pubblicata nel 1989 e definita da un anonimo "la Magna Charta degli hackers".6 A
questa si aggiunsero successivamente la GNU Lesser General Public Licence (GNU
LGPL o solo LPGL, 1991)7 e la GNU Free Documentation Licence (GNU FDL o GFDL,
2000).8
"As the GNU project’s reputation grew, people began offering to donate machines
running Unix to the project. These were very useful, because the easiest way to develop
components of GNU was to do it on a Unix system, and replace the components of that
system one by one. But they raised an ethical issue: whether it was right for us to have a
copy of Unix at all.
Unix was (and is) proprietary software, and the GNU project’s philosophy said that we
should not use proprietary software. But, applying the same reasoning that leads to the
conclusion that violence in self defense is justified, I concluded that it was legitimate to
use a proprietary package when that was crucial for developing a free replacement that
would help others stop using the proprietary package.
But, even if this was a justifiable evil, it was still an evil. Today we no longer have any
copies of Unix, because we have replaced them with free operating systems. If we could
not replace a machine’s operating system with a free one, we replaced the machine
instead".9
Nel 1990, infatti, larga parte delle componenti era stata "scritta", con una sola, ma
rilevantissima, eccezione: il kernel, ossia il nucleo stesso del sistema operativo, quello
che fornisce e gestisce tutte le funzioni essenziali. Il tentativo di produrne uno stabile,
che nelle intenzioni sarebbe stato chiamato GNU Hurd, non andò in porto e fu infine
abbandonato.
La prima versione del suo sistema operativo, solo dopo chiamato Linux,11 fu la 0.01 e fu
rilasciata il 17 settembre 1991 con una licenza sui generis, decisa dallo stesso Torvalds:
il programma, infatti, non poteva essere utilizzato a scopi commerciali. Solo a metà
dicembre 1992, con il rilascio della versione 0.99, Linux venne rilasciato con licenza
GPL.
Questa decisione, poi definita da Torvalds "definitely the best thing I ever did",12
permise dunque l’integrazione di Linux con il sistema operativo creato da Stallman e
colleghi, ponendo le basi per la nascita da quel momento in poi di innumerevoli varianti
di sistemi operativi liberi – tutti comunque riconducibili a GNU/Linux13 o a sue
derivazioni.
Fra questi rileva ricordare: Slackware, una delle prime versioni nate ed attualmente la
più "vecchia" ancora in circolazione; Debian, la cui comunità di sviluppo deriverà dalla
FSF le proprie linee guida, che a loro volta saranno alla base della citata Open Source
Definition; Red Hat Linux, poi abbandonato nel 2004, dalla cui esperienza è poi nato
Fedora; Ubuntu, diventato la principale distribuzione.14
Lanciato nella sua "versione beta"15 (la 0.6.2) ad aprile 1995 e nella sua "versione
stabile"16 nel dicembre dello stesso anno, Apache divenne leader nel mercato nel giro di
appena 12 mesi – per non lasciare mai più la sua posizione di predominanza. Ad oggi,
infatti, si calcola che circa il 70% dei siti internet sia basato su server che usano
Apache.17
Nel marzo 1998, alcuni rappresentanti di IBM incontrarono Brian Behlendorf, capo del
gruppo di sviluppatori di Apache. Entrambe le parti mostravano una certa diffidenza nei
confronti dell’altra: da una parte, i programmatori del software libero temevano che IBM
intendesse imporre limitazioni "proprietarie"; dall’altra, i tecnici di quest’ultima
nutrivano dubbi tecnici e legali sulla collaborazione con una comunità composta da
programmatori sparsi in tutto il mondo.
Dopo appena tre mesi di collaborazione, IBM decise che tutti i suoi prodotti avrebbero
supportato Apache e, anzi, che quel programma sarebbe stato integrato nella linea
WebSphere, che ebbe un notevole successo. Fu un punto di svolta decisivo, perché gli
ottimi risultati di questa iniziativa portò il colosso informatico ad un’altra grande,
decisiva svolta: l’ingresso nella comunità di Linux.
IBM scelse avvedutamente "di farsi carico delle attività meno affascinanti, ma
comunque necessarie. L’azienda contribuì a rafforzare l’affidabilità di Linux attraverso
il testing del codice, la risoluzione dei difetti, la stesura della documentazione e la
cessione del proprio codice e i propri strumenti secondo i dettami dell’open source".18
Nel marzo del 2003, la azienda produttrice di software "The Santa Cruz Operation"
Group Inc. (chiamata anche SCO Group, o anche solo SCO) intentò causa presso la Corte
Distrettuale dello Utah contro il colosso informatico IBM, per una presunta violazione
dei termini di utilizzo e dei diritti di sfruttamento economico di Unix.20
SCO accusò IBM di aver rivelato il codice sorgente di Unix ai programmatori della
comunità Linux, cooperando con loro per la realizzazione e lo sfruttamento economico di
alcuni software derivati, violando pertanto gli obblighi di riservatezza contenuti nei vari
contratti di licenza e i diritti di sfruttamento commerciale di varie versioni di Unix, che
SCO rivendicava. Al centro della disputa vi erano le versioni 2.4.x, 2.5.x e 2.6.x di Linux,
che incorporavano (secondo le tesi del ricorrente) mere elaborazioni di Unix e diverse
porzioni di AIX e Dynix comuni anche a Unix.
Parallelamente, SCO diffidò le 1500 maggiori imprese statunitensi dal comprare e/o
commerciare prodotti basati su Unix, minacciando di ricorrere alle vie legali anche nei
confronti di qualsiasi utente (anche finale) di Linux. "I maligni sospettano che dietro
l’iniziativa di SCO vi sia la mano (neppure tanto invisibile) di Microsoft, la quale
avrebbe già chiesto ed ottenuto dall’attrice una licenza a titolo oneroso per l’utilizzo di
quei diritti".21
IBM si difese affermando che la comunità Linux ottenne dai precedenti titolari e dalla
SCO stessa il codice sorgente. In aggiunta, denunciò a sua volta SCO per violazione del
copyright e per violazione della licenza GPL: la SCO avrebbe infatti violato la GPL
nell’utilizzo del software Linux utilizzato per le successive rielaborazioni, che poi ha
commercializzato a condizioni differenti da quelle previste dalla GPL.22
SCO rispose con l’emissione di un subpoena23 a carico della Free Software Foundation,
asserendo che la GPL può essere "selectively enforced" soltanto dalla Fondazione, con
ciò dichiarando IBM impossibilitata a richiedere il rispetto della GPL. Quest’ultima,
inoltre, "violates the U.S. Constitution, together with copyright, antitrust and export
control laws" secondo la SCO.24 Il caso, dunque, assunse rilevanza soprattutto per
l’importanza che avrebbe rivestito in futuro riguardo la validità in se della GPL – e, di
fatto, di tutte le altre licenze copyleft.
