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La tutela internazionale della proprietà

intellettuale: il fenomeno del copyleft


Luca Martinelli

2009

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Libera Università Internazionale degli Studi Sociali
Facoltà di Scienze politiche
Corso di Comunicazione politica, economica ed istituzionale

La tutela internazionale della proprietà intellettuale: il fenome


del copyleft
Autore: Luca Martinelli
Relatore: Maria Beatrice Deli
Correlatore: Giuseppe Di Gaspare
Anno accademico 2008 – 2009

A Giuliano e Ilaria.

"I doubt whether there exists a single great work of literature


which we would not possess had the author been unable to obtain
an exclusive copyright for it; it seems to me that the case
for copyright must rest almost entirely on the circumstance
that such exceedingly useful work as encyclopaedias, dictionaries,
textbooks and other works of reference could not be produced
if, once they existed, they could freely be reproduced."

Friedrich von Hayek, The Fatal Conceit

Indice
Introduzione
1. Il diritto d'autore in ambito WTO
1.1. L'Accordo TRIPs
1.2. La Convenzione di Berna
1.3. Le questioni ancora aperte
2. Il copyleft
2.1. Premessa terminologica
2.2. Le ragioni del copyleft
2.3. Nascita ed evoluzione del copyleft
2.4. Panorama delle principali licenze libere
2.5. Le licenze Creative Commons
2.6. Profili per una evoluzione futura delle licenze libere
Conclusioni
Bibliografia e sitografia
Ringraziamenti
A partire dalla metà degli anni ’90, la rivoluzione digitale ha pian piano sconvolto le
nostre esistenze: la potenza di calcolo dei computer, in costante aumento, appariva ormai
incomparabile con quella di soli dieci anni prima; videocassette, musicassette e perfino i
più recenti floppy disk venivano scalzati dai nuovi supporti (CD-ROM, DVD-ROM e
ancor più recentemente Blu-ray disk) lanciati sul mercato in rapida successione; Internet
intraprendeva la sua irresistibile ascesa come mezzo di comunicazione di massa.

È così che il rapido sviluppo delle moderne tecnologie digitali ed il fenomeno della
crescente interconnessione di massa hanno rivoluzionato la nostra vita privata,
consentendo a chiunque lo desiderasse di accedere, produrre e condividere contenuti
tramite l’utilizzo di apparecchiature e connessioni sempre più sofisticate, conducendoci
a ciò che oggi viene comunemente chiamato "Web 2.0".

Com’è naturale, non vi è stata uniformità di giudizi sul fenomeno del crescente successo
di programmi ed iniziative basate sulla condivisione e sulla partecipazione attiva di
utenti collegati alla stessa rete. Molti sono stati e sono gli interrogativi sulla affidabilità,
sulla stabilità, perfino sulla utilità di alcune iniziative. Interrogativi talvolta fugati da
espressioni di sufficienza o insofferenza, talvolta forieri di utili riflessioni sulla loro
reale qualità, così come sulle loro implicazioni giuridiche, economiche e sociali.

Ma il processo può ormai considerarsi irreversibile e ci pone di fronte all’affermazione


di un modello innovativo di accesso, produzione e fruizione di contenuti, molto lontano
da quello classico di cui disponevamo solo fino a qualche anno fa, cosi come è
inconfutabile che le nuove forme di interconnessione stanno portando alla soluzione di
problemi che si ritenevano insuperabili o difficilmente risolvibili.

Gli stessi attori "istituzionali" (emittenti radiotelevisive, editori di giornali e riviste, case
editrici, aziende cinematografiche, aziende di programmi informatici e così via) hanno
dovuto riconoscere, ad esempio, la loro "permeabilità" nei confronti di contenuti
multimediali prodotti da persone "non professioniste" che oggi hanno la possibilità di
immettere e pubblicizzare il proprio materiale in un libero circuito che ne permette la
divulgazione (c.d. user generated content).

Un effetto dirompente si è avuto nel campo del diritto d’autore: la "democratizzazione"


nella produzione di opere ha dato avvio alla ricerca di innovativi modelli di gestione dei
diritti d’autore. Nasce così il modello copyleft, affermatosi fra la fine degli anni ’90 e
l’inizio degli anni 2000, che sostanzialmente prevede maggiore libertà nella fruizione di
opere dell’ingegno. Questo modello, che sarà al centro dell’analisi, costituisce
un’evoluzione delle classiche licenze d’uso ed è stato favorito proprio dalla rivoluzione
digitale.

La possibilità per l’autore di rivolgersi direttamente al mercato, scavalcando editori e


altri intermediari, e la possibilità per l’autore stesso di decidere se e come differenziare
le condizioni di utilizzo e riutilizzo della propria opera, ha determinato in modo naturale
la necessità di ridurre e semplificare i passaggi compresi fra la creazione e la
distribuzione dell’opera. Gli economisti sintetizzano questa evoluzione parlando di
passaggio dal "percorso lungo" al "percorso breve". Questo sarà in particolare oggetto di
analisi nel secondo capitolo.

Mentre in ambito giuridico il dibattito si incentrava sul rafforzamento del modello


tradizionale del copyright e sulla sua rigida tutela avverso le nuove forme di "pirateria"
(il download illegale di musica, film ed anche libri), a partire dal 2000 si sono sviluppati
nuovi progetti che hanno scelto di imboccare una via intermedia fra i due estremi del
"tutti i diritti riservati" e del "nessun diritto riservato".

In questo lavoro, si è deciso di privilegiare le implicazioni che il copyleft ha sulla


produzione di opere letterarie ed artistiche, poiché la letteratura si è finora concentrata
maggiormente sugli effetti determinatisi in campo tecnologico e scientifico, con
particolare riferimento a brevetti e controversie sui farmaci.

L’analisi verterà, dunque, dapprima sulle disposizioni dell’Accordo TRIPs e della


Convenzione di Berna, per poi passare ad una panoramica generale sul fenomeno del
copyleft: come nasce e si sviluppa, quali sono i principi che lo animano, quali sono le
forme in cui si sta concretizzando. Ci si soffermerà in particolar modo sulle licenze
Creative Commons, che si stanno affermando per facilità e versatilità.

Scopo finale è quello di analizzare quali siano i profili di compatibilità e quali quelli di
incompatibilità con l’attuale schema di tutela del diritto d’autore, quali siano le tendenze
che si stanno producendo e se e come sarà possibile armonizzare l’approccio copyleft
con le attuali norme del WTO, soprattutto considerando gli effetti, che sempre meno
possono essere sottaciuti, della commercializzazione di opere rilasciate con c.d. "licenze
libere".
Indice
1.1. L'Accordo TRIPs
1.2. La Convenzione di Berna
1.3. Le questioni ancora aperte
L'Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (c.d. Accordo
TRIPs) fu firmato a Marrakesh il 15 aprile 1994 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1995, in
contemporanea con l’Accordo istitutivo della Organizzazione mondiale del Commercio,
ai cui Membri si applica anche l’accordo citato.1

I motivi che hanno portato all’approvazione di questo accordo vanno ricercati


nell’avvento di nuove tecnologie, in special modo informatiche, e nelle distorsioni nel
commercio internazionale provocate dalla crescita del fenomeno della c.d. "pirateria".

Questi due fenomeni – e più ancora le loro ricadute economiche – hanno portato i
detentori dei diritti di proprietà intellettuale, lungo gli anni ’70 ed ’80, a far pressione sui
Governi occidentali, perché intervenissero più drasticamente nel riaffermare la
legittimità di tali diritti e limitare quanto più possibile gli effetti negativi di una loro
violazione.

Sebbene a livello internazionale esistessero già numerosi trattati che disciplinavano la


materia, mancavano in essi quelle norme che obbligassero gli Stati membri di tali
Convenzioni ad applicare fattivamente i diritti minimi che essi stessi avevano
teoricamente accordato alle controparti. Gli stessi trattati risultavano poi inadeguati a
tutelare le nuove tipologie di diritti scaturenti dai nuovi ritrovati tecnologici.

L’inesistenza di misure coattive internazionali era infine aggravata, da un lato,


dall’inadeguatezza delle normative interne ai singoli Paesi e, dall’altro, da palesi
comportamenti di concorrenza sleale. È il caso di Brasile, India ed altri Paesi in via di
sviluppo (PVS), che in passato hanno scelto consapevolmente politiche di violazione dei
diritti pendenti su determinati beni prodotti negli Stati Uniti o in Europa. In questi casi,
"può dirsi che la pirateria, le contraffazioni, la violazione sistematica di marchi e
brevetti rilasciati dalle autorità di altri Stati costituiscono delle vere e proprie strategie
commerciali tuttora ampiamente utilizzate in determinate aree geografiche e trasformate
da numerosi paesi in veri e propri strumenti di politica commerciale".2 I Paesi in via di
sviluppo, infatti, "non volevano precludersi la possibilità di riprodurre a bassi costi i
beni coperti da esclusiva in altri Stati" – principalmente prodotti farmaceutici e
informatici.3

Questa situazione portò inizialmente all’applicazione di misure di ritorsione da parte dei


Paesi sviluppati nei confronti di quei Paesi che non garantivano in maniera sufficiente il
diritto di proprietà intellettuale. Soprattutto gli Stati Uniti si dimostrarono molto attivi,
tanto nell’applicazione di tali misure, quanto in consultazioni bilaterali con i principali
produttori di merci contraffatte (Taiwan e Singapore in primis).

Successivamente, alcuni Paesi industrializzati richiesero delle trattative multilaterali in


materia nell’ambito del Tokyo Round. Queste però fallirono in seguito alla forte
opposizione dei Paesi in via di sviluppo, i quali ritenevano che tali trattative avrebbero
dovuto essere condotte nell’ambito dell’Organizzazione internazionale della proprietà
intellettuale (WIPO).4

Le contromisure adottate dai Paesi occidentali e la prospettiva per i PVS di ottenere delle
concessioni in altri ambiti commerciali, come quello tessile ed agroalimentare,
portarono all’avvio di una nuova trattativa (stavolta conclusasi positivamente)
nell’ambito dell'Uruguay Round. In merito, notano Picone e Ligustro che probabilmente
"molti PVS non avrebbero firmato l’Accordo TRIPs se i Paesi occidentali non avessero
ideato il principio del «single package», che impegna gli Stati che intendono aderire [al
WTO] a partecipare a tutti gli accordi multilaterali conclusi nell’ambito dell’Uruguay
Round".5

La Parte I dell’Accordo TRIPs delinea natura ed ambito degli obblighi che le Parti
contraenti hanno convenuto di rispettare, fra cui rilevano i principi di trattamento
nazionale (art. 3) e della nazione più favorita (art. 4) – due cardini dell’intera architettura
del WTO. La Parte II opera una sintesi dei maggiori temi del diritto industriale ed
intellettuale, individuando una disciplina minima riguardo i diritti d’autore e i diritti
connessi delle opere letterarie ed artistiche (artt. 9-14), dei marchi d’impresa (artt. 15-
21), delle indicazioni geografiche (artt. 22-24), dei disegni industriali (artt. 25-26), dei
brevetti (artt. 27-34) e delle topografie di prodotti a semiconduttori (artt. 35-38).

L’Accordo stabilisce poi il principio del controllo delle pratiche anti-concorrenziali nel
campo delle licenze (art. 40), ripreso ed ampliato nella Parte III, dove vengono stabiliti
con precisione gli obblighi, le procedure e le misure da applicare in caso di violazione
dei diritti menzionati.6

L’art. 63 introduce, inoltre, il principio della trasparenza degli atti normativi e


giurisdizionali interni ad uno Stato contraente e rimanda, in caso di controversie
sull’applicazione dell’Accordo TRIPs, agli artt. XXII e XXIII del General Agreement on
Tariffs and Trade (c.d. Accordo GATT 1994), che a loro volta sono integrati dal Dispute
Settlement Agreement (DSU, "Intesa sulla soluzione delle controversie").7

Rileva, infine, citare in questa sede gli artt. 66 e 67, che dispongono misure preferenziali
nei confronti dei Paesi meno sviluppati, e l’art. 68, che istituisce il Consiglio TRIPs
(competente sia sul controllo e l’applicazione dell’Accordo, sia nei rapporti con la
WIPO).

La protezione prevista dall’Accordo TRIPs si accorda:8

a) agli autori di opere letterarie ed artistiche (art. 9, par. 1);9


b) agli interpreti di opere letterarie ed artistiche;10

c) ai produttori di fonogrammi;11

d) alle aziende radiotelevisive;

e) agli autori di "programmi per elaboratore, in codice sorgente12 o in codice oggetto",13


che vengono parificati alle opere tutelate dalla Convenzione di Berna (art. 10, par. 1);

f) ai curatori di "compilazioni di dati o altro materiale [...] che a causa della selezione o
della disposizione del loro contenuto costituiscono creazioni intellettuali", fatti salvi i
diritti eventualmente esistenti sui dati o sul materiale utilizzato, a cui comunque non si
applica la tutela prevista (art. 10, par. 2);

g) ai soggetti che rientrano nelle tutele previste dagli artt. 15-38.14

Per quanto riguarda l’individuazione dei soggetti di cui alle lettere da a) a d), si
applicano – ai soli Paesi aderenti al WTO – i criteri di idoneità previsti ex art. 3, par. 1,
della Convenzione di Berna o ex artt. 4-6 della Convenzione di Roma.

La tutela accordata ex art. 12 agli aventi diritto è di non meno di 50 anni dall’anno di
autorizzazione alla pubblicazione dell’opera, ovvero dall’anno di realizzazione
dell’opera, in assenza di tale autorizzazione.15 Possono però essere imposte delle
eccezioni o dei limiti "che non siano in conflitto con un normale sfruttamento dell’opera
e non comportino un ingiustificato pregiudizio ai legittimi interessi del titolare" (art.
13).

La vera novità dell’Accordo è nella previsione, inedita, di misure specifiche per la tutela
coattiva dei diritti d’autore. Infatti, fra le critiche alle altre Convenzioni vigenti in
materia, rilevano quelle riguardo il fatto che "while they establish rights for various
interested parties, they contain no obligations regarding the application of effective
enforcement measures. In this respect the TRIPs Agreement marks a major advance".16

È pur vero che diversa è anche la genesi di questo accordo: al contrario delle
Convenzioni citate, infatti, l’Accordo TRIPs "non mira a tutelare internazionalmente i
diritti di proprietà intellettuale, ma a ridurre distorsioni e impedimenti al commercio
internazionale, derivanti non solo dal mancato riconoscimento dei diritti di proprietà
intellettuale e industriale riferibili ad ordinamenti stranieri, ma anche da una tutela
eccessiva".17

La tutela coattiva si desume ex art. 1, dove si afferma che tutti i Membri "danno
esecuzione alle disposizioni del presente Accordo", sebbene abbiano "la facoltà di
determinare le appropriate modalità di attuazione delle disposizioni del presente
Accordo nel quadro delle rispettive legislazioni e procedure".

È in quest’ottica che vanno valutati gli effetti dei già citati principi cardine del WTO, il
trattamento nazionale e la clausola della nazione più favorita. Quest’ultima è stata
inserita su precisa pressione della Svizzera e di altri Paesi industrializzati, privi di quel
"peso" economico di cui potevano disporre i Paesi più "grandi", come gli Stati Uniti. Il
timore era, infatti, che i trattamenti preferenziali stabiliti fra Washington ed altri PVS
non venissero estesi anche agli altri Membri del WTO, anche in ragione di quanto
disposto dalla Convenzione di Berna18 – con ciò violando l’architettura stessa
dell’Organizzazione.

Ma è soprattutto il trattamento nazionale ad assumere un particolare rilievo, stante il


congruo numero di norme previste dall’Accordo, a cui tutti i Membri devono
uniformarsi. Notano a tal proposito Picone e Ligustro: "Il quadro normativo introdotto
dall’Accordo TRIPs, quindi, ridimensiona l’operatività del principio di trattamento
nazionale. Se, infatti, in forza del citato art. 1, gli Stati sono obbligati ad uniformare i
propri ordinamenti alle numerose previsioni sostanziali e procedurali dell’Accordo, il
trattamento dei diritti di [proprietà intellettuale] da questo imposto non è quello
«nazionale» ma piuttosto quello derivante dal regime «internazionale»".19

Le numerose previsioni sono dettagliatamente ricomprese, come precedentemente detto,


nella Parte III dell’Accordo, preceduto dal riconoscimento – col quale si rimarcano
ancora una volta quali siano i reali obbiettivi dell’Accordo – ex art. 40 che "alcune
modalità o condizioni per la concessione di licenze sui diritti di proprietà intellettuale
che limitano la concorrenza possono avere effetti negativi sul commercio e impedire il
trasferimento e la diffusione di tecnologia" (corsivo aggiunto).