Un primo giudizio giunse nell’agosto 2007: la corte accolse i rilievi della Novell,
dichiarandola unica detentrice dei diritti di sfruttamento su Unix e, dunque, dismettendo
de facto tutti gli altri processi ancora pendenti che vedevano coinvolta SCO. Questa fu,
inoltre, condannata a pagare circa 4 milioni di dollari di risarcimento a Novell.27 La
sentenza è stata però annullata nell’agosto del 2009 e il caso rinviato alla precedente
corte, che ora dovrà nuovamente esprimersi al riguardo.
In Europa, il problema della natura giuridica della GPL è stato affrontato per la prima
volta nel 2004:28 la Corte Distrettuale di Monaco di Baviera condannò la filiale tedesca
della azienda olandese di software Sitecom ad una multa di 100.000 Euro. La Sitecom
rese, infatti, possibile il download gratuito di un programma basato a sua volta su un
programma sviluppato dalla comunità del Progetto netfilter/iptables e licenziato in GPL
– senza però che l’azienda citasse quest’ultima circostanza, né rendesse disponibile il
codice sorgente, ai sensi della licenza.
La Corte stabilì il 2 aprile 2004, in sede di primo grado che la Sitecom "is under penalty
... to distribute and/or copy and/or make publicly accessible the software
’iptables/netfilter’, without pointing to the licensing under the GPL and attaching the
license text of the GPL and making the source code of the software ’iptables/netfilter’
available free of license fees, according to the conditions of the GNU General Public
License, version 2", confermando poi la sentenza in sede di secondo grado (luglio 2004)
ed aggiungendo che "the court shares the opinion that the conditions GPL [...] cannot be
considered a waiver of copyright and autorship rights. To the contrary, conditions of
copyright law serve the users to ensure and realize their goals regarding further
development and distribution of software".29
Va notato che, sebbene la clausola 4 della GPL30 sia stata considerata dalla corte
parzialmente invalida nella misura in cui l’esaurimento prescritto ha effetto solo in
personam, nessun dubbio invece viene espresso sulla clausola 2, ossia quella che
garantisce il permesso di usare, copiare e modificare il programma e di distribuire le
versioni modificate.
Come accennato prima, il successo del modello copyleft è finora dipeso (e continuerà a
dipendere) dal successo della sua filosofia di fondo, basata sull’apertura, sulla
flessibilità e sulla libertà di scelta – ma anche dalla sua capacità di continuare a produrre
opere di qualità appetibili per il mercato.
Un discorso simile si può fare per le singole licenze: è ragionevole supporre che le
impostazioni troppo "fondamentaliste" lasceranno facilmente il passo ad altre più
rispettose degli interessi di tutti gli attori coinvolti. Ad esempio, si è visto come, in
passato, si sia estremamente ridotto il ricorso a varie licenze create in ambito
universitario negli anni ’80, i cui estensori pure sono stati costretti (come si vedrà) ad
abbandonare determinate restrizioni.
In prospettiva, anche le licenze della Free Software Foundation corrono questo rischio:
sebbene sia eccessivo dire che esse si avviino entro breve all’estinzione, le polemiche
sorte riguardo il rilascio della versione 3.0 della GNU GPL – particolarmente aggressiva
nei confronti dei meccanismi di digital rights management,32 al punto da scatenare la
clamorosa decisione di Linus Torvalds di non rilasciare Linux con questa nuova versione,
ma di mantenere ancora la licenza 2.0 ("Conversion isn’t going to happen")33 –
sollevano ben più di un interrogativo sulla necessità di continuare a mantenere una
posizione di manicheo rifiuto nei confronti di tutto ciò che è "proprietario".
È, in effetti, estremamente condivisibile la posizione di Torvalds su quello che una
licenza libera dovrebbe essere: "I really want a license to do just two things: make the
code available to others, and make sure that improvements stay that way. That’s really it.
Nothing more, nothing less. Everything else is fluff".34 Fatta salva quella che è la volontà
dell’autore nei confronti della sua opera, le modalità decise sull’uso e la distribuzione
dovrebbero, infatti, dipendere da valutazioni pragmatiche e non ideologiche, per quanto
condivisibili.
È opportuno rimarcare, tuttavia, come questa "polemica" interna non sia altro che una
normale dinamica "di un processo sociale complesso, all’interno del quale vi sono
posizioni più radicali", come quelle di Stallman e della Free Software Foundation, "e
posizioni meno estremiste", come quelle della Open Source Initiative o della Creative
Commons Foundation.35
Note
La GNU General Public License (anche detta GNU GPL, o più semplicemente GPL),
come accennato nel precedente paragrafo, è stata la prima licenza libera mai prodotta e
ben rappresenta la filosofia del progetto GNU, all’interno del quale è stata generata. Per
questo, "è la licenza, tra quelle di software libero e open source, che più strettamente
attua tali principi".1
La versione 1.0 fu scritta con l’aiuto di alcuni consulenti legali, fra cui Eben Moglen
(docente alla Columbia University e legale fin dalla fondazione della FSF), e rilasciata
nel gennaio 1989 come licenza ufficiale del progetto GNU.2
Le libertà indicate, che non possono in nessun caso essere limitate in alcun modo, si
applicano a tutti coloro che ottengono una copia del programma (sezione 6). Tuttavia,
queste attività possono essere effettuate solo nei modi previsti dalla licenza. Qualora non
si rispettassero le condizioni esposte, questo "will automatically terminate your rights to
use the Program under this License". Questo, tuttavia, non riguarda eventuali terzi che
hanno ricevuto una copia del programma, "so long as such parties remain in full
compliance" (sezione 4).5
La pubblicazione del codice sorgente è un punto nodale della licenza (sia in questa
versione, che nelle successive): qualora non fosse distribuito assieme al programma,
deve essere indicato la modalità con cui ottenerlo oppure l’autore deve impegnarsi, per
un termine minimo di almeno tre anni, con una offerta scritta a fornirlo a chiunque ne
faccia richiesta ad un costo non superiore alle spese effettivamente sostenute per
realizzare ed inviare una copia fisica (sezione 3).
Riguardo la cessione a titolo oneroso di copie del programma, va notato che è autorizzata
anche per gli utenti che ricevono a loro volta una copia: l’eventuale prezzo richiesto "è
infatti relativo al solo trasferimento della copia del programma", e non è "un
corrispettivo per la possibilità concessa dal titolare dei diritti su di esso di riutilizzarlo,
modificarlo, copiarlo e distribuirlo".6
Appena due anni e mezzo dopo, nel giugno 1991, venne rilasciata la versione 2.0,7 che
ancora oggi rappresenta la versione più diffusa della GPL. Le novità rilevanti della
licenza sono tre.
Dopo ben 12 anni di attesa e circa due anni di discussioni pubbliche, la versione 3.0 è
stata infine pubblicata (non senza strascichi polemici) nel giugno 2007.11 Molte le
modifiche apportate, a partire da un generale ampliamento e riordino delle clausole. In
quest’analisi, ci si soffermerà comunque su quelle più rilevanti: la lotta ai sistemi di
restrizione delle modifiche, il rapporto con i programmi sottoposti a brevetto e la
compatibilità con altre licenze libere.
Il primo punto si occupa innanzitutto della c.d. "tivoization". Il termine, coniato da
Stallman, deriva da Tivo, un registratore video digitale basato su Linux prodotto dalla
omonima azienda. La controversia nasce dal fatto che è permesso all’utente di
modificare il codice sorgente, ma non di poter eseguire il programma modificato sul
prodotto stesso.
Nominalmente, quindi, non si tratterebbe di una violazione della licenza, poiché il diritto
viene teoricamente (ma non praticamente) concesso. Il problema è stato affrontato
attraverso l’inserimento dell’obbligo di fornire le c.d. informazioni di installazione12
allegate al resto del programma (sezione 6).13
Coerentemente con l’impianto della licenza, il detentore del brevetto si impegna a non
procedere contro chi viola tali diritti, qualora si intenda usufruire delle libertà concesse
dalla GPL – conscio del fatto che ricorrere a mezzi giudiziari farà terminare
automaticamente la licenza (sezione 11).
Il terzo ed ultimo punto riguarda la compatibilità della GPL con altre licenze: a questo
scopo, è stata regolamentata la possibilità di inserire delle "condizioni aggiuntive" che
eccepiscano alle condizioni della GPL. Ciò va inteso non tanto nel senso che questa
possa essere derogata, ma che possa esservi affiancata una licenza altra, che contenga
delle clausole aggiuntive fra quelle tassativamente indicate come "permesse" dalla GPL
(sezione 7).
La GNU Lesser General Public License (anche detta GNU LGPL, o più semplicemente
LGPL) è una licenza libera protettiva,14 inizialmente nota con il nome di GNU Library
General Public License. Infatti, questa licenza nacque con il preciso intento di essere
utilizzata per le librerie15 e di costituire un buon compromesso fra la GPL e le meno
restrittive BSD License e MIT License.
La scelta fu dettata anche da una precisa intenzione strategica, poiché se anche le librerie
"fossero state distribuite attraverso la GPL, infatti, anche i programmi che le avessero
utilizzate avrebbero dovuto divenire software coperto da GPL, in quanto opere
derivate".16
La prima versione della licenza è stata la 2.0, numerata così perché uscita
contemporaneamente alla versione 2.0 della GPL (gennaio 1991). Nel 1999, venne
rilasciata la versione 2.1,17 che comprendeva qualche correzione minore e soprattutto il
cambio di nome da Library a Lesser.
Entrambe le versioni (così come la versione 3.0,18 pubblicata nel giugno 2007, sempre in
contemporanea con la GPL 3.0) si rifacevano largamente alla GPL, tranne che su un
punto fondamentale: la possibilità di poter utilizzare le librerie anche in programmi
"proprietari" (sezione 14).
La scelta è stata compiuta per poter competere sul loro terreno e promuovere l’approccio
free software, rispetto allo schema "proprietario". Tuttavia, Stallman stesso afferma che
è (ancora oggi) preferibile limitare l’uso della LGPL e utilizzare quanto più possibile la
GPL, per puntare direttamente sull’effetto virale di quest’ultima, se non addirittura sul
rilascio fin dall’inizio di programmi con licenza libera.19
La GNU Free Documentation License (anche detta GNU FDL, o più semplicemente
GFDL) è una licenza protettiva ideata dalla FSF specificamente per documentazioni di
programmi, manuali, libri di testo e simili. Come la LGPL, è largamente basata nei suoi
principi sulla GPL – risultando, tuttavia, troppo farraginosa negli obblighi richiesti, al
contrario della licenza madre.
Sia la prima versione della licenza (1.1, rilasciata nel marzo 2000)20 che la seconda
versione (la 1.2, rilasciata nel novembre 2002)21 prevedono la possibilità di copiare e
redistribuire, a titolo oneroso o meno, testi rilasciati con questa licenza, a patto di
allegare quest’ultima senza modifiche o omissioni all’opera (sezione 2).
Qualora il testo venga modificato, devono essere indicati autore e data delle modifiche in
una apposita sezione "Storia", oltre ad essere riportati i termini originari di licenza e
quelli eventualmente nuovi di chi ha provveduto a modificare il testo (sezione 4).
Infine, nel caso in cui venga effettuata una combinazione di due o più documenti
(sezione 5), una raccolta di documenti (sezione 6) o una semplice aggregazione (sezione
7), è possibile allegare una sola copia della licenza GFDL, così come unificare lo storico
delle eventuali modifiche apportate ai testi. Anche le traduzioni vengono considerate una
modifica (sezione 8) ed equiparate ai casi di cui alla sezione 4.
La GFDL non ha mai avuto un grande successo, anche se rileva notare come, fino al
2007, i principali progetti rilasciati sotto questa licenza fossero quelli della Wikimedia
Foundation (WMF)22 – fra cui spicca per notorietà l’enciclopedia libera Wikipedia.
Tuttavia, come accennato prima, lo svantaggio della GFDL è nella sua estrema
farraginosità, che la rende adatta per le pubblicazioni via Internet e molto meno adatta
per le pubblicazioni cartacee – e completamente inadatta per qualsiasi altro mezzo di
espressione non testuale. Le inadeguatezze e la complessità della licenza furono
accentuate dal crescente successo delle licenze Creative Commons (che saranno
analizzate nel prossimo paragrafo).
La versione prevede l’aggiunta della sezione 11, in base alla quale qualsivoglia "sito per
la collaborazione massiva multiautore"25 licenziato in GFDL può rilicenziare i propri
contenuti con licenza CC-by-sa, se questi rispettano i seguenti due criteri:
a) non è presente alcuna limitazione così come prevista dalla licenza GFDL;
b) sono stati pubblicati per la prima volta con licenza GFDL su tale sito prima del 1°
novembre 2008.