Pertanto ex art. 41, par. 1, gli Stati sono obbligati sia ad adottare norme efficaci "contro
qualsiasi violazione dei diritti di proprietà intellettuale contemplati dal presente
accordo" sulla falsariga di quanto ivi disposto, sia ad applicare tali misure "in modo da
evitare la creazione di ostacoli ai legittimi scambi e fornire salvaguardie contro il loro
abuso" (corsivo aggiunto).

Si può dunque affermare che il diritto d’autore "non viene soltanto affermato, ma anche
garantito internazionalmente tramite una procedura automatica, obbligatoria e soggetta
a termini specifici, sia pure attivabile dagli Stati membri e non dalle persone fisiche e
giuridiche titolari dei brevetti, che ne assicura la protezione effettiva a livello
globale".20

Le procedure devono consentire la facoltà per la parte lesa:

a) di poter accedere alle corti civili, in tempi e modi certi e non eccessivamente
complicati e/o costosi, anche attraverso propri rappresentanti (artt. 41-42);
b) di poter ottenere una ordinanza di cease-and-desist (art. 44);21

c) di poter ottenere risarcimenti per il danno economico subito (tanto in termini di


mancati ricavi, quanto di costi sostenuti) in seguito alla violazione accertata (artt. 45 e
48).

La corte, a sua volta, ha la facoltà di chiedere alla presunta parte lesa di produrre prove
concrete della violazione contestata (art. 43) e ordinare la distruzione del materiale
contraffatto (art. 46).

Nel caso di violazione presunta o comunque di potenziale immissione di merci


contraffatte22 o usurpative,23 la corte ha inoltre la facoltà di disporre "misure provvisorie
immediate ed efficaci" per impedire l’immissione in commercio delle merci in oggetto
(art. 50, par. 1), per cui è possibile anche prevedere una sanzione di tipo penale (art. 61).

In merito, il titolare dei diritti può richiedere alle autorità doganali la sospensione
dell’immissione in libera pratica delle merci in oggetto (art. 51) e la possibilità di farla
ispezionare al fine di poter dimostrare la validità della propria pretesa (art. 57), previa
ovviamente comunicazione da operarsi "senza indugio" nei confronti dell’importatore
(art. 54).

Le autorità competenti hanno però la facoltà di disporre la costituzione di una cauzione o


una garanzia equivalente sufficiente a tutela della parte convenuta (art. 53) ed
eventualmente imporre al ricorrente un adeguato risarcimento del pregiudizio subito dal
convenuto (art. 56).

In merito ai diritti "aggiuntivi" rispetto alle vigenti Convenzioni previsti dall’Accordo


TRIPs, rileva in questa sede citare l’art. 11 – norma fortemente voluta dai Paesi europei
– che concede ai detentori dei diritti sui programmi per elaboratori, sui programmi per
compilazioni di dati e sulle opere cinematografiche il diritto di autorizzare o meno il
noleggio al pubblico delle proprie opere.

Altro dato da rilevare è che le misure dell’Accordo TRIPs si applicano ai Paesi


contraenti e non ai singoli cittadini, "benché non si possa negare che indirettamente, in
ultima analisi, il risultato sia pure questo".24 Andrebbe, dunque, in questo senso
interpretata anche l’esplicita esclusione (art. 9, par. 1)25 dell’art. 6-bis della
Convenzione di Berna, riguardo i c.d. diritti morali di rivendicazione della paternità
dell’opera e di integrità dell’opera.26

Rileva però ricordare come quasi tutti i Paesi aderenti al WTO siano anche membri della
WIPO, che applica nella sua interezza la più volte citata Convenzione di Berna – ivi
compreso, quindi, l’art. 6-bis. Proprio con la WIPO viene instaurato un rapporto di
collaborazione molto stretto dagli artt. 63 e 68.
Il primo articolo, come accennato prima, introduce il principio di trasparenza, ossia pone
a carico di uno Stato membro l’obbligo di notificare tutte le disposizioni normative e
regolamentari pertinenti. Lo stesso articolo però concede la facoltà al Consiglio TRIPs di
attingere direttamente ai registri della WIPO, riducendo gli oneri a carico dei Membri.

Il secondo invita il Consiglio a stabilire "appropriati meccanismi di cooperazione con gli


organi" della WIPO, alla quale il WTO si affianca nelle materie di propria competenza
su un piano di assoluta parità. Pur essendoci potenziali sovrapposizioni o punti di attrito
fra le due organizzazioni, questo ha comunque portato ad un ampliamento, sia di ambito
territoriale, sia di standard minimi di tutela.

Note

1. ↑ La lista completa delle Parti contraenti è disponibile al sito:


http://www.wto.org/english/thewto_e/whatis_e/tif_e/org6_e.htm.
2. ↑ A. Lupone, "Gli aspetti della proprietà intellettuale attinenti al commercio
internazionale", in G. Venturini, L’Organizzazione Mondiale del Commercio,
Milano, 2004 (2ª ed.), pagg. 136-137.
3. ↑ P. Picone, A. Ligustro, Diritto dell’Organizzazione mondiale del commercio,
Padova, 2002, pag. 400-401.
4. ↑ Cfr. P. Picone, A. Ligustro, op. cit., pag. 401.
5. ↑ P. Picone, A. Ligustro, op. cit., pag. 402.
6. ↑ In merito, rileva notare come la previsione in se di tali obblighi costituisca una
novità rispetto agli altri trattati in materia di diritto d’autore. Cfr. anche infra.
7. ↑ In merito alle violazioni senza infrazione, di cui all’art. XXIII, par. 1, lett. b) e c)
dell’Accordo GATT 1994, è in vigore una moratoria de facto, la cui scadenza era
originariamente prevista per il 1° gennaio 2000. In seguito alle pressioni dei Paesi
in via di sviluppo per una estensione della moratoria, era stata decisa di mantenerla
in vigore fino alla Conferenza interministeriale di Cancun (10-14 settembre 2003),
che avrebbe formulato una raccomandazione ad hoc. In seguito al fallimento della
Conferenza, la moratoria continua ad essere di fatto osservata fino ai prossimi
negoziati multilaterali.
8. ↑ In realtà, l’Accordo TRIPs non fa alcun accenno a categorie ben definite di
beneficiari. La semplificazione qui riportata è parzialmente basata sul testo
dell’Accordo TRIPs e parzialmente su J.A.L. Sterling, World copyright law, Londra,
2003 (2ª ed.), pagg. 689-691.
9. ↑ In merito, cfr. infra, par. 1.2. "La Convenzione di Berna".
10. ↑ La definizione è da intendersi, ex art. 3, lett. a), della Convenzione di Roma, come
"gli attori, i cantanti, i musicisti, i ballerini e le altre persone che rappresentano,
cantano, recitano, declamano o eseguono in qualunque altro modo opere letterarie o
artistiche".
11. ↑ La definizione è da intendersi, ex art. 3, lett. c), della Convenzione di Roma, come
"la persona fisica o giuridica che, per prima, fissa i suoni di un’esecuzione od altri
suoni".
12. ↑ Per "codice sorgente" si intende l’insieme di istruzioni appartenenti ad un
determinato linguaggio di programmazione, utilizzato per realizzare un qualunque
software per computer.
13. ↑ Per "codice oggetto" si intende la traduzione del codice sorgente in un linguaggio
binario comprensibile al solo elaboratore che, a sua volta, genera un codice
eseguibile, ossia il programma vero e proprio.
14. ↑ Come già indicato nell’introduzione, in questo studio si privilegerà l’analisi dei
diritti accordati agli autori e agli editori di opere letterarie ed artistiche.
15. ↑ I termini esposti sono da computarsi a partire dal 1º gennaio successivo all’anno
in questione. Ad esempio, per un’opera pubblicata nel 2010, il termine di scadenza
verrà computato a partire dal 1º gennaio 2011.
16. ↑ J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 699.
17. ↑ A. Lupone, op. cit., pag. 142.
18. ↑ Questa convenzione prevede, ex art. 20, che eventuali benefici particolari
accordati attraverso intese bilaterali ad uno Stato non debbano automaticamente
essere estesi a tutti gli altri Stati contraenti.
19. ↑ P. Picone, A. Ligustro, op. cit., pag. 405.
20. ↑ R. Cadin, "È più immorale e antigiuridico secondo il diritto internazionale copiare
un brevetto o negare l’accesso ai farmaci essenziali ai malati di AIDS nei Paesi
poveri?", in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 16, gennaio-
aprile 2004, pag. 47.
21. ↑ Un provvedimento di cease-and-desist è un atto con il quale si chiede o si ordina
di interrompere un’attività giudicata lesiva dei diritti di qualcuno, ovvero di
affrontare un procedimento legale. Nella terminologia anglo-sassone, può essere
inteso tanto come una semplice lettera di diffida e messa in mora, quanto come
provvedimento incluso in una sentenza. In questo caso, va privilegiato quest’ultimo
significato.
22. ↑ Per "merce contraffatta", in base alla nota 14, lett. a), che fa riferimento all’art. 51
TRIPs, si intendono "le merci, compreso il loro imballaggio, su cui sia stato apposto
senza autorizzazione un marchio che è identico al marchio validamente registrato
per dette merci o che non ne può essere distinto nei suoi aspetti essenziali e che
pertanto viola i diritti del titolare del marchio in questione ai sensi della
legislazione del Paese di importazione".
23. ↑ Per "merce usurpativa", in base alla nota 14, lett. b), che fa riferimento all’art. 51
TRIPs, si intendono "le merci costituite da riproduzioni realizzate senza il consenso
del titolare del diritto o di una persona da questi validamente autorizzata nel Paese
di produzione e ottenute direttamente o indirettamente da un articolo qualora la
realizzazione di tale riproduzione avrebbe costituito una violazione del diritto
d’autore o di un diritto connesso ai sensi della legislazione del Paese di
importazione".
24. ↑ A. Lupone, op. cit., pag. 143.
25. ↑ Il testo dell’art. 9, par. 1, del TRIPs recita: "I Membri si conformano agli artt. da 1
a 21 della Convenzione di Berna (1971) e al suo annesso. Tuttavia essi non hanno
diritti né obblighi in virtù del presente Accordo in relazione ai diritti conferiti
dall’art. 6 bis della medesima Convenzione o ai diritti da esso derivanti."
26. ↑ Su questo punto, cfr. infra, par. 1.3. "Le questioni ancora aperte".
La costituzione nel 1878 dell’Association Littéraire et Artistique International (ALAI),
fortemente voluta e patrocinata da Victor Hugo, fu uno dei primi tentativi di armonizzare
la complessa rete di trattati bilaterali sul diritto d’autore e raggiungere un primo
consenso su quali diritti garantire ai singoli autori. Fra il 1882 e il 1885, l’ALAI favorì la
creazione di un dibattito fra i singoli Governi, che giunsero nella Conferenza diplomatica
di Berna del 6-9 settembre 1886 alla approvazione della Convention concernant la
création d’une Union Internationale pour la protection des oeuvres littéraires et
artistique (c.d. Convenzione di Berna).

La Convenzione, entrata in vigore il 5 dicembre 1887, fra le prime a stabilire i principi di


base in materia, fu poi successivamente completata, riveduta ed ampliata tanto ad altri
ambiti di applicazione (non più solo con riferimento alle opere letterarie ed artistiche,
ma anche fotografiche, cinematografiche e più recentemente tecnologiche) quanto nella
loro efficacia temporale.1 Attualmente, vi aderiscono 164 Paesi.2

In ultimo, come già precedentemente detto, l’Accordo TRIPs incorpora esplicitamente


gli artt. da 1 a 21 (escluso l’art. 6-bis) della Convenzione di Berna, così come da ultimo
riformata nel 1971. Con ciò "the 1971 text provides the basic standard of protection of
copyright throughout most of the world",3 poiché estende tali standard anche agli Stati
contraenti dell’Accordo TRIPs.4

La Convenzione di Berna stabilisce la creazione della c.d. Unione di Berna (art. 1) e


delinea le opere oggetto di tutela, i soggetti beneficiari, le tutele stesse e le loro
limitazioni e deroghe, con riferimenti agli accordi speciali fra i Membri dell’Unione (art.
20) e alle misure speciali nei confronti dei Paesi in via di sviluppo (art. 21).

La protezione prevista dalla Convenzione si applica a tutti i "lavori letterari ed artistici"


(literary and artistic works), ossia:

a) "ogni opera prodotta in ambito letterario, scientifico ed artistico, qualunque sia il


modo o la forma della sua espressione" (art. 2, par. 1);

b) le traduzioni, gli adattamenti e gli arrangiamenti di opere già edite, equiparate alle
opere originali (art. 2, par. 3);

c) le enciclopedie e le antologie "che, in base alla selezione e all’organizzazione dei


contenuti, costituiscono creazioni intellettuali" (art. 2, par. 5).

In entrambi i casi di cui alle lettere b) e c), tale tutela si applica senza pregiudicare i
diritti degli autori originali dei contenuti tradotti, adattati o selezionati. Ciò va inteso
anche nel senso che l’eventuale editore intenzionato a pubblicare una traduzione di
un’opera o un’opera composta da testi di più autori deve essere esplicitamente
autorizzato alla pubblicazione dal detentore originale dei diritti.5

Viene inoltre lasciata la facoltà ai singoli Paesi, ex artt. 2 e 2-bis, di ampliare la tutela
anche ad altre forme di espressione delle opere e ad altre tipologie di opere (documenti
ufficiali, traduzioni ufficiali di tali documenti, interventi in ambito parlamentare o in
ambito giudiziale, eccetera).

Beneficiari di questa tutela sono gli autori delle opere (art. 1) o i loro legittimi
successori (successors in title, art. 2, par. 6). Per "autori" si intendono:

a) i cittadini di un Paese contraente (art. 3, par. 1, lett. a);

b) i cittadini di un Paese non contraente che abbiano pubblicato per la prima volta la loro
opera in un Paese contraente oppure simultaneamente6 in un Paese contraente e in uno
non contraente (art. 3, par. 1, lett. b);

c) i cittadini di un Paese non contraente che però hanno la propria residenza in un Paese
contraente (art. 3, par. 2).

Queste misure si applicano anche agli autori di opere cinematografiche (art. 4, par. 1), ai
detentori dei diritti di sfruttamento di opere cinematografiche (art. 14-bis, par. 1) o di
opere architettoniche o integrate all’interno di edifici o strutture costruite in Paesi
contraenti (art. 4, par. 2).

Vengono altresì protetti gli autori di opere anonime o pubblicate sotto pseudonimo (art.
15, par. 1), stabilendo che, in assenza di prova contraria, l’autore originale debba essere
tutelato "as such where his name appears on the work in the usual manner".7 In questo
caso, l’editore è autorizzato ad esercitare e difendere i diritti dell’autore originale in sua
vece (art. 15, par. 3).

Un’ulteriore tutela può, infine, essere prevista dalle singole legislazioni nazionali per le
opere non ancora pubblicate, anche nel caso in cui l’autore sia sconosciuto ma "può
tuttavia presumersi come appartenente ad un Paese dell’Unione" (art. 15, par. 4, lett. a).

Ai beneficiari, così come individuati, è garantita innanzitutto la tutela dei propri diritti
secondo i principi del trattamento nazionale (art. 5),8 a cui però fanno seguito una serie
di eccezioni riguardo:

a) i modelli ed i disegni industriali, i quali possono essere tutelati come opera artistica
qualora manchi una forma dedicata di tutela (art. 2, par. 7);

b) l’eventualità di limitare la protezione di autori di Paesi non aderenti alla Convenzione


che non proteggano "in misura sufficiente" le opere di autori di Paesi aderenti alla
Convenzione (art. 6, par. 1);

c) la durata della protezione accordata, che non può essere maggiore di quella accordata
nel Paese d’origine, a meno che la legislazione del Paese in cui viene richiesta la
protezione non disponga altrimenti (art. 7, par. 8);

d) la cointeressenza (droit de suite), che può essere richiesta solo se la legislazione del
Paese in oggetto lo permette e solo nei termini da essa previsti (art. 14-ter, par. 2).

La tutela accordata agli autori è fissata, ex art. 7, nei seguenti termini:

a) fino a 50 anni post mortem auctoris (art. 7, par. 1);

b) fino a 50 anni dalla pubblicazione di un’opera anonima, fatta salva l’identificazione


dell’autore, nel cui caso si applicano le disposizioni di cui sopra (art. 7, par. 3);

c) non meno di 25 anni dalla pubblicazione di un’opera fotografica o di un’opera


assimilabile ex artt. 2 e 2-bis (art. 7, par. 4).

È prevista inoltre una deroga in caso di opere cinematografiche, in base alla quale i
diritti di sfruttamento commerciale possono definirsi scaduti dopo 50 anni dall’anno di
autorizzazione dell’opera, ovvero dall’anno di realizzazione (art. 7, par. 2).