Il rilicenziamento era comunque permesso solo entro una ristretta finestra temporale,
ossia entro e non oltre il 1° agosto 2009. La limitata possibilità temporale era dovuta al
fatto che tale modifica era stata prevista, nei fatti, solo ed esclusivamente per la WMF –
che decise infine di sfruttare, in seguito ad una consultazione con le comunità dei vari
progetti a cui fa capo.26
a) l’obbligo di allegare "the above copyright notice, this list of conditions and the
following disclaimer" alle redistribuzioni del codice sorgente (punto 1);
b) l’obbligo di allegare quanto sopra "and/or other materials provided with the
distribution" alle redistribuzioni del codice oggetto (punto 2);
d) il divieto di utilizzare il nome del titolare dei diritti per promuovere opere derivate
senza previo permesso da parte del titolare stesso (punto 4).
In sostanza, la BSD License garantiva condizioni molto più permissive rispetto alla GPL
riguardo la redistribuzione dei programmi, modificati o meno, anche con licenze diverse
da quella originaria, fatti salvi gli obblighi di riconoscere i diritti morali e di ottenere un
permesso scritto per l’utilizzo del nome del titolare del copyright.
Il problema venne sollevato da Stallman, quando notò che in una versione di NetBSD, un
sistema operativo derivato da BSD, l’avviso previsto dalla clausola veniva inserito per
ben 75 volte.30 Va inoltre notato come questa clausola sia in aperto contrasto con il
divieto di imporre ulteriori clausole restrittive sancito dalla GPL – problema non di poco
conto per i programmi rilasciati con doppia licenza GPL/BSD License.
Il 9 gennaio 2008, venne infine rilasciata una terza versione, chiamata comunemente
Simplified BSD License (o anche 2-clause BSD License o FreeBSD License, poiché
rilasciata soprattutto in relazione al sistema operativo FreeBSD),33 nella quale viene
rimossa anche la c.d. non-endorsement clause, ossia l’originale punto 4.
La MIT License è una licenza libera non protettiva,34 nata presso il Massachusetts
Institute of Technology nel 1988. La licenza permette esplicitamente "to use, copy,
modify, merge, publish, distribute, sublicense, and/or sell" una copia dell’opera così
rilasciata, con il solo obbligo di citare la licenza.
Gli stessi diritti sono concessi a chi riceve una copia del programma, anche se da questa
previsione non discende l’obbligo di rilasciare eventuali modifiche con licenza MIT o
altra licenza libera. Si tratta in definitiva di una licenza che amplia i già notevoli margini
di utilizzo e riutilizzo concessi dall’Università di Berkeley.
La Apache License è una licenza libera non protettiva, con la quale sono rilasciati tutti i
progetti della Apache Software Foundation. Fu rilasciata nella sua versione 1.035 nel
1995 e ricalcava in larga parte la BSD License, con l’aggiunta di due clausole:
a) il divieto di poter utilizzare il nome "Apache" per una eventuale opera derivata (punto
5);
In realtà, l’aggiunta di queste clausole "sono volte a spingere l’autore delle modifiche a
riflettere sull’interesse a renderle software libero",36 dal momento che è costretto a
citare gli autori originali e, dunque, impossibilitato ad "appropriarsene" completamente.
Nel 2000, coerentemente con quanto deciso dall’Università di Berkeley, anche la Apache
Software Foundation decise di modificare la propria licenza e di rilasciare la versione
1.1:37 anche qui, infatti, viene rimossa la vecchia clausola 3 (la advertising clause),
sostituita da una riformulazione leggermente diversa della vecchia clausola 6.
Nel 2004, viene rilasciata la versione 2.0 della licenza,38 che introduce alcune modifiche
sostanziali per renderla compatibile con la GPL e per definire in maniera più precisa i
termini di riutilizzo. Rimane ferma l’impostazione non protettiva delle vecchie versioni
(sezione 2), anzi viene concesso gratuitamente in licenza ogni brevetto sul programma
detenuto dall’autore originale o da eventuali autori successivi, facendo però terminare in
maniera automatica tale concessione qualora il licenziatario opponga un ricorso per
violazione di brevetto (sezione 3).
Rileva notare come da questa versione della licenza vengano eliminati tutti gli obblighi
di richiamare esplicitamente il progetto Apache e la provenienza del codice originale
dell’opera – obblighi che sarebbe stato difficile considerare compatibili con la GPL.
La Mozilla Public License (MPL) è una licenza libera non protettiva, largamente basata
sulla Netscape Public License (NPL). La versione 1.0 di entrambe fu rilasciata nel
1998,39 quando Netscape, una delle aziende più importanti nell’ambito della new
economy, decise di rilasciare sotto NPL il codice sorgente di vari programmi, fra cui
Navigator, "veterano" dei web browser.
La decisione venne presa perché Netscape si trovò in grossa difficoltà nella c.d. "guerra
dei browser", che la vedeva contrapposta a Microsoft e al suo Internet Explorer. Decisa a
recuperare quelle quote di mercato perdute, scelse di imboccare la via dell'open source,
senza però venire meno agli accordi di licenza precedentemente stipulati con altre
aziende.
Pur essendo la NPL molto simile alla GPL, a differenza di quest’ultima permette la c.d.
interoperabilità fra parti di codice sorgente libero e parti di codice sorgente
"proprietario", limitandosi soltanto a richiedere che siano soddisfatti gli obblighi
richiesti dalla NPL e non costringendo a rilasciare anche la porzione "proprietaria" sotto
questa licenza libera (punto 3.7).
In seguito al rilascio della versione 1.1, le differenze fra MPL40 e NPL41 si sono ridotte,
ma restano rilevanti: la prima, più permissiva rispetto alla GPL, riguarda solo quelle
parti di codice sorgente scritte ex novo rispetto a quelle rilasciate sotto NPL; la seconda
prevede alcune clausole "che riservano a Netscape la facoltà esclusiva di sfruttare le
modifiche apportate al codice sorgente originario, permettendogli di rilicenziarle e di
utilizzarle in altri prodotti Netscape proprietari" (Amendments, punti V.2 e V.3).42
Note
Oggetto del contendere era il Sonny Bono Copyright Term Extension Act (CTEA), ossia
un provvedimento adottato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1998 che aumentava di
venti anni i termini di tutela del copyright negli Stati Uniti.2 Secondo i ricorrenti, tale
provvedimento violava la c.d. copyright clause contenuta nella Costituzione degli Stati
Uniti d’America, che garantiva "To promote the Progress of Science and useful Arts, by
securing for limited Times to Authors and Inventors the exclusive Right to their
respective Writings and Discoveries". Il procedimento si concluse di fronte alla Corte
Suprema, la quale il 15 gennaio 2003 confermò la costituzionalità del provvedimento per
7 voti a 2.
Da questa sconfitta, Lessig trasse ispirazione per continuare la sua battaglia contro le
limitazioni alla creatività imposte dalle leggi sul copyright, seguendo in parte l’esempio
della Free Software Foundation e della Open Source Initiative.
Nota Rossato: "Si comprende sin da subito come l’origine intellettuale del lavoro di
Lessig sia da rintracciarsi in quelle correnti dell’analisi economica che [...] muovono
contro ciò che, sin dai primi anni Novanta, viene identificato come il centralismo
giuridico di cui la dottrina, anche quella più aperta ad esperienze realiste come l’analisi
economica del diritto, soffre."3
La fondazione si strutturò successivamente come un ente no profit con sede legale a San
Francisco, a cui sono stati trasferiti – al pari della Free Software Foundation – tutti i
diritti riguardo il marchio, le licenze e le opere rilasciate con licenza Creative
Commons.4
La diffusione delle licenze marciò a ritmi inequivocabilmente veloci: entro la fine del
2004, si stimava che circa 4,7 milioni di opere fossero state rilasciate con licenze
Creative Commons (o più semplicemente CC); nel 2008, le opere sono diventate più di
130 milioni.5
Rispetto alle vecchie licenze, si nota una evoluzione nell’approccio sotto due aspetti: la
formazione e la struttura delle licenze. Innanzitutto, a disposizione dell’utente finale non
viene messa più a disposizione una sola licenza, ma più licenze, derivanti dalla diversa
combinazione delle 4 "clausole base",7 tali da coprire tutte le possibilità comprese fra il
copyright e il pubblico dominio.
La struttura della licenza (il c.d. legal code) è simile in quasi tutte le licenze, il cui
"cuore" è nelle sezioni rispettivamente dedicate ai diritti accordati (sezione 3) e alle
restrizioni imposte dall’autore al loro esercizio (sezione 4). La vera novità risiede, però,
nella diversificazione delle forme con cui la licenza viene presentata al pubblico. Alla
licenza vera e propria si affiancano una versione sintetica ed una versione digitale.
La terza ed ultima versione è quella digitale (c.d. digital code), ovvero una versione
composta di soli metadati.9 Questi "dati nascosti" permettono di legare
indissolubilmente la licenza all’opera prodotta, rendendola riconoscibile come tale anche
dai motori di ricerca – in tal modo, semplificando notevolmente le operazioni di ricerca
di opere che corrispondano ad un determinato profilo di licenza.10
Generalmente, sono richiesti una serie di obblighi fissi (sezione 4), ossia:
a) di richiedere il permesso all’autore per poter eseguire una qualsiasi delle azioni non
espressamente autorizzate fin dall’inizio;
b) di inserire un link alla licenza, ovvero di indicare chiaramente come poter risalire al
testo della licenza in caso di opere non digitali;
In aggiunta a questi obblighi, si aggiungono quelli derivanti dalle quattro c.d. "clausole
base", ossia:
4) Share Alike ("Condividi allo stesso modo", SA): in caso di modifica dell’opera, la
versione derivata può essere distribuita solo con una licenza simile a quella dell’opera
originaria.
In base alla combinazione di queste quattro clausole, nascono le attuali sei versioni delle
licenze Creative Commons (qui disposte in ordine dalla più restrittiva alla più
permissiva):11
La seconda è che quelle licenze che adottano le clausole "Non commerciale" e "Non
opere derivate" non possano essere pienamente qualificate come licenze libere, dal
momento che non rispettano i dettami né della Free Software Definition, né della Open
Source Definition.
Ragionando per assurdo, si potrebbe ipotizzare un autore che intenda rilasciare la propria
opera con licenza libera, ma che allo stesso tempo intenda impedire a chiunque di poter
lucrare sulla propria opera, mosso dal principio per cui essa debba rimanere non solo
libera, ma anche gratis. Questa volontà entrerebbe in conflitto con la possibilità, insita
nelle licenze libere, di concedere il riutilizzo anche per fini commerciali, costringendo
l’autore ad adeguarsi obtorto collo, a creare una propria licenza d’uso oppure a
rinunciare a rilasciare il proprio lavoro con licenza libera.
Resta infine il meccanismo (già visto nella GPL e nelle altre licenze libere della FSF) di
terminazione automatica della licenza, in caso di violazione dei termini previsti (sezione
7).19
2.5.4. Il porting
La necessità che il porting sia affidato a persone competenti nasce anche dal fatto che il
processo non si limita alla semplice traduzione delle licenze nelle varie lingue mondiali,
ma si allarga anche all’adattamento delle singole clausole ai vari ordinamenti nazionali.
Si può dire dunque che "le licenze CC francesi, italiane, giapponesi etc. sono dei
documenti sostanzialmente indipendenti, ispirati e adattati al diritto d’autore dei vari
Stati".22
In questo modo, la Creative Commons Foundation ha ritenuto di ovviare al problema sia
dell’interpretazione della licenza (dunque, della lingua ufficiale in cui essa è scritta), sia
della giurisdizione applicabile (dunque, della che regolamenta tale licenza) – fermo
restando la possibilità di utilizzare una licenza unported, ossia priva di previsioni
specifiche per un singolo Stato genericamente valida in tutto il mondo.
Il processo di localizzazione è iniziato nel 2004 in 12 Paesi, fra cui l’Italia. Attualmente,
sono disponibili ben 52 versioni locali23 ed altre 9 dovrebbero essere completate entro la
fine del 2010.24 Infine, è stata annunciata la creazione di nuovi capitoli locali in altri 11
Stati.25
Nel dicembre 2002, venne resa pubblica la versione 1.0 delle licenze Creative
Commons.26 Furono messe a disposizione ben 11 licenze, con una struttura ad una, due o
tre clausole.
Nel maggio 2004, venne rilasciata la versione 2.0: le licenze vennero ridotte da 11 a 6, in
seguito alla decisione di imporre la clausola "Attribution" come base in tutte le
licenze,27 anche per uniformarsi alle norme internazionali (ad esempio, l’art. 6-bis della
Convenzione di Berna) in materia di diritti morali.
Inoltre, vennero apportate delle modifiche minori, in seguito ai feedback ottenuti dagli
utenti. In particolare, vennero inserite alcune precisazioni sulle opere musicali e sulla
rinuncia a rivendicare i relativi diritti, sia in forma individuale che attraverso istituzioni
collettive, di ritrasmissione su supporti analogici o digitali.