Riguardo la forma dell’opera, non è richiesto esplicitamente che questa venga realizzata
su un supporto materiale affinché venga tutelata. Tuttavia, è concessa la facoltà ai
singoli Membri di non proteggere un’opera fintantoché essa non sia realizzata su detto
supporto materiale (art. 2, par. 2).

Riguardo invece la sfera di applicazione della Convenzione (art. 3), restano ovviamente
esclusi gli autori cittadini di un Paese non contraente e le opere di tali autori pubblicate
per la prima volta in un Paese non contraente. Tuttavia, va notato come, in seguito
all’integrazione della Convenzione di Berna all’interno dell’Accordo TRIPs, l’art. 3 si
applichi de facto anche agli autori cittadini di un Paesi aderente al solo WTO e alle opere
di tali autori pubblicate per la prima volta in un Paese aderente al solo WTO.9

La tutela a cui sono sottoposti autori ed opere si esplica sotto due punti di vista: c.d.
morale ed economico.

L’art. 6-bis della Convenzione garantisce la tutela dei c.d. diritti morali di:10

a) corretta attribuzione dell’opera (o "diritto di paternità dell’opera"), ossia di indicare


sempre il nome reale o lo pseudonimo, qualora usato, dell’autore, ovvero, in caso di
opera anonima, di indicare che l’autore è sconosciuto, evitando comunque l’errata o
fraudolenta attribuzione dell’opera;
b) integrità dell’opera, ossia di opporsi a deformazioni, modificazioni ed ogni altro atto a
danno dell’opera che possano essere di pregiudizio all’onore o alla reputazione
dell’autore.11

Tali diritti devono garantirsi anche nel caso in cui l’autore acconsenta a cedere a terzi i
diritti di sfruttamento economico sulla sua opera o che questi risultino decaduti (art. 6-
bis, par. 1). In generale, essi sono garantiti "almeno fino allo scadere dei diritti
economici", anche se i Paesi membri possono decidere di ampliare ulteriormente
l’ambito temporale di applicazione (art. 6-bis, par. 2), così come a loro è delegata la
facoltà di scegliere come la tutela degli stessi vada esplicata (art. 6-bis, par. 3).

Riguardo i diritti di sfruttamento economico, essi possono essere suddivisi in tre


fattispecie: riproduzione,12 adattamento e pubblicazione.

Per quanto riguarda la riproduzione di un’opera, gli autori detengono il diritto esclusivo
di autorizzarla "in qualsiasi maniera e forma" (art. 9, par. 1).13 È però possibile (art. 9,
par. 2) per gli Stati membri della Convenzione permetterne la riproduzione, a patto che
vengano soddisfatte tre condizioni (c.d. three step test):

a) che tale decisione sia limitata a casi sui generis (special cases);

b) che la riproduzione così autorizzata non interferisca con il normale sfruttamento


dell’opera;

c) che non pregiudichi ingiustificatamente i legittimi interessi dell’autore.

La Convenzione tratta poi ulteriori aspetti più specifici riguardanti la riproduzione


parziale di un’opera (ad esempio, il diritto di corta citazione) o la riproduzione effettuata
per taluni fini (ad esempio, il diritto di cronaca o di illustrazione a fini didattici).14

Per quanto riguarda l’adattamento di un opera, ex art. 12 viene riconosciuto il diritto


esclusivo agli autori originali di concedere o meno l’autorizzazione per "adattamenti,
variazioni e altre trasformazioni delle loro opere". Vengono considerate a parte le
autorizzazioni per le traduzioni in altre lingue (art. 8) e per gli adattamenti
cinematografici (art. 14).

Più complesso appare il discorso riguardo il complesso dei diritti relativi alla
pubblicazione dell’opera. Essendo il frutto di varie e successive Conferenze
Diplomatiche sul punto, essi non si applicano in modo uniforme a tutte le fattispecie di
opere, sussistendo, in aggiunta, difficoltà di interpretazione fra le versioni francese ed
inglese.15

Gli autori di "opere drammatiche, drammatico-musicali e musicali" (art. 11, par. 1) e di


"opere letterarie" (art. 11-ter, par. 1) hanno il diritto esclusivo di autorizzare la
rappresentazione e l’esecuzione "con qualsiasi mezzo o procedimento" in luoghi pubblici
ed aperti al pubblico e la trasmissione via cavo "con qualsiasi mezzo" delle loro opere.
Nel caso queste vengano tradotte, tale diritto viene esteso anche ai curatori delle
traduzioni (art. 11, par. 2 e art. 11-ter, par. 2).

Ex art. 11-bis, par. 1, viene garantito agli autori di "opere letterarie ed artistiche" il
diritto esclusivo di autorizzare, riguardo la propria opera:

a) la trasmissione via etere (wireless broadcast) o la ritrasmissione via cavo di una


rappresentazione trasmessa originariamente via etere;

b) la ritrasmissione via cavo o via etere da parte di un altro operatore differente


dall’operatore originale;

c) la trasmissione via altoparlante "o qualsiasi altro analogo strumento".

Fatti salvi il rispetto dei diritti morali e del diritto di ricevere un equo compenso in capo
all’autore, le condizioni per l’esercizio dei diritti di cui all’art. 11-bis, par. 1, sono
determinati dai singoli Paesi membri e avranno effetto solo all’interno dei rispettivi
confini nazionali (par. 2).

Viene inoltre statuito che l’autorizzazione non implica, salvo accordo contrario, la
possibilità di registrare l’opera. Tuttavia, viene demandata ai singoli Paesi la
determinazione delle condizioni per l’esercizio delle c.d. "registrazioni effimere"16 ed
eventualmente per la conservazione di tali registrazioni in archivi ufficiali "in
considerazione del loro eccezionale carattere documentario" (par. 3).

Menzione a parte, infine, merita la questione della distribuzione, citata solo


marginalmente all’interno della Convenzione e solo riguardo gli adattamenti
cinematografici di un’opera: ex art. 14, par. 1, num. 1), fra i diritti esclusivi concessi
all’autore dell’opera originaria è ricompreso anche quello di autorizzazione alla
distribuzione. Ciò perché, ai fini della Convenzione, "a film incorporating a work (e.g.
the underlying novel, the screen play, soundtrack music, etc.) is regarded as a
cinematographic reproduction, and the author has the right to control the distribution of
copies of the film to the public".17

In ultimo, rileva notare una sfumatura riguardo l’oggetto stesso della Convenzione. Fino
alla revisione apportata dall’Atto di Stoccolma del 14 luglio 1967, l’unica versione
ufficiale della Convenzione era quella stesa in lingua francese. Con la revisione decisa
nel 1967, a questa venne affiancata ex art. 37, par. 1, lett. a) una traduzione in lingua
inglese.18 Tuttavia, ex art. 37, par. 1, lett. c), in caso di controversie continua a far fede la
versione in lingua francese.
È questo un particolare non di poco conto, se si considera che non sempre la
terminologia inglese rende con precisione i concetti linguistici espressi da quella
francese. Il caso più eclatante è quello dell’utilizzo del termine copyright per indicare il
droit d’auteur: sebbene il termine inglese in questo caso vada inteso come sinonimo del
termine francese, non si può affatto trarre la conclusione che i due siano perfettamente
sinonimi anche in altri casi.19

Note

1. ↑ La Convenzione originaria è stata infatti: emendata dall’Atto addizionale di Parigi


ed annessa Dichiarazione interpretativa, firmati il 4 maggio 1896 ed entrati in
vigore il 9 dicembre 1897; rivista dall’Atto di Berlino, firmato il 13 novembre 1908
ed entrato in vigore il 9 settembre 1910; emendata dal Protocollo Addizionale di
Berna, firmato il 20 marzo 1914 ed entrato in vigore il 20 aprile 1915; rivista
dall’Atto di Roma, firmato il 2 giugno 1928 ed entrato in vigore il 1° agosto 1931;
rivista dall’Atto di Bruxelles, firmato il 26 giugno 1948 ed entrato in vigore il 1°
agosto 1951; rivista dall’Atto di Stoccolma, firmato il 14 luglio 1967 ed i cui
articoli da 22 a 38 sono entrati in vigore nel 1970; rivista dall’Atto di Parigi,
firmato il 24 luglio 1971 ed entrato in vigore il 10 ottobre 1974; infine
ulteriormente emendata il 28 settembre 1979.
2. ↑ La lista completa delle Parti contraenti della Convenzione di Berna è disponibile
al sito http://www.wipo.int/treaties/en/ShowResults.jsp?lang=en&treaty_id=15.
3. ↑ J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 602.
4. ↑ Questa estensione è stata confermata dal Rapporto del Panel costituitosi il 26
maggio 1999 su richiesta delle Comunità Europee in merito alla vicenda United
States – Section 110(5) of the US Copyright Act. Il Panel afferma, ai parr. 17 e 18:
"Article 9.1 of the TRIPS Agreement obliges WTO Members to comply with Articles
1-21 of the Berne Convention (1971) [...] We note that through their incorporation,
the substantive rules of the Berne Convention (1971) [...] have become part of the
TRIPS Agreement and as provisions of that Agreement have to be read as applying
to WTO Members". Il rapporto completo, in lingua inglese, è disponibile al sito:
http://docsonline.wto.org/imrd/directdoc.asp?DDFDocuments/t/WT/DS/160R-
00.doc.
5. ↑ Cfr. J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 611. Non è necessario però richiedere tale
autorizzazione per la pubblicazione o ripubblicazione di opere i cui diritti di
sfruttamento commerciale siano decaduti secondo i termini previsti dalla legge del
Paese membro o dalla Convenzione.
6. ↑ Ex art. 3, par. 4, "[s]i considera come pubblicata simultaneamente in più Paesi
l’opera che appaia in due o più Paesi entro trenta giorni dalla sua prima
pubblicazione".
7. ↑ J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 609.
8. ↑ Sterling nota come sorgano alcuni problemi riguardo l’applicazione del
trattamento nazionale riguardo taluni diritti ed opere, citando espressamente i diritti
di prestito pubblico (public lending rights), i diritti di copia privata (private right to
copy) e i prodotti informatici. Cfr. J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 606. Si può
affermare che una prima risposta a questi problemi sia stata data prima
dall’Accordo TRIPs (sebbene esso si applichi solo in ambito WTO) e poi dal WIPO
Copyright Treaty e dal WIPO Performances and Phonograms Treaty (entrambi
firmati nel 1996 in ambito WIPO). Riguardo questi ultimi, cfr. infra, par. 1.3. "Le
questioni ancora aperte".
9. ↑ In merito, Sterling giustamente nota come, in generale, sia da ritenere "ingiusto"
il principio per cui un autore, per il solo fatto di non ricadere nell’ambito di
applicazione dell’art. 3 della Convenzione di Berna, possa in teoria vedere
"usurpato" il proprio lavoro all’interno dell’Unione di Berna. Posizione, questa,
peraltro difficile da giustificare, se si considerano tanto i principi che la
Convenzione stessa statuisce, quanto il profondo mutamento del concetto di confini
nazionali derivante dall’introduzione di nuovi mezzi di comunicazione. Cfr. J.A.L.
Sterling, op. cit., pag. 615.
10. ↑ Va notato come siano esclusi dalla Convenzione il c.d. "diritto di inedito", ossia il
diritto dell’autore di decidere se e quando rendere pubblica un’opera, e il diritto di
ritiro dell’opera dal commercio per gravi ragioni morali. Cfr. J.A.L. Sterling, op.
cit., pag. 616.
11. ↑ Alcuni ordinamenti, come quello francese, ampliano il diritto all’integrità anche a
quegli atti che non recano danno alla onorabilità o alla reputazione dell’autore,
sancendo dunque un divieto assoluto di modifica di un’opera senza previo
permesso.
12. ↑ In questo caso, il termine "riproduzione" è da intendersi come "copia", "replica" e
non come "esecuzione". Cfr. J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 617.
13. ↑ Ex art. 9, par. 3, sono da considerarsi ricompresi anche i formati video e audio.
14. ↑ Per una più ampia analisi su limitazioni ed eccezioni minori, cfr. J.A.L. Sterling,
op. cit., pagg. 618-619 e 625-626.
15. ↑ Cfr. J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 620.
16. ↑ Per "registrazione effimera" si intende la registrazione di un programma che sarà
poi, per necessità di programmazione dell’emittente, trasmesso in un orario
differito.
17. ↑ J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 620. Occorre notare che, in ambito WTO, questi
diritti si estendono anche al noleggio delle opere, ex art. 11 TRIPs. Cfr. anche infra,
par. 1.1. "L’Accordo TRIPs".
18. ↑ Ex art. 37, par. 1, lett. b), viene prevista la stesura di altri testi ufficiali, a cura del
Direttore Generale dell’Unione di Berna, in lingua tedesca, araba, spagnola, italiana,
portoghese "e nelle altre lingue che l’Assemblea dovesse indicare".
19. ↑ Cfr. J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 608. Per un’analisi storica delle differenze dei
due termini esposti, vedi U. Izzo, "Alle radici della diversità tra copyright e diritto
d’autore", in G. Pascuzzi, R. Caso, I diritti sulle opere digitali: copyright
statunitense e diritto d’autore italiano, Padova, 2002.
La collaborazione fra WTO e WIPO, a cui si è precedentemente fatto riferimento,
nonostante non sia rimasta lettera morta ma sia invece applicata concretamente nei fatti,
non ha risolto alcune contraddizioni derivanti dall’incorporazione delle Convenzioni in
materia di diritto d’autore vigenti all’interno dell’Accordo TRIPs.

Si è già accennato all’esclusione dell’art. 6-bis della Convenzione di Berna – articolo che
si rivelerà estremamente importante nella presente analisi. Questa decisione è motivabile
con la mancante o insufficiente tutela di questi diritti in alcuni Stati membri,1 fra cui
rileva la posizione degli Stati Uniti, a cui maggiormente si può imputare l’esclusione in
oggetto.

Infatti, tale scelta "è il risultato del recepimento della proposta della delegazione
statunitense che faceva esclusivo riferimento ai diritti di utilizzazione economica
previsti dalla Convenzione di Berna, nonché alla alienabilità di tutti i diritti protetti
dall’accordo TRIPs. Gli Stati Uniti, infatti, non tutelano i diritti morali, nonostante
siano parte contraente della Convenzione. Non a caso, in sede di adesione alla
Convenzione, essi fecero presente che il proprio ordinamento tutela i diritti morali
dell’autore mediante le norme poste a tutela della privacy e contro la diffamazione".2

Meno adeguata, sebbene rilevante, appare come giustificazione la pur esistente


differenza di approccio fra il TRIPs e le altre Convenzioni, il cui fine "era ed è quello di
garantire ai prodotti dell’ingegno compresi nel rispettivo campo di applicazione un
trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto alle opere intellettuali riferibili
al territorio nazionale".3

La decisione di non applicare tale norma in ambito WTO appare comunque discutibile.
Si può affermare che diritti morali e diritti di sfruttamento commerciale sono
strettamente connessi gli uni agli altri e che, addirittura, i secondi siano indirettamente
derivanti dai primi: è infatti l’autore dell’opera a decidere se alienare o meno i propri
diritti a favore di terzi e può farlo perché gli si riconosce (anche solo implicitamente) la
paternità sull’opera prodotta.

Allo stato è ancora potenziale, sebbene da non sottovalutare, anche il problema derivante
dalla "dinamicità" delle Convenzioni esplicitamente incorporate: l’Accordo TRIPs,
infatti, fa riferimento alle disposizioni di tali accordi come da ultimo revisionate, ma
nulla statuisce riguardo ad un’eventuale nuova revisione degli stessi e, di conseguenza,
sul coordinamento fra TRIPs e nuova normazione degli Accordi. Su questo, la dottrina è
ancora in dubbio se possa anche qui valere il principio per cui lex posterior derogat
priori, ovvero se il sistema scaturito dal TRIPs abbia una forza tale da "resistere" ad
eventuali norme successive che siano in contrasto con le disposizioni di quel trattato.4

Appare inoltre difficile che simili problemi di coordinamento possano essere risolti con
facilità attraverso gli organi e le procedure previsti dal WTO per la risoluzione delle
controversie, considerando che un panel non è vincolato dalle decisioni dei panel
precedenti.

Per il momento, l’orientamento sembra tendere comunque ad una armonizzazione fra le


disposizioni WTO e quelle WIPO, sebbene al di fuori dell’ambito delle Convenzioni
esplicitamente incorporate. Nel 1996 furono, infatti, firmati il WIPO Copyright Treaty
(WCT)5 e il WIPO Performances and Phonograms Treaty (WPPT),6 entrambi approvati
nell’ambito di un processo di revisione delle Convenzioni di Berna e di Roma,
conclusosi negativamente per l’impossibilità di raggiungere l’unanimità su tutte le
misure (condizione necessaria per poter procedere alla revisione dei due testi). In
entrambi i casi, l’approccio seguito in ambito WIPO è stato quello di adeguarsi al livello
di tutela adottato dagli aderenti al WTO, in special modo dagli Stati Uniti.