Nel 2005, fu lanciata la versione 2.5, che riformulava lievemente alcune clausole, senza
modificarle sostanzialmente. Nel febbraio 2007, fu infine rilasciata la versione 3.0,28 che
costituisce al momento l’ultima versione disponibile delle famiglia di licenze CC.
Con questa nuova versione, viene definitivamente abbandonato l’impianto delle versioni
precedenti,29 dove si faceva ampio riferimento a norme ed istituzioni statunitensi,
coerentemente con il processo di porting in atto dal 2004. Viene inoltre inserito un
rimando esplicito alla Convenzione di Berna, alla Convenzione di Roma, al WIPO
Copyright Treaty, al WIPO Performances and Phonograms Treaty e alla Universal
Copyright Convention (sezione 8, punto f).
È stato infine annunciato un progetto, per il momento ancora solo in fase di studio, per
superare i problemi di compatibilità fra licenze libere, in particolar modo fra la GFDL e
la Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo.
In aggiunta alle sei licenze base sopra indicate, la CC Foundation ha prodotto altre
tipologie di licenze (alcune delle quali ritirate)34 che si rivolgono a particolari settori di
utilizzo: la licenza CC Developing Nations, le licenze CC Sampling, il protocollo CCPlus
e la licenza CC Zero.
La licenza CC Developing Nations era una licenza derivata dalla CC Attribuzione, basata
su "un intento di promozione culturale e di filantropia verso quelle parti del mondo in
cui, per ragioni economiche e tecnologiche, non sarebbe comunque possibile uno
sfruttamento commerciale dell’opera".35
In sostanza, un’opera rilasciata con questa licenza garantiva i diritti di copia, modifica e
distribuzione limitatamente ai Paesi in via di sviluppo, mantenendo invece la richiesta di
previa autorizzazione per i Paesi più sviluppati. La licenza fu, però, ritirata nel giugno
2007 sia perché poco utilizzata, sia perché la clausola precludeva (paradossalmente)
l’accesso di queste opere ai mercati occidentali.
Il protocollo CC Plus (CC+), creato nel 2007, è "un protocollo che permette ad un
licenziante, in maniera semplice e immediata, di indicare quali ulteriori permessi sono
eventualmente associati ad un’opera licenziata sotto Creative Commons e in che modo
usufruire di tali permessi".37
Infine la licenza CC Zero (CC0), creata nel 2008, è una evoluzione della Creative
Commons Public Domain Certification,38 in base alla quale l’autore decide di rilasciare
la propria opera in pubblico dominio prima che trascorrano i 70 anni post mortem
auctoris.
"Si tratta in verità di una prassi abbastanza lontana dalla cultura giuridica dell’Europa
continentale [...] e più vicina a quella degli ordinamenti anglo-americani di
copyright",39 che sconta anche il difetto (al momento) di essere perlopiù incentrata
sull’ordinamento statunitense, adombrando qualche dubbio sulla efficacia della licenza –
peraltro, ancora ad uno stato iniziale – anche in altri ambiti nazionali.
Note
L’atto di sostituire dei termini di licenza permissivi con altri più restrittivi è pienamente
nelle possibilità dell’autore: l’intera impostazione copyleft discende, come abbiamo
visto, dalla disciplina contrattuale, facendo leva proprio sul principio di autonomia
contrattuale dell’autore rispetto ai licenziatari. Le parti, così come sono libere in
qualsiasi momento di stipulare un contratto, sono anche libere di porre termine ai
rapporti giuridici da esso derivanti in qualsiasi momento.
Rileva anche notare come sia impossibile, in virtù degli obblighi contratti con la
precedente licenza accordata, richiedere anche la cessazione di ogni attività
precedentemente garantita. È per questi motivi che, fra gli esperti in materia, è opinione
comune considerare le licenze libere come sostanzialmente irrevocabili.
Dal momento però che le licenze libere rientrano nella categoria delle c.d. browse-wrap
licences,3 "è logicamente impossibile che il licenziatario possa esprimere pienamente la
sua scelta; potrà al massimo accettare la scelta indicata dal licenziante nel testo della
licenza".4 Dunque, si dovrebbe ritenere applicabile quanto disposto ex art. 4, par. 1, ossia
che "il contratto è regolato dalla legge del paese col quale presenta il collegamento più
stretto".
Ex art. 7, par. 2, comunque, il giudice non può esimersi dall’applicare le norme in vigore
nel proprio Paese "le quali disciplinano imperativamente il caso concreto
indipendentemente dalla legge che regola il contratto". Questo aspetto è particolarmente
importante, poiché potrebbe determinare esiti diversi a seconda del Paese in cui si sta
svolgendo il procedimento.
Si è già notato durante l’analisi del "caso Sitecom" come, nell’ordinamento tedesco, essa
sia stata considerata parzialmente invalida, laddove sia considerata motivo di revoca in
personam dei diritti accordati. Non così potrebbe essere, invece, nell’ordinamento
italiano: Sanseverino, ad esempio, nota che la violazione della c.d. clausola virale,
essendo essa "un particolare esercizio negoziale delle facoltà esclusive garantite dal
diritto d’autore", comporta la responsabilità di chi non vi ottempera "in termini di
inadempimento e non di avveramento di una condizione risolutiva".6
Spolidoro a sua volta nota, analizzando nello specifico la sezione 4 della GPL, come essa
ponga "una serie di problemi giuridici di non agevole soluzione", come può essere, ad
esempio, la mancata distinzione riguardo la gravità della violazione, "dato che la licenza
GPL sembra ammettere la risoluzione anche in caso di violazione non grave".7
Alla luce di ciò, appare ancora più intelligente la decisione adottata dalla CC di
"localizzare" le proprie licenze e di svincolare la versione "Unported" dall’ordinamento
statunitense – dipendenza dalla quale la GPL e le altre licenze della FSF sembrano
ancora oggi soffrire.
In ultimo, rileva notare qualche difficoltà nella gestione dei diritti morali, che pure
risultano essere particolarmente importanti all’interno del fenomeno copyleft. In
particolare, Sanseverino pone il problema di individuare in che misura è possibile ancora
parlare di lesioni dei diritti morali ed in che modo è possibile garantire tutela contro una
loro violazione.
Dal momento che è concessa da quasi tutte le licenze libere la facoltà di modificare
liberamente la propria opera, de facto il diritto morale all’integrità dell’opera viene
volontariamente non perseguito in parte dai singoli autori. "In parte", si diceva, poiché
va da se che "il diritto dell’autore ad opporsi ad ogni atto in danno dell’opera, lesivo
altresì della sua reputazione, sembra invece avere un’applicazione più concreta".8
Note
Queste nuove regole hanno avuto il pregio di scardinare alcuni luoghi comuni
sull’attuale sistema di tutela, di rendere note e criticabili le distorsioni più evidenti e di
fornire una alternativa praticabile e costruttiva, tale da far intravedere una via
percorribile che possa in futuro riequilibrare la ricerca del profitto e i profitti della
ricerca.