Il WCT infatti "sembra poggiare per larga parte sul modello nordamericano –
eccettuata la prevista tutela dei diritti morali – e, quindi, condivide molto poco della
concezione continentale del diritto d’autore (e, in particolare, di quella francese)", in
taluni casi ricalcando le norme dell’Accordo TRIPs, in altri prevedendo accorgimenti
che si spingono anche oltre tale portata.7 Lo stesso si può dire per il WPPT, di cui "parte
delle disposizioni [...] sono modellate su quelle del WCT".8

In ultimo, rileva accennare al problema dell’assenza della normazione sul c.d.


esaurimento dei diritti9 e il fenomeno delle c.d. importazioni parallele:10 l’Accordo
TRIPs non prevede nessuna norma al riguardo, se non l’esplicito divieto ex art. 6 di
ricorrere ai meccanismi del WTO per risolvere eventuali controversie sorte
dall’applicazione del principio di esaurimento dei diritti da parte di uno Stato Membro.

La decisione di demandare la soluzione del problema alle singole legislazioni nazionali


va sicuramente a favore dei Paesi occidentali, esportatori di beni protetti da brevetti e
copyright, intenzionati a tutelarsi dal fenomeno della "pirateria intellettuale". I PVS
hanno più volte sostenuto, invece, la necessità di inserire il principio di esaurimento
all’interno dell’Accordo, per i timori derivanti dal potere economico delle
multinazionali (soprattutto in campo farmaceutico) e dalle limitazioni di accesso a
prezzi ragionevoli dei farmaci.

In merito, molte critiche sono emerse riguardo il fatto che il TRIPs, e più in generale le
misure decise in ambito WTO non considerano "né la tutela dei diritti fondamentali
della persona umana e dei lavoratori né la protezione dell’ambiente come discriminanti
nel commercio internazionale", laddove invece impongono "la valenza universale dei
monopoli sullo sfruttamento commerciale delle invenzioni che inevitabilmente creano un
freno al sistema multilaterale degli scambi",11 oltre a porre una serie di dubbi etici
riguardo l’assenza di qualsivoglia "restrizione al suo esercizio (né generale né specifica)
riguardante la tutela dei diritti umani, ma soltanto una serie di deroghe eccezionali di
non sempre facile interpretazione" che costituiscono "un azzardo giuridico di dimensioni
inaudite".12

Il dibattito in corso evidenzia comunque come si sia persa, perlomeno fino ad ora, una
occasione storica per gestire un fenomeno che, a partire dal 1998, ha trasceso la semplice
dimensione commerciale per entrare in una dimensione più "etica". Il riferimento è
ovviamente alla causa giudiziaria intentata nel febbraio 1998 da 39 multinazionali
farmaceutiche contro il Sudafrica per violazione, inter alia, dei brevetti sui farmaci
antiretrovirali e delle normative TRIPs.

Il procedimento è proseguito, fra alterne vicende, fino alla decisione delle multinazionali
di ritirare il proprio ricorso, annunciata il 19 aprile 2001. Sicuramente ha influito sulla
decisione "il ruolo assunto dall’opinione pubblica nazionale ed internazionale che,
attraverso vaste campagne di mobilitazione a favore dell’accesso ai farmaci", hanno
indotto a ben più miti consigli dapprima gli Stati occidentali, costringendoli "a ripensare
l’iniziale posizione fortemente contraria nei confronti della normativa sudafricana e poi
dissuaso i ricorrenti dal continuare la loro azione".13 Un reclamo simile, esperito dagli
Stati Uniti nei confronti del Brasile in ambito WTO, fu parimenti ritirato in seguito alle
reazioni indignate dell’opinione pubblica, inducendo il ricorrente alla ricerca di una
soluzione negoziale della controversia.14

È tuttavia giusto notare come entrambi i ritiri "non devono essere interpretati come il
riconoscimento della piena conformità delle politiche avviate da questi Paesi rispetto
alla normativa TRIPs", ma al contrario come una "presa di coscienza giuridica che le
restrizioni imposte dall’Accordo TRIPs alle iniziative adottate dai Paesi poveri nella
lotta all’AIDS costituiscono una violazione, seppure incidentale, della norma
imperativa15 [...] che prevede il diritto di ogni Stato alla sopravvivenza della propria
popolazione".16

In seguito a queste vicende, si è successivamente deciso di arrivare ad un accordo


riguardo una interpretazione più flessibile delle norme TRIPs. Il compromesso fu siglato
al Vertice di Cancun del 10-14 settembre 2003, attraverso una Decisione17 che dava
attuazione al par. 6 della Dichiarazione di Doha sull’Accordo TRIPs e la sanità pubblica,
approvata il 14 novembre 2001.18 Il nuovo meccanismo prevede una serie di deroghe a
favore dei PVS (in special modo, i Paesi dell’area sub-sahariana) per combattere il
diffondersi di AIDS, tubercolosi e malaria e fronteggiare improvvise epidemie gravi di
altre malattie.

Sebbene sin qui larga parte delle preoccupazioni dei PVS – e delle conseguenti misure
decise in seguito alle vicende descritte – siano rivolte all’ambito farmaceutico, tale
problema riguarda il fenomeno della "pirateria" nella sua complessità. A tal proposito,
alcuni commentatori hanno notato come il commercio parallelo permetta ai Paesi
importatori netti di beni "to benefit from more competition, lower prices and better
availability as a result of its exposure to far larger international markets",19
scoraggiando nei fatti la produzione e vendita di prodotti contraffatti, che perderebbero
così la loro "attrattività economica" non solo nei mercati dei PVS, ma anche in quelli
occidentali.

Altri però fanno notare come, proprio in virtù della clausola del trattamento nazionale,
gli stessi PVS trarrebbero benefici limitati dalla regola dell’esaurimento nazionale,
qualora venisse da loro imposta unilateralmente. Essa infatti si applicherebbe
automaticamente anche alle loro merci negli altri Paesi.20

Più in generale, "rimangono le gravi perplessità generali generate dall’Accordo TRIPs,


la cui attuazione, soprattutto nei Paesi più arretrati, rischia di essere antitetica rispetto
alla promozione dello sviluppo umano in nome di una pretesa universalità dei diritti di
proprietà intellettuale",21 la quale peraltro confligge con l’obbiettivo, sancito dal già
citato art. 41, par. 1, di "evitare la creazione di ostacoli ai legittimi scambi e fornire
salvaguardie contro il loro abuso".

Note

1. ↑ Cfr. J.A.L. Sterling, op. cit., pag. 691.


2. ↑ P. Picone, A. Ligustro, op. cit., pag. 426.
3. ↑ A. Lupone, op. cit., pag. 150.
4. ↑ Cfr. P. Picone, A. Ligustro, op. cit., pag. 416.
5. ↑ Il testo dell’accordo, firmato a Ginevra il 20 dicembre 1996 ed entrato in vigore il
6 marzo 2002, è disponibile al sito:
http://www.wipo.int/treaties/en/ip/wct/trtdocs_wo033.html.
6. ↑ Il testo dell’accordo, firmato a Ginevra il 20 dicembre 1996 ed entrato in vigore il
20 maggio 2002, è disponibile al sito:
http://www.wipo.int/treaties/en/ip/wppt/trtdocs_wo034.html.
7. ↑ F. Ronconi, "Trapianto e rielaborazione del modello normativo statunitense: il
diritto d’autore di fronte alla sfida digitale", in G. Pascuzzi, R. Caso, op. cit., pagg.
208-209.
8. ↑ F. Ronconi, op. cit., pag. 215.
9. ↑ Per "esaurimento dei diritti" si intende il principio per cui i diritti di esclusiva del
titolare di un brevetto si esauriscono quando i prodotti che integrano tale brevetto
vengono immessi sul mercato. Con ciò, il titolare originario perde, a favore
dell’acquirente, la facoltà di far dipendere dal proprio consenso l’utilizzazione di
tale prodotto e la sua ulteriore alienazione a titolo professionale da parte
dell’acquirente. È ancora in discussione in dottrina la portata territoriale di tale
principio, per cui sono state individuate tre opzioni: esaurimento nazionale (ossia
limitato ai soli confini di uno Stato), regionale (ossia limitato ad un’area ben
definita di Stati, eventualmente legati da accordi internazionali, come l’Unione
Europea) o internazionale (ossia garantito in tutto il mondo).
10. ↑ Per "importazione parallela" si intende il commercio internazionale di prodotti in
cui un importatore sfrutta la differenza di prezzo con l’estero per importare un bene
allo scopo di rivenderlo sul mercato domestico, eludendo però i canali di
distribuzione del produttore. Ciò facendo, l’importatore si pone in diretta
concorrenza col produttore del bene in oggetto. Il termine viene utilizzato anche per
designare il commercio internazionale di beni coperti da diritto d’autore. In questa
sede, è questo il significato da considerarsi prevalente.
11. ↑ R. Cadin, op. cit., pag. 48.
12. ↑ R. Cadin, op. cit., pag. 53.
13. ↑ R. Cadin, op. cit., pag. 56.
14. ↑ G.G. Yerkey, D. Pruzin, "United States Drops WTO Case Against Brazil Over
HIV/AIDS Patent Law", The Bureau of National Affairs, 26 giugno 2001.
Disponibile al sito: http://www.cptech.org/ip/health/c/brazil/bna06262001.html.
15. ↑ Per "norma imperativa" si intende, ex art. 53 della Convenzione di Vienna sul
diritto dei trattati del 1969, "una norma accettata e riconosciuta dalla comunità
internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita
alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un’altra norma del diritto
internazionale generale avente lo stesso carattere".
16. ↑ R. Cadin, op. cit., pag. 57.
17. ↑ Il testo della Decisione è disponibile al sito:
http://www.wto.org/english/tratop_E/TRIPS_e/implem_para6_e.htm.
18. ↑ Il testo della Dichiarazione è disponibile al sito:
http://www.wto.org/english/theWTO_e/minist_e/min01_e/mindecl_trips_e.htm.
19. ↑ A. Fels, Intellectual Property, Competition & Trade Policy Implications of
Parallel Import Restrictions, relazione svolta nell’ambito del Convegno "Trade,
Competition & Development", Roma, 23 maggio 2001, pag. 4. Disponibile al sito:
http://www.accc.gov.au/content/index.phtml/itemId/255604.
20. ↑ Cfr. in tal senso S. Oddi, "Nature and Scope of the Agreement TRIPS - Natural
Rights and a «Polite Form of Economic Imperialism»", in Vanderbilt Journal of
Transnational Law, Vol. 29, maggio 1996, pagg. 415 e segg., cit. in Picone e
Ligustro, op. cit.
21. ↑ R. Cadin, op. cit., pag. 64.
2.1. Premessa terminologica
2.2. Le ragioni del copyleft
2.3. Nascita ed evoluzione del copyleft
2.4. Panorama delle principali licenze libere
2.5. Le licenze Creative Commons
2.6. Profili per una evoluzione futura delle licenze libere
Prima di analizzare a fondo la storia, i principi e le forme di questo fenomeno, è
necessario prima operare un chiarimento su alcuni termini che saranno d’ora in poi
impiegati.

2.1.1. La nozione di copyleft

Copyleft è un termine inglese utilizzato per indicare, secondo la definizione ufficiale


data dalla Free Software Foundation, "a general method for making a program (or other
work) free, and requiring all modified and extended versions of the program to be free as
well".1

La parola apparve per la prima volta nel giugno 1976 sulla rivista informatica Dr.
Dobb’s Journal, in una pubblicazione riguardo il linguaggio di programmazione Tiny
BASIC: fra le prime righe di presentazione, il dottor Li Chen Wang inserì il commento
"@COPYLEFT ALL WRONGS RESERVED" (letteralmente: "Copyleft, tutti i torti
riservati").2

Il gioco di parole usato si basava sui vari significati che assume la parola right in
inglese, che può significare infatti "diritto", ma anche "destra" (da cui l’uso dell’opposto
left, "sinistra")3 oppure "giusto" (da cui l’uso dell’opposto wrong, "torto").

Il termine copyleft attualmente indica anche il complesso movimento culturale,


sviluppatosi inizialmente in ambito informatico, che ha cercato modalità di gestione dei
diritti economici di un’opera diverse da quella tradizionalmente utilizzata del copyright.

Queste modalità, incentrate sulla volontà di garantire un certo grado di riutilizzo di


un’opera (talvolta anche a scopo commerciale) senza dover chiedere l’autorizzazione
esplicita all’autore, si sono poi concretizzate nelle c.d. "licenze libere", ossia delle
particolari licenze d’uso di un’opera che si posizionano nel largo spettro di possibilità
esistenti fra il copyright e il pubblico dominio.

2.1.2. La nozione di licenza libera

Una licenza libera4 è una licenza d’uso5 di un’opera, ricompresa nell’ambito delle c.d.
browse-wrap licences,6 con la quale l’autore "chiarisce al pubblico quali diritti intende
riservarsi e di quali intende invece «spogliarsi»".7

In altri termini, queste licenze garantiscono l’autorizzazione ("e non [il] trasferimento,
in quanto la titolarità dei diritti stessi non viene ceduta")8 implicita, rilasciata a titolo
gratuito dall’autore, al compimento di alcune attività altrimenti considerate illegali,
come la copia, la modifica e la redistribuzione dell’opera.
In questo senso, dunque, si possono definire le licenze libere come un "contratto" stretto
in piena autonomia fra l’autore e l’utilizzatore dell’opera. Esistono addirittura licenze
libere, come le licenze Creative Commons, che si strutturano esattamente come dei
contratti.9

L’orientamento predominante della dottrina sembra avallare questa definizione. Scrive


Boschiero: "La qualificazione che viene data in dottrina della categoria concettuale
delle licenze relative al software è pressoché unanimemente quella di standard-form
contract e questo, in particolare, vale anche per le licenze [libere] come evidenziato
dall’analisi giuridica condotta sul tema, esclusivamente dedicata alla «contractual
enforceability» ed alla validità di alcune restrizioni ed obblighi imposti al licenziatario
dalle clausole copyleft, nonché alla questione più generale dell’assenso manifestato alle
clausole contrattuali".10

Dunque, la validità di queste licenze prescinde da un eventuale riconoscimento


legislativo o amministrativo in generale,11 laddove da questo non discenda
automaticamente una implicita validità delle singole clausole, anche stante le differenze
fra i vari ordinamenti, nei singoli casi di applicazione.

Proprio per minimizzare questi rischi e considerato anche che "la redazione delle licenze
richiede una certa competenza a livello giuridico che l’autore medio non sempre
possiede",12 si sono sviluppati alcuni modelli standard grazie all’intermediazione di
alcune organizzazioni (come la Free Software Foundation o la Creative Commons
Foundation) o alla definizione di determinati criteri che possano permettere di definire
una certa licenza "libera".

Più in generale, queste licenze possono essere distinte in due macro-categorie:13

a) quelle c.d. "non protettive", ossia che non prevengono la possibilità che l’opera possa
essere integrata in opere "proprietarie"14 e che non impongono alcuna limitazione sulla
distribuzione di opere derivate;

b) quelle c.d. "protettive", ossia che applicano delle restrizioni alla redistribuzione
dell’opera al solo fine di mantenerle "libere" perpetuamente.

Principio assolutamente non negoziabile ed anzi imprescindibile di entrambe le macro-


categorie è il riconoscimento dei diritti morali sull’opera prodotta, in perfetta armonia
con quelle che sono le provvisioni delle leggi nazionali sul diritto d’autore – e,
particolare non indifferente, con gli interessi propri degli autori.15

Il fenomeno delle licenze libere è legato alla nascita dei c.d. free software e dei c.d. open
source software, anche se ormai – come si vedrà – dall’ambito informatico esso si è
esteso anche ad altre forme di pubblicazione.

2.1.3. La nozione di free software

Free software è un termine inglese che indica un programma che può essere liberamente
usato, copiato e modificato, così come distribuito nella sua versione originale o in una
modificata senza restrizioni, tranne quella di garantire che anche altri possano usufruire
delle stesse libertà.

Per dirla con le parole di Richard Stallman, fondatore della Free Software Foundation, "
[f]ree software is a matter of liberty, not price. To understand the concept, you should
think of free as in free speech, not as in free beer".16 Per questo motivo, si usa talvolta
anche la definizione software libre o libre software.17

Un "programma libero" può essere distribuito gratuitamente, ma non necessariamente


deve: "[r]edistributing free software is a good and legitimate activity; if you do it, you
might as well make a profit from it". In pratica, è delegata al singolo (e alle leggi della
domanda e dell’offerta) la determinazione di un prezzo per la redistribuzione del
programma, specificando che è legittimo ottenere profitti e che questi possono essere
anche investiti da chi li ottiene nello sviluppo di ulteriori software liberi.18

Per determinare quali programmi possono essere considerati free (e di conseguenza,


quali licenze libere sono compatibili con l’approccio descritto), Stallman pubblicò nel
1986 la Free Software Definition, con la quale si individuano le quattro "libertà
essenziali" che connotano i programmi "liberi":19

0) libertà di utilizzare il programma per qualsiasi scopo;

1) libertà di studiare come funziona il programma, adattandolo alle proprie necessità;

2) libertà di redistribuire copie "so you can help your neighbor";

3) libertà di distribuire le versioni modificate, così che tutta la comunità ne possa trarre
beneficio.

Sia nel caso della "libertà 1" che della "libertà 3", l’accesso al codice sorgente del
programma è un prerequisito fondamentale. Così come, affinché queste quattro libertà
siano rispettate, "they must be permanent and irrevocable as long as you do nothing
wrong",20 ossia che possono essere revocate in presenza di una violazione dei termini
d’uso.

2.1.4. La nozione di open source


Open source è un termine inglese che indica, secondo la definizione ufficiale della Open
Source Initiative, "a development method for software that harnesses the power of
distributed peer review and transparency of process".21

La metodologia qui descritta era già in uso negli anni ’50 e ’60 nelle Università
statunitensi, che all’epoca erano di fatto le uniche produttrici di programmi per
computer. Dal momento che si trattava di prodotti di ricerca, i codici sorgenti22 dei
programmi venivano liberamente allegati al programma dagli stessi
ricercatori/programmatori. In questo modo, chiunque avesse riscontrato un
malfunzionamento o avesse voluto aggiungere una nuova funzionalità ritenuta
necessaria, avrebbe avuto già a disposizione le "istruzioni di base" per poterlo fare.

La tendenza iniziò a invertirsi verso la fine degli anni ’60 fino ad annullarsi quasi
completamente negli anni ’80, quando le aziende private si sostituirono alle Università
nella produzione di programmi e brevetti e licenze d’uso restrittive diventarono la
norma. Nonostante tutto, la prassi di scambiare i codici sorgenti dei programmi restò in
vita, sebbene limitata a piccole comunità di programmatori.

Nel 1991, con la nascita del sistema operativo Linux, il metodo "open" riacquistò man
mano vigore, sfruttando anche lo slancio fornito dal movimento dei free software. Nel
1998, Bruce Perens e Eric S. Raymond fondarono la Open Source Initiative (OSI), una
associazione per promuovere i programmi open source, diventata in breve una delle
organizzazioni di riferimento nell’area.

L’associazione pubblicò la Open Source Definition,23 con la quale si individuano i dieci


criteri alla base della filosofia open source:24

1) Libera distribuzione: non possono essere previste restrizioni alla libera diffusione (a
pagamento o gratis) dei programmi;25

2) Pubblicità del codice sorgente: il programma deve sempre includere il codice


sorgente, ovvero, quando ciò non sia possibile, essere reso pubblico e scaricabile via
Internet e formulato in un modo comprensibile;26

3) Lavori derivati: deve essere prevista la facoltà di poter modificare il programma e di


poter distribuire tali modifiche secondo i termini della licenza originale;27

4) Integrità del codice sorgente: è ammessa la non modificabilità del codice sorgente
solo se è permesso rilasciare eventuali modifiche a parte attraverso le c.d. patch,28
facendo salva la possibilità di distribuire versioni modificate del programma;29

5) Divieto di discriminazione verso persone o gruppi: non può essere operata alcuna
forma di discriminazione nella distribuzione del programma, anche se la licenza può
avvertire della presenza di determinate limitazioni derivanti dalle norme vigenti
all’interno del Paese e/o dalle specifiche restrizioni imposte da un Paese nei confronti di
un altro Paese;30

6) Divieto di restrizioni riguardo i campi di utilizzo: non può essere operata alcuna
forma di divieto di utilizzo di un dato programma in un dato ambito;31

7) Distribuzione della licenza: i diritti connessi al programma devono potersi applicare


anche a coloro i quali il programma è redistribuito senza licenze addizionali;32

8) Divieto di licenza specifica: non può essere applicata una licenza specifica ad un
programma distribuito in un pacchetto ("distribuzione") più ampio di programmi, ma va
applicata la licenza del pacchetto da cui è stato tratto il programma;33

9) Divieto di contaminazione: la licenza si applica solo al programma così distribuito e


non può applicarsi anche agli altri programmi eventualmente presenti sul medium
utilizzato per la redistribuzione;34

10) Neutralità tecnologica: la licenza non può prevedere alcuna misura riguardo
qualsivoglia tecnologia o modalità di interfaccia.35

Note

1. ↑ What is Copyleft?, Free Software Foundation (ultimo aggiornamento: 8 gennaio


2010). Disponibile al sito: http://www.gnu.org/copyleft/copyleft.html.
2. ↑ Li-Chen Wang, "Palo Alto Tiny BASIC", in Dr. Dobb’s Journal of Computer
Calisthenics & Orthodontia, Running Light Without Overbyte, Vol. 1, n. 5, maggio
1976, pag. 12.
3. ↑ È opinione diffusa che il termine left sia da intendere anche come participio
passato del verbo to leave, "lasciare". Da questa interpretazione, è derivata la
locuzione italiana di "permesso d’autore", che spesso viene usata dai commentatori
come traduzione di copyleft. Questa interpretazione, per quanto efficace nel
"rendere l’idea", non è però da considerarsi perfettamente corrispondente al
concetto espresso in inglese, pertanto viene qui citata solo per completezza di
informazione.
4. ↑ Tali licenze possono assumere, a seconda dell’autore, nomi anche estremamente
diversi fra loro (alcuni esempi: licenze free software, licenze open source, licenze
copyleft, licenze F/OSS, licenze FLOSS), tutti comunque chiaramente riconducibili
al concetto qui espresso. Per comodità, qui si utilizzerà la definizione di "licenza
libera".
5. ↑ Il termine "licenza" è da intendersi come traduzione letterale del termine inglese
license, col quale appunto si intendono le licenze d’uso.
6. ↑ Per "browse-wrap licence" si intende una licenza d’uso i cui termini e condizioni
vengono messi a disposizione dell’utente finale attraverso un collegamento
ipertestuale (link). L’uso o anche solo la visita del sito linkato per poter scaricare
e/o acquistare il prodotto "è considerato una manifestazione di assenso ai termini
ivi contenuti". Cfr. N. Boschiero, "Le licenze F/OSS nel diritto internazionale
privato: il problema delle qualificazioni", in L.C. Ubertazzi (a cura di), AIDA -
Annali italiani del diritto d’autore, della cultura e dello spettacolo, Milano, Vol.
XIII, 2004, pag. 202.
7. ↑ S. Aliprandi, Teoria e pratica del Copyleft, Rimini, 2006, pag. 15.
8. ↑ M. Bertani, Guida alle licenze di software libero e open source, Milano, 2004,
pag. 77.
9. ↑ Per un esame delle principali licenze libere, cfr. infra, par. 2.4. "Panoramica delle
principali licenze copyleft". Sulla Creative Commons in particolare, cfr. infra, par.
2.5. "Le licenze Creative Commons".
10. ↑ N. Boschiero, op. cit., pag. 202.
11. ↑ Per quel che riguarda l’Italia, fa fede l’art. 1322 c.c.: "Le parti possono
liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Le
parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una
disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela
secondo l’ordinamento giuridico". In merito, nota Sanseverino: "La lettera dell’art.
1322 c.c. pone come unico limite che i contratti siano diretti a realizzare interessi
meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, e non può, certamente, ritenersi che
sia meritevole di tutela solo ciò che è direttamente oneroso. Ne consegue che, in
astratto, il modello di licenza [libera] ben possa rientrare nell’ampio alveo
dell’autonomia contrattuale proprio in ragione della ricostruita e fondata
meritevolezza degli interessi cui è diretta". Cfr. G. Sanseverino, Le licenze free ed
open source, Napoli, 2007, pag. 61.
12. ↑ S. Aliprandi, op. cit., pag. 31.
13. ↑ Cfr. N. Boschiero, op. cit., pag. 183.
14. ↑ Per "proprietario" si intende materiale coperto da copyright. La definizione è
largamente in uso nel mondo open source e per comodità sarà usata anche in questa
analisi.
15. ↑ Nota Giannelli che "il meccanismo adoperato è pur sempre fondato [...]
sull’utilizzo di una serie di prerogative del diritto d’autore". Da ciò deriva che "il
sistema di licenze non comporta o non dovrebbe comportare abdicazione dai diritti
morali che restano pur sempre in capo all’autore; [...] pacificamente considerati
diritti irrinunciabili, imprescrittibili e intrasmissibili e, come tali, non oggetto di
negoziazione". Cfr. G. Giannelli, "Open source e diritti morali", in M. Bertani (a
cura di), Quaderni di AIDA, n. 13, Milano, 2005.
16. ↑ The Free Software Definition, Free Software Foundation (ultimo aggiornamento:
30 dicembre 2009). Disponibile al sito: http://www.gnu.org/philosophy/free-
sw.html.
17. ↑ Utilizzando l’aggettivo francese libre, infatti, si evita di cadere nella ambivalenza
del termine inglese free, che può significare tanto "libero" quanto "gratuito".
18. ↑ Selling Free Software, Free Software Foundation (ultimo aggiornamento: 7
gennaio 2010). Disponibile al sito: http://www.gnu.org/philosophy/selling.html.
19. ↑ Le definizioni della Free Software Definition sono aggiornate alla versione 1.90,
rilasciata il 30 dicembre 2009 e disponibile al sito:
http://www.gnu.org/philosophy/free-sw.html. La numerazione utilizzata è fedele
alle indicazioni della definizione stessa.
20. ↑ The Free Software Definition, op. cit. Riguardo questo punto, abbastanza
controverso, cfr. infra, par. 2.4.1. "La GNU General Public License".
21. ↑ Definizione tratta dalla pagina principale della Open Source Initiative, disponibile
al sito: http://www.opensource.org/.
22. ↑ Per una definizione di "codice sorgente", cfr. infra, nota 12.
23. ↑ La Open Source Definition, disponibile al sito http://opensource.org/docs/osd, si
basa largamente sulle Debian Free Source Guidelines (ossia sulle linee guida del
progetto Debian), che a loro volta si basano sulla Free Software Definition.
24. ↑ Le annotazioni di seguito ai criteri sono delle rielaborazioni sintetiche basate sulla
(o citazioni della) versione 1.9 commentata della Open Source Definition,
disponibile al sito: http://www.opensource.org/docs/definition.php.
25. ↑ Nota la OSI che, così facendo, si elimina "the temptation to throw away many
long-term gains in order to make a few short-term sales dollars", aggiungendo che
in caso contrario "there would be lots of pressure for cooperators to defect".
26. ↑ Il riferimento alla "forma comprensibile" assume particolare rilievo, dal momento
che non è ammesso pubblicare codici sorgenti "oscuri", ossia formattati in modo
tale da risultare difficilmente o non modificabili da altri utenti. La OSI nota
lapidariamente: "Since our purpose is to make evolution [of these programs] easy,
we require that modification [should] be made easy [too]".
27. ↑ Questo principio è fondamentale, se si considera che la libera sperimentazione
delle modifiche è alla base del processo di revisione paritaria indipendente, a sua
volta in grado di garantire correzioni ed evoluzioni rapide del programma.
28. ↑ Per "patch" si intende un file eseguibile creato per risolvere uno specifico errore
di programmazione, che impedisce il corretto funzionamento di un programma o di
un sistema operativo.
29. ↑ Il criterio ha due scopi. Il primo è quello di garantire, da un lato, la corretta
attribuzione della paternità delle modifiche e, dall’altro, la possibilità per l’utente
di ottenere assistenza da parte dell’autore. Il secondo è quello di separare la
versione "base" da quella "modificata", rendendo più semplice l’eventuale ripristino
della versione gradita all’utente.
30. ↑ La OSI ricorda che una licenza pienamente compatibile con la Open Source
Definition può avvertire gli utenti di tali restrizioni e ricordare loro che sono
obbligati a seguire comunque le norme del proprio Paese. Tuttavia, da questo non
discende l’obbligo di incorporare tali restrizioni. A tal proposito, commenta
Ziccardi: "I programmatori non hanno il potere di eliminare o di aggirare queste
restrizioni, ma quello che possono e devono fare è rifiutare di imporle come
condizioni d’uso del programma. In tal modo, le restrizioni non influiranno sulle
attività e sulle persone al di fuori della giurisdizione degli Stati che applicano tali
restrizioni". Cfr. G. Ziccardi, Il diritto d’autore nell’era digitale, Milano, 2001,
pag. 233.
31. ↑ La ratio di questo criterio è impedire che un programma open source non possa
essere usato anche per opere commerciali, rimarcando l’attitudine aperta e tutt’altro
che avversa a chi opera nel settore commerciale.
32. ↑ Questo criterio è pensato per impedire che si possa interrompere gli effetti
virtuosi della revisione paritaria diffusa e della trasparenza delle modifiche, magari
imponendo clausole che violano questi due principi e limitando, dunque, i diritti
degli utenti.
33. ↑ Anche questo criterio è pensato con la stessa ratio del precedente, applicandosi
però non agli utenti ma alle singole componenti di un’unica "distribuzione", ossia di
un pacchetto preconfigurato di programmi.
34. ↑ Apparentemente in contrasto con quanto statuito dai due precedenti criteri, è
invece un principio che rimarca ancora una volta il diritto dell’autore "to make their
own choices about their own software". Questo permette di tutelare, dunque, la
scelta di un programmatore di distribuire il proprio programma con una licenza
libera diversa da quella scelta da un altro programmatore, nonostante (per esempio)
i due programmi siano distribuiti sullo stesso supporto.
35. ↑ Il criterio, aggiunto in una stesura successiva rispetto a quella originale, è inteso a
regolare i rapporti con quelle licenze che richiedono un gesto esplicito di
accettazione dei termini d’uso (c.d. click-wrap licences, la cui definizione è data da
N. Boschiero, op. cit., pagg. 201-202) e che, dunque, "may conflict with important
methods of software distribution such as FTP download, CD-ROM anthologies, and
web mirroring" - aggiungendo che potrebbero anche "hinder code re-use". Pertanto,
in questi casi devono essere previste la possibilità di distribuire il programma anche
con modalità diverse dalla click-wrap e di utilizzarlo anche su piattaforme che non
supportano quest’ultima modalità.
2.2.1. In mezzo al guado

Parlare di copyleft implica anche l’analisi (che sarà condotta nel paragrafo successivo)
della storia dei programmi e dei progetti nati da questa filosofia, inizialmente legata
all’ambito informatico e solo più recentemente ampliatasi alle espressioni letterarie ed
artistiche.

L’ampliamento del campo d’azione, tuttavia, non ha intaccato il principio cardine di


questo approccio: il passaggio da un "percorso lungo", in cui "i creatori non
raggiungevano il loro pubblico, se non appoggiandosi ad un’impresa"1 che permettesse
loro di poter pubblicare il proprio prodotto, ad un "percorso breve", dove l’autore di
un’opera possiede già la capacità di sfruttare un mezzo (Internet) per poter pubblicare (e
pubblicizzare) autonomamente il proprio prodotto, senza dover ricorrere ad un
intermediario.

Indubbiamente, questo "percorso breve" è figlio della rivoluzione digitale in corso dagli
anni ’80: come si accennava nell’introduzione a questa analisi, la crescente
velocizzazione dei processi produttivi dovuta all’uso di tecnologie informatiche sempre
più potenti ha "naturalmente" prodotto la necessità di ridurre ulteriormente i "tempi
morti" della produzione.

Come tutte le transizioni, questa rivoluzione impone la riconsiderazione di certi passaggi


produttivi, i quali da un lato non possono più essere considerati completamente
"efficienti", ma che allo stesso tempo ormai sono ben sedimentati nel nostro modus
operandi. Non va però sottovalutato come la (legittima) tutela di questo modus operandi
nasca anche dalla (ancor più legittima) "volontà di sopravvivenza" dell’intermediario,
per esempio delle emittenti radiotelevisive e delle case editrici, discografiche e
cinematografiche.

La paura di questi attori è un sentimento naturale poiché, come efficacemente sintetizza


Barlow nel suo famosissimo saggio Selling Wine Without Bottles: "[s]ince we don’t have
a solution to what is a profoundly new kind of challenge, and are apparently unable to
delay the galloping digitization of everything not obstinately physical, we are sailing
into the future on a sinking ship. This vessel, the accumulated canon of copyright and
patent law, was developed to convey forms and methods of expression entirely different
from the vaporous cargo it is now being asked to carry. It is leaking as much from within
as without". Il rischio della produzione di beni immateriali, prosegue Barlow, è che
venga a mancare ogni possibilità di corrispondere un equo compenso all’autore, di fatto
ponendo le basi per un futuro di "furor, litigation, and institutionalized evasion of
payment except in response to raw force".2

Va da sé che considerare auspicabile quanto paventato da Barlow, ossia il collasso sic et


simpliciter dell’attuale assetto legislativo e, di conseguenza, degli attori che su questo si
basano per tutelare i propri diritti è un estremo francamente assurdo – che, logicamente,
nessuno all’interno del mondo copyleft si sentirebbe di appoggiare.