Si può riconoscere, dunque, che il profitto economico "non è il solo stimolo della ricerca
scientifica e tecnologica, e non è il solo strumento capace di indirizzarla verso obiettivi
socialmente utili"2 – con ciò falsificando una delle estremizzazioni recenti operate da chi
difende l’attuale sistema di tutela dei diritti – e che la ricerca è soprattutto condivisione
delle idee, che la produzione di nuove opere (sia letterarie che tecniche) può essere anche
frutto di una rielaborazione di ciò che altri hanno prodotto in passato.
Sarà proprio la qualità uno dei banchi di prova del futuro: se il tempo ha dimostrato che
in ambito informatico la sfida è stata vinta, non è detto che una vittoria del genere possa
essere replicata in ambito culturale, dove non è il bene e la sua funzionalità a fare la
differenza, quanto i gusti del consumatore. "Sarà dunque importante verificare se, negli
anni a venire, i commons creativi continueranno ad essere alimentati da prodotti di
buona qualità, ovvero se si ridurranno a veicolo di distribuzione di contenuti di seconda
scelta".3
Allo stesso modo, sarà di enorme interesse anche valutare le reazioni dei "grandi autori"
rispetto a questo nuovo fenomeno. Al momento si registrano già importanti adesioni: un
esempio abbastanza importante è dato dal canale satellitare di informazione arabo al-
Jazeera, che agli inizi del 2009 ha creato un Creative Commons Repository, ossia una
collezione di registrazioni video effettuate dall’emittente rilasciate con licenza CC
Attribuzione. A questo si è poi aggiunta la piattaforma blog per i propri giornalisti,
interamente rilasciata con licenza CC Attribuzione-Non commerciale-Non opere
derivate.
Per quanto riguarda gli autori "non professionisti", "è evidente che lo straordinario
successo riscontrato dal modello creative commons è in buona parte dipeso anche dal
fatto che il sistema di beni comuni creativi proposto ha rappresentato, in ultima analisi,
l’attesa risposta ad un’esigenza già da tempo spontaneamente avvertita",4 soprattutto
per quelle piattaforme che ospitano prevalentemente o solamente contenuti prodotti dai
propri utenti (i c.d. user generated content) come Flickr e Wikipedia.
Tutto questo non ci autorizza comunque a trarre conclusioni definitive: le dinamiche dei
mercati interessati sono complesse e differiscono da ambito ad ambito. Le stesse
ricerche economiche condotte finora hanno avuto modo di individuare solo delle linee di
tendenza generali. Tuttavia, è stato raggiunto un risultato, che Sanfilippo giustamente
riteneva fondamentale: "sin quando i mondi open source non si aggregheranno intorno a
centri di interessi, specie imprenditoriali, [...] la tutela dell’ordinamento riguardo al
fenomeno in discorso non può che continuare a mostrare i tratti di una tutela debole".5
Vale la pena ricordare ancora una volta come questo risultato dipenda dalla correttezza
di fondo dell’approccio, sia nei suoi principi che nella sua applicazione, e da come
questo si sia combinato con la produzione di opere di qualità a basso costo. Così come
vale la pena sottolineare ancora l’eccezionale evoluzione rappresentata dalle licenze
Creative Commons e, in particolar modo, dalle due clausole più limitative (la Non
commerciale e la Non opere derivate). Proprio queste limitazioni, pur entrando in
conflitto con l’approccio classico delle licenze libere, permetteranno una transizione più
morbida di certi autori verso il nuovo modello, senza pregiudicare i loro diritti.
Questo presupporrebbe comunque la rettifica della posizione fin qui tenuta da molti
Paesi occidentali, così come la decisione di rivedere in senso più permissivo gli accordi
che regolamentano brevetti e licenze, senza che questo pregiudichi i legittimi diritti di
chi crea opere. Serve, insomma, una soluzione politica ad un fenomeno che non deve
essere criminalizzato, né soppresso, ma solo regolamentato.
Note
1. ↑ G. Giannelli, "Open source e diritti morali", in M. Bertani (a cura di), op. cit., pag.
200.
2. ↑ G. Sartor, "Proprietà e comunione del sapere informatico", in M. Bertani (a cura
di), op. cit., pag. 147.
3. ↑ M.G. Jori, "Creative Commons: passato, presente e futuro dei beni comuni", in G.
Ziccardi (a cura di), op. cit., pagg. 77-78.
4. ↑ M.G. Jori, op. cit., pag. 81.
5. ↑ P.M. Sanfilippo, "Organizzazione dei mondi open source: i controlli sulle opere",
in L.C. Ubertazzi (a cura di), op. cit., pag. 66.
1. Libri
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Simone Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo, Viterbo, 2008
Simone Aliprandi, Teoria e pratica del Copyleft, Rimini, 2006
Michele Bertani, Guida alle licenze di software libero e open source, Milano, 2004
Lawrence Lessig, Cultura libera, Milano, 2005
Giovanni Pascuzzi, Roberto Caso, I diritti sulle opere digitali: copyright
statunitense e diritto d’autore italiano, Padova, 2002
Paolo Picone, Aldo Ligustro, Diritto dell’Organizzazione mondiale del commercio,
Padova, 2002
Giuseppe Sanseverino, Le licenze free ed open source, Napoli, 2007
J.A.L. Sterling, World copyright law, Londra, 2003 (2ª ed.)
Dan Tapscott, Anthony D. Williams, Wikinomics, Milano, 2007
Gabriella Venturini, L’Organizzazione Mondiale del Commercio, Milano, 2004 (2ª
ed.)
Giovanni Ziccardi, Il diritto d’autore nell’era digitale, Milano, 2001
Giovanni Ziccardi (a cura di), Nuove tecnologie e diritti di libertà nelle teorie
nordamericane, Modena, 2007
AA.VV., Copyright digitale, Torino, 2009
2. Raccolte e riviste
3. Pubblicazioni e relazioni
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Global Net, 1992. Disponibile al sito:
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aggiornamento: 18 marzo 2003). Disponibile al sito:
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What is Copyleft?, Free Software Foundation (ultimo aggiornamento: 8 gennaio
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"Wikimedia community approves license migration", Wikimedia Foundation, 21
maggio 2009. Disponibile al sito: http://blog.wikimedia.org/2009/05/21/wikimedia-
community-approves-license-migration/
Essendo questo l’ultimo atto della mia carriera universitaria, ritengo sia giusto esprimere
tutta la mia gratitudine alle persone che mi hanno accompagnato in questi anni.