Il nodo è un altro. Come suggerisce l’adagio, est modus in rebus: esiste un modo con cui
far valere le proprie ragioni, senza per questo cadere nel torto o apparire come
intenzionati solo a mantenere la propria posizione di privilegio, sancita e legittimata
dalla legge.

2.2.2. Eccessi nella tutela del copyright

Ad essere sempre più criticato è il modo scelto da molte imprese per difendersi: anziché
accettare il dato di fatto di una tendenza incontrovertibile e adeguarsi alla necessità di
rinnovarsi per poter continuare a restare sul mercato, si preferisce – per utilizzare una
terminologia scacchistica – l’arrocco in difesa, richiedendo e ottenendo un
rafforzamento dei termini di protezione delle opere e procedendo con costose (e non
sempre efficaci) azioni legali, perfino di tipo penale, contro chi viola le norme sul
copyright.3

È stato comunque notato come l’inasprimento dei metodi con cui si perseguono i
"pirati", in realtà, non porti affatto a recuperare quei profitti che si intendono
illegalmente sottratti dalle attività di contraffazione, anzi. "Le verifiche empiriche
mostrano che [...] ciò in molti casi si traduce semplicemente nell’abbandono di consumi
e mercato"4 da parte di chi viene perseguito, ossia nel dirottare altrove le proprie
intenzioni di spesa.

A questo, si aggiunge il finanziamento, da parte delle major, della ricerca nel campo del
Digital Rights Management (DRM), ossia nel campo delle nuove tecnologie volte ad
impedire o limitare la possibilità di copiare un’opera, soprattutto in ambito musicale.
Tentativi questi che, al pari delle altre iniziative, non hanno portato i frutti sperati e che,
anzi, hanno causato in taluni casi effetti diametralmente opposti a quelli ricercati.

Il caso più eclatante fu quello che coinvolse la Sony BMG nel 2005, accusata di aver
inserito un programma DRM "nascosto" in circa un centinaio di titoli musicali. Già in
passato, un paio di CD prodotti dalla casa discografica prevedevano una limitazione (di
cui però l’utente finale era avvertito) di questo genere. Inoltre, la stessa aveva già
integrato nei propri CD un particolare software di riproduzione musicale, la cui
installazione sul computer era obbligatoria qualora si volesse utilizzare il proprio PC per
ascoltare quel CD e che limitava a tre le copie possibili dello stesso.

La prima denuncia risale al 31 ottobre 2005, da parte del programmatore ed ingegnere


elettronico della Microsoft Mark Russinovich, che scoprì la presenza di un programma
DRM sul proprio PC, apparentemente auto-installatosi a sua insaputa attraverso la
riproduzione di un CD prodotto dalla Sony BMG.

In seguito, si scoprì che i programmi DRM utilizzati, Extended Copy Protection (XCP) e
MediaMax CD-3, erano in effetti programmi che si auto-installavano sul computer nel
momento stesso in cui il CD veniva inserito per la prima volta – in assenza di adeguata
segnalazione della loro presenza e, dunque, di assenso esplicito dell’utente finale
all’installazione degli stessi.

I programmi venivano poi considerati come "file nascosti" dal sistema, ne rallentavano il
funzionamento e avrebbero potuto generare improvvisi malfunzionamenti. Soprattutto,
generavano notevoli falle nella sicurezza del computer, facilmente sfruttabili da virus5 e
malware6 – cosa che poi puntualmente avvenne.7 Infine, il programma non poteva essere
disinstallato, se non con procedure che avrebbero potuto compromettere il sistema.
Russinovich lo definì senza mezzi termini "a clear case of Sony taking DRM too far".8

Il 3 novembre, Sony BMG fu costretta a rendere disponibile un software per poter


disinstallare i programmi DRM illecitamente installati,9 che però le attirò nuove critiche
per la farraginosità delle procedure di richiesta e per la reale efficacia del programma.10
Il 15 novembre, la casa discografica annunciò il ritiro dal commercio di tutti i CD che
contenevano quei programmi, così come forme di sostituzione e/o rimborso per chiunque
li avesse già comprati.11 Queste azioni non la misero comunque al riparo dai vari ricorsi
legali che vennero intentati e che si conclusero nella totalità dei casi con la condanna ad
un risarcimento, nemmeno tanto simbolico, da parte di Sony BMG a tutte le persone
danneggiate.12

Proprio sulla scorta di quanto avvenuto, i docenti dell’Università di Princeton John


Halderman e Edward William Felten effettuarono una ricerca sulle tecnologie DRM,
arrivando a delle conclusioni molto nette: "the DRM design will not necessarily serve the
interests of copyright owners, not to mention artists", poiché "DRM systems [...] make no
pretense of enforcing copyright law as written, but instead seek to enforce rules dictated
by the label’s and vendor’s business models. These rules, and the technologies that try to
enforce them, implicate other public policy concerns, such as privacy and security".
Inoltre, "[b]ad DRM design choices can seriously harm users, create major liability for
copyright owners and DRM vendors, and ultimately reduce artists’ incentive to
create".13

2.2.3. Le critiche all’attuale modello di tutela del copyright

Il caso appena presentato, ad onor del vero, rappresenta un tentativo spintosi "troppo
oltre" nella difesa delle legittime prerogative dell’industria informatica, delle emittenti
radiotelevisive e delle case editrici, discografiche e cinematografiche. Tuttavia, questo
non impedisce di riconoscere realisticamente l’esistenza di difetti nel modello copyright
e di valutarne gli effetti in termini economici, così come di circolazione delle idee.

I difensori del copyright lo ritengono l’unico metodo in grado di favorire in maniera


efficace l’innovazione e la ricerca: esso garantisce, da un lato, gli investimenti e i
finanziamenti necessari e, dall’altro, un certo margine di guadagno a tutti gli attori
coinvolti – non ultima la società che beneficia di nuove opere ed invenzioni.

Nella pratica, però, possono verificarsi situazioni completamente diverse, nelle quali
l’applicazione troppo restrittiva di queste norme può rivelarsi dannosa per le dinamiche
del mercato, determinando una serie di comportamenti inefficienti.

Gli economisti Antonella Ardizzone e Giovanni Ramello hanno individuato tre critiche
al sistema del copyright,14 che per comodità saranno analizzate separatamente. Esso
potrebbe determinare:

1) un fenomeno di inaridimento o comunque di "freno" alla creatività, sia attraverso


l’aumento dei costi della produzione che attraverso la limitazione al bagaglio di idee a
cui si può attingere;

2) una sperequazione nella remunerazione degli autori ed al contempo il rischio di


creazione di un oligopolio dal lato della produzione editoriale;

3) un processo di selezione di nuovi strumenti produttivi effettuato sulla base della


capacità di rafforzare la posizione dominante di chi li seleziona, piuttosto che sul reale
grado di benefici e profitti che possono produrre anche per la società.

2.2.3.a) Il copyright come "freno" alla creatività

Si può ritenere che la produzione di nuovi contenuti "è per sua natura incrementale, in
quanto trova fondamento e ispirazione nelle opere precedenti e nel contesto culturale di
riferimento. Spesso gli autori aggiungono una nuova riflessione ad idee preesistenti, le
riorganizzano, le imitano o le copiano per giungere ad un risultato inedito".15

Lawrence Lessig, docente dell’Università di Stanford e fondatore della Creative


Commons Foundation, nota come la fortuna di Walt Disney si sia basata proprio su
questo processo: Steamboat Willie, il primo cortometraggio animato in cui apparve
Topolino, in realtà era una parodia di Steamboat Bill, Jr., ultimo film del noto attore e
cascatore hollywoodiano Buster Keaton.

"Questo «prendere in prestito» – continua Lessig – non era affatto raro, né per Disney
né per l’industria dei cartoni animati. Disney rifaceva sempre il verso ai lungometraggi
di maggiore successo dei suoi giorni".16 E non fu il solo episodio: larghissima parte dei
lungometraggi prodotti dalla Walt Disney Company si basano su o sono riadattamenti di
favole, leggende ed opere letterarie del passato (Biancaneve, Pinocchio, Alice nel Paese
delle meraviglie, Robin Hood, La spada nella roccia, Il libro della giungla...).

Poiché dunque la creatività nelle c.d. arti liberali non nasce quasi mai ex nihilo,
l’imposizione di un prezzo sull’opera "ispiratrice" aumenta ipso facto il costo di
produzione dell’opera "derivata", che a sua volta si scaricherà sul prezzo proposto
all’utente finale. E più sono i soggetti coinvolti, più "aumenta l’onere che i creatori
devono sostenere per [...] riunire i singoli diritti", aumentando dunque ulteriormente i
costi di produzione e limitando dunque "l’accesso all’attività creativa solo per coloro
che hanno risorse sufficienti per sostenerli (non sempre i creatori più efficienti) e
addirittura scoraggiarla".17

Lessig cita come esempio di questo fenomeno l’iniziativa di una azienda, la Starwave,
che nel 1993 era intenzionata a promuovere l’immissione sul mercato dei CD-Rom
attraverso una serie di retrospettive sui più grandi attori di Hollywood. La realizzazione
della prima retrospettiva, che avrebbe visto protagonista Clint Eastwood, richiese circa
un anno di lavoro, consistente perlopiù nel rintracciare i legittimi detentori dei diritti di
sfruttamento commerciale su sceneggiature, spezzoni di film, locandine, manifesti ed
altro materiale – "e neppure allora eravamo sicuri che fosse tutto a posto", ammise
l’ideatore del progetto, Alex Alben.18

Va da sé che un lavoro del genere può essere effettuato solo da persone che hanno una
struttura simile a quella della Starwave alle spalle – struttura che, comunque, non
garantisce affatto la possibilità di raggiungere lo scopo che ci si prefigge, poiché il vero
problema è dato dalla dipendenza dai desiderata dei detentori dei diritti.

Come lo stesso Alben (sapientemente provocato da Lessig) afferma, l’assenza di un


efficiente meccanismo di equo compenso che permettesse di pianificare in anticipo le
spese da sostenere è un punto che può fare la differenza, in iniziative del genere.19
Rileva notare anche come Alben sia stato aiutato dalla disponibilità di alcuni fra i
soggetti interpellati – circostanza che non può essere data per scontata.20

2.2.3.b) Il copyright come "ostacolo" al libero mercato delle idee

Gli oligopoli sono generalmente diffusi nei mercati dell’editoria e dell’informazione,


anche attraverso la concentrazione di più case editrici o testate giornalistiche nelle mani
di pochi gruppi, i quali risultano poi detenere quote importanti di mercato. Un esempio è
dato dal mercato dell’industria musicale, dove le "Big Four" (ossia le quattro principali
case discografiche: Universal Music Group, Sony Music Entertainment, Warner Music
Group e EMI) detengono complessivamente l’87,8% del mercato.21

Una tale conformazione del mercato genera numerosi effetti perversi nell’allocazione
delle risorse. Innanzitutto, spinge le aziende dominanti ad adottare comportamenti anti-
concorrenziali, quali l’acquisizione di potenziali concorrenti "pericolosi" o di ampie
quote dei canali di distribuzione e il ricorso a pratiche volte a danneggiare i concorrenti
più deboli e scoraggiare l’entrata nel mercato di nuovi attori.

Queste pratiche sono talvolta in opposizione alle normative anti-trust nazionali, talvolta
derivanti proprio dalla posizione di dominanza, assunta sul mercato, come la possibilità
di poter investire molti più soldi nel battage pubblicitario o nell’acquisizione di titoli di
sicuro successo, oppure ancora la possibilità di poter disporre di propri canali di
distribuzione in modo da limitare la distribuzione dei prodotti della concorrenza.

Gli effetti si ripercuotono sugli autori messi sotto contratto dalle due categorie di attori.
Le indagini condotte "su alcuni mercati artistici, anche in Italia, confermano quanto
affermato, mostrando da un lato che le remunerazioni [del diritto d'autore] procurano
redditi significativi ad un numero esiguo di autori, e dall’altro che esiste una certa
inerzia in tali redditi, per cui nei vari anni sono sempre gli stessi autori a ricevere
redditi rilevanti, mentre il ricambio di tale popolazione è minimo".22

L’asimmetria nella retribuzione degli attori insider e di quelli outsider genera, inoltre,
una tendenza dei primi a disperdere ulteriormente le risorse a propria disposizione,
attraverso una serie di investimenti improduttivi (magari sostenuti da sussidi statali)
effettuati al solo scopo di rafforzare la propria posizione dominante e ricercare
dinamiche di rent-seeking.

In definitiva, un mercato distorto da posizioni dominanti risulta essere inefficiente non


solo in termini economici, ma anche in termini qualitativi, dal momento che, in
condizioni del genere, le idee che hanno la maggior probabilità di diffondersi sono quelle
legate agli insider, laddove quelle degli outsider si troveranno a dipendere dalla
"beneficenza" dei primi.23

Ma un mercato del genere è anche soggetto ad un elevato rischio di sclerotizzazione, tale


da cristallizzarsi in configurazioni inefficienti ed obsolete. Si è così incapaci di trarre
vantaggio, ad esempio, dalle strategie di unbundling, che permettono di parcellizzare le
opere e di venderle in parti separate (una canzone anziché l’intero disco, un articolo
anziché l’intera rivista, un capitolo anziché l’intero libro e così via).

Non a caso, l’esempio di Apple e di iTunes è lampante: è toccato ad una azienda che non
aveva rapporti col mondo della musica rompere gli schemi e dare ad un fenomeno come
quello del download illegale di musica una conformazione legale, a pagamento e
perdipiù senza fare ricorso al DRM. Seguendo questo approccio, oggi Apple detiene
circa i due terzi del mercato.24

2.2.3.c) Il copyright come "causa" di selezione avversa


Il controllo dei contenuti e una conformazione oligarchica o comunque "chiusa" del
mercato possono, infine, influenzare anche le dinamiche di rinnovamento tecnologico
dei processi produttivi. Un caso di "selezione avversa" riguarda il Digital Audio Tape
(DAT), una tecnologia di registrazione digitale su microcassetta, derivata da quella delle
videocassette, sviluppata dalla Sony verso la fine degli anni ’80.

Introdotto inizialmente nel 1987 in Giappone ed Europa, il DAT venne fortemente


osteggiato negli Stati Uniti della Recording Industry Association of America (RIAA),
poiché con questa nuova tipologia di registrazione era possibile ottenere una copia della
stessa qualità della cassetta originale, al contrario di quanto avveniva invece con i
normali supporti analogici – con notevoli ripercussioni, dunque, sul fenomeno della
"pirateria musicale".

Al riguardo, rileva notare come in passato "[n]el campo della musica registrata, la
pirateria è stata de facto ben accetta nel contesto analogico perché consentiva alle
imprese [...] di ottenere sussidi incrociati dalla vendita di supporti vergini e apparecchi
di registrazione prodotti, e inoltre svolgeva una funzione promozionale al disco
(«sampling effect») e introduceva comunque i consumatori meno ricchi al consumo di
musica registrata, permettendo poi una successiva loro trasformazione in acquirenti di
prodotti legali".25 Va da sé che il "sampling effect" era, dunque, tollerato anche perché la
qualità della registrazione pirata era inferiore all’originale.

Dal momento che il DAT permetteva di colmare questa differenza di qualità, l’industria
musicale statunitense iniziò una serie di trattative con la Sony ed altre aziende
produttrici affinché venissero messi a punto meccanismi per impedire copie digitali non
autorizzate di eventuali titoli prodotti con la tecnologia DAT. La RIAA, in particolare,
mise in atto un’intensa opera di lobbying presso il Congresso degli Stati Uniti, al fine di
ottenere un provvedimento che regolamentasse il sistema.

Nel 1992, venne approvato (con l’accordo di tutte le parti interessate) l’Audio Home
Recording Act (AHRA), che stabiliva il pagamento di una tassa da parte di produttori ed
importatori di supporti digitali del 2% per singolo supporto. Il ricavato avrebbe
costituito un fondo con il quale si sarebbe finanziato il lavoro di autori, musicisti,
scrittori e anche (per la prima volta) delle etichette musicali. L’AHRA fu abbastanza
restrittivo da rallentare l’adozione del DAT, limitandone la diffusione solo agli ambienti
professionali ed aiutandone la marginalizzazione a favore dei CD. Nel dicembre 2005,
infine, la Sony interruppe definitivamente la produzione dei supporti DAT.

Qualcosa di simile è stato tentato nei confronti delle webradio: la RIAA nel 1995 spinse
per far approvare una regolamentazione particolarmente restrittiva in materia, in base
alla quale le radio che trasmettono via Internet devono corrispondere delle royalty anche
all’artista – al contrario delle radio "terrestri", che continuano ad essere dispensate
dall’obbligo.
"Questo peso finanziario non è cosa da poco. Secondo le stime di William Fisher,
professore di legge ad Harvard, se un’emittente su Internet distribuisse musica di
successo senza inserzioni pubblicitarie a (mediamente) diecimila ascoltatori, per
ventiquattro ore al giorno, i diritti che dovrebbe pagare agli artisti, complessivamente
ammonterebbero a oltre un milione di dollari l’anno".26

In aggiunta, le webradio dovevano indicare una lunga serie di dati riguardo la


trasmissione di ciascuna canzone. L’obbligo fu poi successivamente rimosso e le tariffe
riconsiderate al ribasso, ma resta comunque una disparità di trattamento che penalizza le
emittenti via Internet. Il motivo di questa differenza è presto detto: in un incontro fra
alcuni dirigenti della Real Networks ed alcuni esperti della RIAA, questi ultimi hanno
dichiarato che "un modello industriale con migliaia di emittenti web non è esattamente
quello che ci immaginiamo; pensiamo ad un’industria con cinque o al massimo sette
grandi società in grado di pagare tariffe elevate, e così avremo un mercato stabile,
prevedibile".27

2.2.4. I vantaggi dell’apertura al copyleft

In opposizione a questi schemi "chiusi", è stato rilevato da giuristi ed economisti come


garantire oggi un certo grado di permissività riguardo la tutela dei diritti di sfruttamento
commerciale, nei limiti in cui ciò non si riveli eccessivamente pregiudizievole degli
interessi del detentore, si traduca domani in un considerevole aumento dei profitti. La
chiave è, ancora una volta, puramente economica: ribaltare l’ottica per risolvere il
problema dei processi produttivi inefficienti e della "pirateria intellettuale".

Il fenomeno dell’open source e delle licenze libere costituisce una risposta a questi
problemi. Sempre più i dati empirici confermano che, attraverso la rivelazione dei propri
"segreti aziendali" a comunità composte da "anonimi", si ottengono risultati molto più
vantaggiosi rispetto a quando questi segreti vengono gelosamente tutelati.

Il decentramento dei processi di sviluppo e il processo di revisione paritaria diffusa, alla


base dell’open source, permettono di ottenere feedback più veloci e consente, agli
utilizzatori più esperti, di segnalare (ed eventualmente risolvere) errori e
malfunzionamenti con maggiore efficacia, a tutto vantaggio della funzionalità del
prodotto. Le licenze libere, in aggiunta, garantiscono modalità di uso e di diffusione più
flessibili, incentivandone l’adozione ed aumentando le possibilità di feedback.

Il caso probabilmente più eclatante – che verrà ripreso anche nel prossimo paragrafo – è
quello dell’apertura di IBM al mondo dell’open source: passando da un modello di
sviluppo estremamente accentratore e rigido ad uno aperto e dinamico, ha abbattuto i
costi, recuperato importanti fette di mercato e rafforzato la posizione nei confronti dei
principali avversari, Microsoft e Sun.28
Un altro esempio è dato proprio da Sun, che acquisì i diritti nell’agosto 1999 su
StarOffice, un pacchetto di software di produttività personale29 prodotto dalla
StarDivision. Quasi un anno dopo (luglio 2000), il codice sorgente di StarOffice fu reso
pubblico con un formato copyleft30 e venne annunciata la creazione del progetto
OpenOffice.org, con lo scopo di coagulare una comunità open source che potesse
sviluppare un pacchetto basato su un formato "aperto".

L’obbiettivo era quello di sfruttare le soluzioni sviluppate dalla comunità per migliorare
le prestazioni del pacchetto StarOffice, da cui Sun intendeva ottenere profitti sia in
termini di vendite che di fornitura di servizi di assistenza collegati: in parole povere, un
classico esempio di outsourcing. La scommessa sembra aver funzionato: OpenOffice
registra circa 130 milioni di download,31 mentre StarOffice è in vendita a costi
decisamente inferiori rispetto ad altri pacchetti "proprietari", offrendo funzionalità di
qualità simile o addirittura superiore.

La possibilità di poter usufruire di soluzioni o strumenti di qualità a costi più contenuti


genera a sua volta ripercussioni positive su tutto il sistema economico: ad esempio, per
una piccola o media impresa, che potrebbe usufruirne per abbattere i costi interni, o per i
creatori stessi di quegli strumenti, che potrebbero ricevere offerte di lavoro o di
consulenza allettanti (oltre che trarne prestigio e soddisfazione personale).

Non è vero, dunque, che solo una indistinta "collettività" sia interessata ad un simile
modello di sviluppo, né che il vantaggio di coloro che collaborano a progetti open source
siano puramente morali, per quanto è pur vero che una libera disponibilità di opere
prodotte in questo modo, che possono essere "anche di nicchia e di alta qualità, [...]
risulta funzionale anche a non accentuare l’appiattimento dei gusti e della sensibilità
degli utenti per effetto della continua stimolazione alle produzioni di massa".32

In un’ottica imprenditoriale, inoltre, ciò promuove "la vendita di [beni e] servizi


complementari o comunque l’acquisizione della conoscenza necessaria ad ampliare la
gamma dei servizi offerti o anche a raggiungere quelle fasce di domanda che si
rivolgono preferibilmente ai software diffusi secondo modalità aperta".33

Proprio questo ampliamento tanto dell’offerta, quanto del mercato stesso potrebbe
generare effetti benefici anche per i Paesi meno industrializzati: sebbene sia
eccessivamente ottimistico pensare che in questo modo essi possano completamente
recuperare il gap tecnologico che li divide dai Paesi occidentali, è ragionevole ritenere
che la fornitura di prodotti basati sulla filosofia "open" possa essere loro d’aiuto nel
colmarlo in parte.34

2.2.5. Il copyleft come approccio complementare al copyright


Esistono dunque esempi di aziende che, pure avendo rinunciato ad una parte del
controllo sulle proprie creazioni, continuano a sviluppare un modello vincente di
impresa. Tutto questo non significa, evidentemente, che "la proprietà intellettuale sia
meno rilevante tout court", ma che "le regole della sua gestione diventano più complesse
e, in generale, più permeabili perché aumenta, grazie ed a causa di Internet, la
complessità dei mercati e la velocità a cui si evolvono",35 dunque servono nuove regole
(interne ed esterne) per approcciarsi efficientemente ai nuovi modelli produttivi.

Barlow è esplicito nel condannare quella che ritiene essere l’inadeguatezza delle attuali
norme: "The laws regarding unlicensed reproduction of commercial software are clear
and stern... and rarely observed. Software piracy laws are so practically unenforceable
and breaking them has become so socially acceptable that only a thin minority appears
compelled, either by fear or conscience, to obey them".36

Oggi, nonostante i sussidi garantiti alle imprese per "compensarle" dei danni subiti dalla
"pirateria" non siano stati né oggetto di rinuncia da parte dei produttori di programmi
informatici o di opere letterarie ed artistiche, né eliminati da parte dei Governi (alcuni
dei quali, anzi, hanno preferito estenderli a nuove forme di supporti),37 il fenomeno è
decisamente meno tollerato dalle major, mentre resta nella società un atteggiamento di
comprensione (se non addirittura di solidarietà "attiva") nei confronti dei "pirati".

Sempre Barlow nota che "[w]henever there is such profound divergence between the law
and social practice, it is not society that adapts. [...] Part of the widespread popular
disregard for commercial software copyrights stems from a legislative failure to
understand the conditions into which it was inserted. To assume that systems of law
based in the physical world will serve in an environment which is as fundamentally
different as Cyberspace is a folly for which everyone doing business in the future will
pay".38 Rileva aggiungere come un "sistema di legge" complesso e affastellato di
continue aggiunte e correzioni sia ancor più inadeguato a gestire tali rapporti.39

Il copyleft appare, dunque, una soluzione praticabile (economicamente e giuridicamente)


per ridurre le distorsioni dovute ad interpretazioni troppo restrittive delle leggi sul
copyright. È, tuttavia, sbagliato pensare che "il mercato, da solo, ha trovato un correttivo
alla sfrenata corsa monopolistica verso la conquista di sempre più forti privative sulle
conoscenze e sugli strumenti che consentono di accedervi. Il realismo suggerisce
maggiore cautela".40

Sussistono, in effetti, ancora ampi margini di miglioramento riguardo la fornitura dei


servizi collegati. Ad esempio, riferendosi al problema della produzione di
documentazione e di manuali d’uso dei programmi free ed open source, Stallman
ammette senza mezzi termini: "The biggest deficiency in our free operating systems is
[...] the lack of good free manuals that we can include in our systems. Documentation is
an essential part of any software package; when an important free software package
does not come with a good free manual, that is a major gap. We have many such gaps
today".41

Mancanze di questo genere sono "normali" nelle comunità open source, dove spesso ci si
concentra sulla più "gratificante" attività di correzione dei problemi, piuttosto che sulla
lunga e tediosa stesura di documenti sul funzionamento e sul corretto uso del
programma. Scelte del genere sono dovute soprattutto alla natura stessa degli aderenti a
queste comunità, spesso volontari non pagati, e all’assenza strutturale di un "controllo
centrale" che garantisce sì flessibilità, ma può generare meccanismi di disimpegno nei
confronti delle attività noiose o a basso livello cognitivo.42

L’analisi dei costi e dei benefici, dunque, suggerisce un approccio molto più pragmatico
che non consideri il copyleft come "panacea di tutti i mali" o, addirittura, come il regime
che soppianterà completamente il copyright in un prossimo futuro. Soprattutto
quest’ultimo, estremistico obbiettivo (come notato prima) non è nelle corde della
filosofia copyleft, che peraltro rappresenta piuttosto una evoluzione del copyright verso
modalità più flessibili e "liberali".

Notano Ghidini e Falce: "In realtà, dunque, la tutela erga omnes che discende dal potere
escludente del paradigma classico rappresenta l’arsenale difensivo del modello [open
source], consentendo a questo di preservare la sua fisionomia tipicamente di rete di
licenze volontarie[, con ciò] senza degenerare nel caos di un free riding di tutti contro
tutti".43

Date queste premesse, è logico dedurne che l’adozione di un modello piuttosto che
dell’altro continuerà a dipendere unicamente dalle scelte dei singoli autori, incentivati a
"riappropriarsi" delle prerogative che spettano loro in quanto tali, e dei singoli
consumatori, che continueranno ad avere interesse ad acquistare prodotti di qualità a
prezzi competitivi.

Note

1. ↑ M. Ricolfi, Presentazione di AA.VV., Copyright digitale, Torino, 2009, pag. 1.


2. ↑ J.P. Barlow, "Selling Wine Without Bottles - The Economy of Mind on the Global
Net", 1992. Disponibile al sito:
http://w2.eff.org/Misc/Publications/John_Perry_Barlow/HTML/idea_economy_article.htm
3. ↑ A margine, rileva ricordare come questo arroccamento si concretizzi, fra l’altro,
in quella riluttanza da parte dei Paesi industrializzati, cui si è fatto accenno nel
finale del capitolo precedente, a risolvere il problema dell’esaurimento dei diritti.
Riluttanza che - è necessario ripeterlo - al momento giova solo ed esclusivamente
agli interessi dei Paesi industrializzati, rectius delle aziende di cui questi Paesi si
fanno portavoce.
4. ↑ A. Ardizzone, G.B. Ramello, "Diritto d’autore e mercato: effetti economici, rilievi
critici e novità nell’era digitale", in AA.VV., op. cit., pag. 24.
5. ↑ Per "virus" si intende, in ambito informatico, un programma in grado, una volta
eseguito, di infettare dei file in modo da riprodursi facendo copie di sé stesso,
generalmente senza farsi rilevare dall’utente.
6. ↑ Per "malware" si intende un programma creato con il preciso scopo di causare
danni, più o meno gravi, al computer su cui viene eseguito. Il termine è una
contrazione delle parole inglesi malicious ("malvagio") e software. In italiano è
detto anche "codice maligno".
7. ↑ I. Thomson, T. Sanders, "Virus writers exploit Sony DRM", Vnunet.com, 10
novembre 2005. Disponibile al sito:
http://www.v3.co.uk/vnunet/news/2145874/virus-writers-exploit-sony-drm.
8. ↑ M. Russinovich, "Sony, Rootkits and Digital Rights Management Gone Too Far",
Mark’s Blog, Microsoft MSDN, 31 ottobre 2005. Disponibile al sito:
http://blogs.technet.com/markrussinovich/archive/2005/10/31/sony-rootkits-and-
digital-rights-management-gone-too-far.aspx.
9. ↑ T. Sanders, "Sony rapped over music CD rootkit", Vnunet.com, 3 novembre 2005.
Disponibile al sito: http://www.v3.co.uk/vnunet/news/2145413/sony-rapped-rootkit-
music-cd.
10. ↑ M. Russinovich, "More on Sony: Dangerous Decloaking Patch, EULAs and
Phoning Home", Mark’s Blog, Microsoft MSDN, 4 novembre 2005. Disponibile al
sito: http://blogs.technet.com/markrussinovich/archive/2005/11/04/more-on-sony-
dangerous-decloaking-patch-eulas-and-phoning-home.aspx.
11. ↑ T. Sanders, "Sony backs out of rootkit anti-piracy scheme", Vnunet.com, 15
novembre 2005. Disponibile al sito:
http://www.v3.co.uk/vnunet/news/2146053/sony-backs-root-kit-anti-piracy.
12. ↑ La Federal Trade Commission costrinse nel 2007 la Sony BMG a pagare fino a
150 dollari per ogni PC danneggiato. In altri casi, il risarcimento variava dalla
possibilità di scaricare prodotti gratis dal sito della casa discografica a rimborsi in
denaro fino a 125 dollari.
13. ↑ J.A. Halderman, E.W. Felten, Lessons from the Sony CD DRM Episode, Center for
Information Technology Policy, Department of Computer Science, Princeton
University, 14 febbraio 2006. Disponibile al sito:
http://www.copyright.gov/1201/2006/hearings/sonydrm-ext.pdf.
14. ↑ Cfr. A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pag. 11.
15. ↑ A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pagg. 11-12.
16. ↑ L. Lessig, Cultura libera, Milano, 2005, pag. 16.
17. ↑ A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pagg. 12-13.
18. ↑ L. Lessig, op. cit., pag. 50.
19. ↑ Cfr. L. Lessig, op. cit., pag. 51.
20. ↑ È il caso del documentarista Jon Else, che si è visto negare dalla Fox il permesso
all’utilizzo di un frammento di 4,5 secondi(!) della serie animata I Simpson,
incidentalmente registrato durante le riprese di un documentario, nonostante
teoricamente si potesse fare ricorso all’eccezione del c.d. fair use prevista
dall’ordinamento statunitense. La circostanza è citata in Lessig, op. cit., pagg. 47-
49.
21. ↑ E. Christman, "2009 Sales Wrap: Transactions Up As Digital Growth Slows",
Billboard, 6 gennaio 2010. Disponibile al sito:
http://www.billboard.biz/bbbiz/content_display/industry/e3ib067cb2aa5cb826b34641dba4e
22. ↑ A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pag. 15.
23. ↑ È il caso della World Cinema Foundation, fondata nel 2007 dal celebre regista
Martin Scorsese, il cui intento è usare la notorietà dei registi affermati "per far
pressione sugli studios, ottenere i diritti dei film, oltre che trovare quei capitali e
quegli sponsor necessari ai costosi progetti di restauro" di pellicole prodotte
principalmente nei Paesi in via di sviluppo, dove mancano fondi e progetti adeguati
alla loro tutela. Cfr. G. Manin, "Scorsese: lotto per i film dimenticati", Corriere
della Sera, 23 maggio 2007. Disponibile al sito:
http://archiviostorico.corriere.it/2007/maggio/23/Scorsese_lotto_per_film_dimenticati_co_
24. ↑ "Digital Music Increases Share of Overall Music Sales Volume in the U.S.", The
NPD Group, 18 agosto 2009. Disponibile al sito:
http://www.npd.com/press/releases/press_090818.html.
25. ↑ A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pag. 19.
26. ↑ L. Lessig, op. cit., pag. 91.
27. ↑ L. Lessig, op. cit., pag. 92.
28. ↑ Un’analisi interessante del "caso IBM" è rintracciabile in D. Tapscott, A.D.
Williams, Wikinomics, Milano, 2007, pagg. 83-91.
29. ↑ Per "software di produttività personale" si intende un pacchetto di programmi che
permettono di creare documenti di testo, fogli di calcolo, grafici, presentazioni o
altri contenuti (ad esempio, i "proprietari" Microsoft Office e iWork, oppure il
pacchetto open source OpenOffice.org).
30. ↑ In particolare, vennero usate due licenze libere: la Lesser General Public License,
che sarà analizzata più in avanti, e la Sun Industry Standards Source License, creata
dalla stessa Sun e che fu poi ritirata nel 2005.
31. ↑ Dati aggiornati all’8 febbraio 2010, disponibili al sito:
http://wiki.services.openoffice.org/wiki/Market_Share_Analysis.
32. ↑ A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pag. 20.
33. ↑ G. Ghidini, V. Falce, "Open source, General Public Licence e incentivo
all’innovazione", in L.C. Ubertazzi (a cura di), op. cit., pag. 7. In tal senso, cfr.
anche M. Bertani, op. cit., pagg. 38-40.
34. ↑ Peraltro, rileva notare come questi prodotti possano, in un certo senso, aiutare i
Paesi occidentali a rispettare quegli impegni di natura pattizia che essi stessi hanno
sottoscritto nei confronti dei PVS - come, ad esempio, quelli sulla promozione ed
incoraggiamento dei trasferimenti di tecnologia (art. 66, par. 2 TRIPs) e sulla
cooperazione tecnica ed economica (art. 67 TRIPs).
35. ↑ L. Benussi, "Sulla natura economica della creatività digitale ovvero sul perché sia
essenziale condividere e riutilizzare informazioni digitali", in AA.VV., op. cit., pag.
39.
36. ↑ J.P. Barlow, op. cit.
37. ↑ È il caso, ad esempio, del recente decreto del Governo italiano che aumenta le c.d.
"misure di compenso per copia privata", ovvero le imposte gravanti sui supporti
analogici e digitali intesi alla registrazione di materiali audio e/o video
(musicassette, videocassette, CD, DVD, Blu-ray disk, etc.), e che le estende anche
alle periferiche di archiviazione di massa (chiavette USB, hard disk esterni o
integrati in telefoni cellulari o lettori multimediali o simili). Il provvedimento del
Ministero dei Beni Culturali è disponibile al sito:
http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1263481888506_d1.pdf
38. ↑ J.P. Barlow, op. cit.
39. ↑ È il caso dell’ordinamento italiano ed in particolar modo della legge 22 aprile
1941, n. 633, impietosamente analizzata e dovutamente criticata da C. Blengino,
"La tutela penale del copyright digitale: un’onda confusa ed asincrona", in AA.VV.,
op. cit., pagg. 69 e segg. Da notare come, al momento, non esista una versione
consolidata ufficiale della legge citata, nonostante le modifiche succedutesi dal
2004 ad oggi.
40. ↑ V. Zeno-Zencovich, P. Sammarco, "Sistema e archetipi delle licenze open source",
in L.C. Ubertazzi (a cura di), op. cit., pagg. 267-268.
41. ↑ R. Stallman, The GNU Project, Free Software Foundation (ultimo aggiornamento:
11 gennaio 2010). Disponibile al sito: http://www.gnu.org/gnu/thegnuproject.html.
42. ↑ Un’analisi più generale sui meccanismi interni alle comunità free software/open
source, cfr. D. Tapscott, A.D. Williams, op. cit., pagg. 311-337. Per una critica sui
difetti di queste comunità, invece, cfr. G. Sanseverino, op. cit., pagg. 36-39.
43. ↑ G. Ghidini, V. Falce, op. cit., pag. 11.
2.3.1. Il progetto GNU