Grazie alla prof.ssa Deli e al prof. Di Gaspare, per la supervisione, l’aiuto, l’interesse
che hanno dimostrato in questi mesi nei confronti del mio lavoro – ed ancor di più per la
pazienza che hanno avuto.
Grazie ai miei genitori e alla mia famiglia, che ora esplicitamente, ora silenziosamente,
hanno creduto in me e mi hanno sostenuto, che mi hanno sempre fatto arrivare il loro
affetto, che mi hanno fatto capire quanto sono fortunato ad averli avuti vicino in questi
anni.
Grazie a Gabriella, entrata a pieno titolo nella mia nozione di "famiglia". Non esistono
parole per descrivere l’affetto che provo per lei, che si è rivelata la persona più affidabile
e straordinaria che abbia mai conosciuto. E grazie anche alla sua impagabile famiglia, a
cui sento di voler bene quasi fosse la mia.
Grazie a Giuliano. Mentirei se negassi che mi manchi da morire. Grazie a te, il mio
destino e quello di tantissimi altri si sono incrociati e continuano ad incrociarsi in
diecimila declinazioni diverse. Grazie a te, tante cose sono successe e continuano a
succedere. Dio doveva avere davvero bisogno di una mano a gestire la sua agendina, se ti
ha chiamato.
Grazie a Mauro, Lucia, Cristina, Luigi, Ciprian, Alessandra, Lorenzo, Marco, Flavio,
Teresa M., Francesca C.P., Federica, Daniele, Fabrizio, Francesco, Enzo, Gabriele, Elisa,
Tommaso, Elia, Barbara, Danilo, Teresa D.V., Filippo, Matteo Francesco, Edoardo,
Daniel, Simone, Eleonora, Francesca G., Flavia, Ilaria, Moran, Georgia, Cristina P. e tutti
– sì, proprio tutti – quelli dell’allegra banda di Roma Tre: quelli che hanno frequentato
con me i corsi, quelli che hanno collaborato assieme a me alla biblioteca di facoltà,
quelli che hanno condiviso con me l’impegno e le esperienze di IAPSS Roma Tre, quelli
che ho conosciuto e basta.
Grazie ad Alessandro, Antonio, Claudia, Giulio, Riccardo, Alba ed Ana, Sandro, Olivia e
Luca, che con Roma Tre non c’entrano direttamente, ma che io considero parte della
Casa Piramidale numero 3.
Grazie alla "Compagnia della Cena" (conosciuta in alcune culture subequatoriali anche
come "Associazione Culturale 416"), cioè Enrico, Claudia, Giulia, Carlo, Marianna ed
Alessandro. Grazie ad "Enzo" e al suo cinque per mille.
Grazie a Elisa, Salvatore, Pascal, Adriano, Alessandro, Pietro, Martina e tutti quelli che
hanno collaborato, collaborano e collaboreranno a LiberalCafè. E grazie anche a Mirella,
Lorenzo, Renato, Gabriele e tutto il gruppetto di BetaLib.
Grazie a Filippo, Barbara, Michael "Soppy Raccoon", Astrid, Marco, Stefano, Elena,
Simonetta, Alberto, Deborah, Isabella, Tommaso, Luigi, Aldo, Anna, Sonia e tutto il
mondo fantastico che gravita(va) intorno al Cannocchiale.
Grazie ad Alessio (un mito per me, un esempio per tutti), Orlando, Roberto, Chiara,
Alessia e tutti quelli di ASP Roma Luiss, ai ragazzi di ELSA, AEGEE e delle altre
associazioni studentesche con cui ho avuto modo di collaborare in passato.
Grazie a Snowdog, M/, Gac, G., Frieda, JollyRoger, Brownout, Civvi, MM,
DracoRoboter, BrokenArrow, Jalo, Senpai, Pap3rinik, Cruccone, Biopresto, Elitre,
Sigfrido, Sbisolo, TierrayLibertad, Paginazero, Lusum, Retaggio, Triquetra, Jaakko, Gvf,
Xaura, Tooby, Torsolo, Luisa, Leoman3000, Cloj, Skyluke, KS,
Sogeking/Barbarian/Barbaking, Superchilum, Gvnn, Jaqen, VirtualSkiz, Sirabder, Helios,
OrbiliusMagister, Piero Montesacro, AubreyMcFato, LaPizia, Kiado, Remulazz, Melos,
Abisys, Vituzzu, valepert, Trixt, .anaconda, Alfreddo, Aeternus, Rael, PietroDN, Wim_b,
Giac, BlakWolf, Austroungarika, Gian_d, Klaudio, Ilario, Roberto Mura, Demart,
Gregorovius, Vale maio, BlackCat, GuidoMac, Vipera, Ask21, WindowsUninstall...
insomma, agli utonti, agli admincosi e agli IP anonimi di Wikipedia: senza di voi questa
tesi non sarebbe esistita, né io avrei imparato l’importanza del metodo, della ricerca,
della neutralità nell’esposizione, dell’ignorare le regole e dell’essere grassetti, seguendo
il buon senso.
Grazie a Cristiana Carletti, Raffaele Cadin, Cristiano Zagari, Simona Stabile e Stefano
Milia per avermi dimostrato il valore della competenza e dell’esempio.
Grazie ad Anna Erika, Yoana, Alejandro, Pepi, Gina, Lora, Katarina, Alexander, Davide,
Amra, Anamarija, Tom, Vedran, Veronika, Mirsada, Constantina, Nikola, Bogdan,
Zdravko e tutta l’allegra brigata di Belgrado.
Grazie a Pietro, Arianna, Nicola, Massimiliano, Dario, Lucilla, Biagio e tutti gli
"austriaci" per gli interessanti martedì che passiamo insieme.
Grazie a Marco P., Emma B., Adelaide A., Gianfranco S., Luca C., Piergiorgio W.,
Giovanni N., Massimo B., Enzo T., Domenico M., Donatella P., Rita B., Marco C., Maria
Antonietta F.C., Elisabetta Z., Sergio D’E., Giulia I., la redazione di Radio R.,
Alessandro M., Eleonora P. e tutti i compagni della Galassia Radicale, con cui condivido
l’intenzione di essere il cambiamento che vogliamo.
Il nostro scopo è offrire al lettore gratuitamente testi liberi da diritti d'autore. Potete fare
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2. ↑ http://www.creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/deed.it