Nel 1984, un giovane hacker1 del Massachusetts Institute of Tecnology (MIT), Richard
Stallman, creò un sistema operativo "libero" chiamato GNU, acronimo per "GNU’s Not
Unix" ("GNU non è Unix").2 L’idea di fondo del progetto era costituire (o meglio, ri-
costituire) una comunità di hackers che mettesse in condivisione capacità, esperienza e
creatività per produrre programmi liberi da copyright, in controtendenza rispetto alla
linea, descritta precedentemente, adottata dalle principali aziende informatiche
statunitensi.

Per far questo, Stallman decise di lasciare il MIT, definendo la decisione "necessaria"
per evitare che potesse interferire con la distribuzione di GNU come software libero e
rivendicare la proprietà del lavoro, imponendo i propri termini di distribuzione o
addirittura trasformarlo in un software "proprietario". Nonostante tutto, poté sfruttare
comunque sfruttare le attrezzature del Laboratorio Intelligenze Artificiali, grazie alla
compiacenza dell’allora responsabile.3

Il primo programma libero creato fu l’editor di testo GNU Emacs (versione libera
dell’omonimo programma della Gosling), reso disponibile inizialmente tramite i server
del MIT nel 1985 e, successivamente, su altri supporti dietro pagamento.

Si poneva, però, a questo punto il problema di come impedire che Emacs e i successivi
programmi creati dal Progetto GNU fossero trasformati in software "proprietari",
perdendo così le loro caratteristiche fondamentali: la libera modificabilità e la libera
redistribuzione.

Stallman decise dunque di usare il copyleft come metodo per preservare le sue creature.4
In pratica, avrebbe creato una licenza d’uso che avrebbe concesso a tutti il permesso di
usare, copiare e modificare il programma, di distribuire le versioni modificate – ma non
di poter aggiungere restrizioni a questi diritti.

Con l’aumentare dell’interesse verso l’iniziativa, nel 1985 venne fondata la Free
Software Foundation (FSF), alla quale vennero trasferiti tutti i diritti che riguardavano
GNU Emacs e i successivi software prodotti – o, per meglio dire, la FSF veniva
incaricata non solo della diffusione e della distribuzione dei programmi, ma anche di
verificare che la licenza d’uso ideata venisse rispettata.

I principi di questa licenza vennero poi sanciti definitivamente nel 1986, con la già citata
Free Software Definition, scritta da Richard Stallman e pubblicata dalla FSF. Da questa
deriva la GNU General Public Licence (anche chiamata GNU GPL o solo GPL),5
pubblicata nel 1989 e definita da un anonimo "la Magna Charta degli hackers".6 A
questa si aggiunsero successivamente la GNU Lesser General Public Licence (GNU
LGPL o solo LPGL, 1991)7 e la GNU Free Documentation Licence (GNU FDL o GFDL,
2000).8

Il progetto GNU però risentiva – e risente ancora oggi – di un approccio di fondo


avverso, talvolta in modi particolarmente "fondamentalisti", nei confronti di tutto ciò
che può definirsi "software proprietario". Ciò si nota in maniera decisamente evidente da
quanto Stallman scrive, rievocando le prime donazioni alla FSF di computer che
utilizzavano Unix come sistema operativo:

"As the GNU project’s reputation grew, people began offering to donate machines
running Unix to the project. These were very useful, because the easiest way to develop
components of GNU was to do it on a Unix system, and replace the components of that
system one by one. But they raised an ethical issue: whether it was right for us to have a
copy of Unix at all.

Unix was (and is) proprietary software, and the GNU project’s philosophy said that we
should not use proprietary software. But, applying the same reasoning that leads to the
conclusion that violence in self defense is justified, I concluded that it was legitimate to
use a proprietary package when that was crucial for developing a free replacement that
would help others stop using the proprietary package.

But, even if this was a justifiable evil, it was still an evil. Today we no longer have any
copies of Unix, because we have replaced them with free operating systems. If we could
not replace a machine’s operating system with a free one, we replaced the machine
instead".9

Un’altra esemplificazione di questo approccio fu la decisione di scrivere un intero


sistema operativo praticamente da zero, ossia puntare a sostituire completamente tutte le
componenti software che fanno funzionare un computer. Un obbiettivo sicuramente
molto ambizioso, ma che nonostante tutto fu quasi completamente realizzato in soli
cinque anni.

Nel 1990, infatti, larga parte delle componenti era stata "scritta", con una sola, ma
rilevantissima, eccezione: il kernel, ossia il nucleo stesso del sistema operativo, quello
che fornisce e gestisce tutte le funzioni essenziali. Il tentativo di produrne uno stabile,
che nelle intenzioni sarebbe stato chiamato GNU Hurd, non andò in porto e fu infine
abbandonato.

2.3.2. L'open source si afferma: Linux ed Apache

Il problema venne risolto grazie a Linus Torvalds, un giovane programmatore finlandese,


che iniziò "per hobby" a progettare un sistema operativo libero. Il 25 agosto 1991,
Torvalds annunciò di aver quasi completato il lavoro sul newsgroup "comp.os.minix",
chiedendo suggerimenti e consigli riguardo le caratteristiche che gli altri iscritti
avrebbero voluto vedere in un sistema operativo.10

La prima versione del suo sistema operativo, solo dopo chiamato Linux,11 fu la 0.01 e fu
rilasciata il 17 settembre 1991 con una licenza sui generis, decisa dallo stesso Torvalds:
il programma, infatti, non poteva essere utilizzato a scopi commerciali. Solo a metà
dicembre 1992, con il rilascio della versione 0.99, Linux venne rilasciato con licenza
GPL.

Questa decisione, poi definita da Torvalds "definitely the best thing I ever did",12
permise dunque l’integrazione di Linux con il sistema operativo creato da Stallman e
colleghi, ponendo le basi per la nascita da quel momento in poi di innumerevoli varianti
di sistemi operativi liberi – tutti comunque riconducibili a GNU/Linux13 o a sue
derivazioni.

Fra questi rileva ricordare: Slackware, una delle prime versioni nate ed attualmente la
più "vecchia" ancora in circolazione; Debian, la cui comunità di sviluppo deriverà dalla
FSF le proprie linee guida, che a loro volta saranno alla base della citata Open Source
Definition; Red Hat Linux, poi abbandonato nel 2004, dalla cui esperienza è poi nato
Fedora; Ubuntu, diventato la principale distribuzione.14

Lo sviluppo e l’affermazione di Linux sono legati a quelli di Apache HTTP Server, un


programma nato nel 1995 per rendere più veloce e stabile la navigazione in Internet. Il
progetto si basava su una serie di correzioni e miglioramenti di HTTP Daemon,
programma del National Center for Supercomputing Applications della Università
dell’Illinois rilasciato in pubblico dominio.

Lanciato nella sua "versione beta"15 (la 0.6.2) ad aprile 1995 e nella sua "versione
stabile"16 nel dicembre dello stesso anno, Apache divenne leader nel mercato nel giro di
appena 12 mesi – per non lasciare mai più la sua posizione di predominanza. Ad oggi,
infatti, si calcola che circa il 70% dei siti internet sia basato su server che usano
Apache.17

2.3.3. L’ingresso di IBM nel mondo open source

L’emergere di Apache ha richiamato l’interesse di un colosso del settore informatico


come IBM, entrato in crisi nei primi anni ’90 a causa della forte concorrenza di Apple e
Microsoft. Fu così che "Big Blue", nell’intento di rinnovare la sua immagine e
riconquistare fette di mercato, decise con qualche titubanza di entrare nel mondo
dell’open source.

Nel marzo 1998, alcuni rappresentanti di IBM incontrarono Brian Behlendorf, capo del
gruppo di sviluppatori di Apache. Entrambe le parti mostravano una certa diffidenza nei
confronti dell’altra: da una parte, i programmatori del software libero temevano che IBM
intendesse imporre limitazioni "proprietarie"; dall’altra, i tecnici di quest’ultima
nutrivano dubbi tecnici e legali sulla collaborazione con una comunità composta da
programmatori sparsi in tutto il mondo.

Nonostante le diffidenze, si giunse ad un accordo: IBM avrebbe preso parte alla


comunità di Apache, cedendo i propri codici sorgente e comportandosi come gli altri
componenti. Inoltre, finanziò con un modesto contributo la fondazione della Apache
Software Foundation.

Dopo appena tre mesi di collaborazione, IBM decise che tutti i suoi prodotti avrebbero
supportato Apache e, anzi, che quel programma sarebbe stato integrato nella linea
WebSphere, che ebbe un notevole successo. Fu un punto di svolta decisivo, perché gli
ottimi risultati di questa iniziativa portò il colosso informatico ad un’altra grande,
decisiva svolta: l’ingresso nella comunità di Linux.

La decisione fu motivata anche qui da necessità di mercato: i clienti richiedevano


sempre più l’uso di questo sistema operativo sui propri server, così come aumentavano i
giovani programmatori favorevoli all’open source e esperti nel campo. La comunità di
Linux, tuttavia, era estremamente più frazionata rispetto a quella di Apache, sia in
termini di singole distribuzioni, sia in termini di team specializzati nella gestione di
singoli aspetti.

IBM scelse avvedutamente "di farsi carico delle attività meno affascinanti, ma
comunque necessarie. L’azienda contribuì a rafforzare l’affidabilità di Linux attraverso
il testing del codice, la risoluzione dei difetti, la stesura della documentazione e la
cessione del proprio codice e i propri strumenti secondo i dettami dell’open source".18

Il successo di queste iniziative permise ad IBM di diventare un pilastro della comunità


open source, ma soprattutto fu il definitivo trampolino di lancio per Linux, oggi
largamente utilizzato su parecchi supporti (dai computer di bordo delle auto ai cellulari,
ai supercomputer). Ancora scarsi al momento i risultati invece sul mercato dei personal
computer, dove la quota detenuta si attesta intorno all’1%,19 anche se la crescita dei
servizi collegati è ormai stabilmente superiore al resto del mercato.

2.3.4. Il riconoscimento delle licenze libere da parte dei giudici nazionali

L’affermazione di Linux e degli altri programmi open source in ambito commerciale ha


determinato anche vari dubbi riguardo la validità delle licenze copyleft con le quali erano
distribuiti. La domanda più pressante riguardava la loro ammissibilità in giudizio,
qualora risultassero casi di violazioni di copyright.
La giurisprudenza statunitense ed europea si è trovata, nell’ultimo decennio, ad
affrontare pochi casi in materia, prevalentemente riguardanti la GPL. Tutti però
convergono sullo stesso punto: la GPL, in generale, può essere considerata una licenza
d’uso valida e, dunque, utilizzabile in sede giudiziaria. Di seguito, si citeranno
sinteticamente i due casi più emblematici.

2.3.4.a) I casi SCO v. IBM e SCO v. Novell

Nel marzo del 2003, la azienda produttrice di software "The Santa Cruz Operation"
Group Inc. (chiamata anche SCO Group, o anche solo SCO) intentò causa presso la Corte
Distrettuale dello Utah contro il colosso informatico IBM, per una presunta violazione
dei termini di utilizzo e dei diritti di sfruttamento economico di Unix.20

La SCO, che in passato aveva elaborato e commercializzato proprie versioni di Linux ed


altri prodotti open source, acquistò i diritti su Unix dalla Novell, la quale a sua volta li
aveva rilevati dalla AT&T. Le due precedenti titolari avevano inoltre ceduto una
particolare licenza d’uso di Unix alla IBM (che produsse la variante AIX) e a Sequent
(poi incorporata da IBM e che ha prodotto la variante Dynix).

SCO accusò IBM di aver rivelato il codice sorgente di Unix ai programmatori della
comunità Linux, cooperando con loro per la realizzazione e lo sfruttamento economico di
alcuni software derivati, violando pertanto gli obblighi di riservatezza contenuti nei vari
contratti di licenza e i diritti di sfruttamento commerciale di varie versioni di Unix, che
SCO rivendicava. Al centro della disputa vi erano le versioni 2.4.x, 2.5.x e 2.6.x di Linux,
che incorporavano (secondo le tesi del ricorrente) mere elaborazioni di Unix e diverse
porzioni di AIX e Dynix comuni anche a Unix.

Parallelamente, SCO diffidò le 1500 maggiori imprese statunitensi dal comprare e/o
commerciare prodotti basati su Unix, minacciando di ricorrere alle vie legali anche nei
confronti di qualsiasi utente (anche finale) di Linux. "I maligni sospettano che dietro
l’iniziativa di SCO vi sia la mano (neppure tanto invisibile) di Microsoft, la quale
avrebbe già chiesto ed ottenuto dall’attrice una licenza a titolo oneroso per l’utilizzo di
quei diritti".21

IBM si difese affermando che la comunità Linux ottenne dai precedenti titolari e dalla
SCO stessa il codice sorgente. In aggiunta, denunciò a sua volta SCO per violazione del
copyright e per violazione della licenza GPL: la SCO avrebbe infatti violato la GPL
nell’utilizzo del software Linux utilizzato per le successive rielaborazioni, che poi ha
commercializzato a condizioni differenti da quelle previste dalla GPL.22

SCO rispose con l’emissione di un subpoena23 a carico della Free Software Foundation,
asserendo che la GPL può essere "selectively enforced" soltanto dalla Fondazione, con
ciò dichiarando IBM impossibilitata a richiedere il rispetto della GPL. Quest’ultima,
inoltre, "violates the U.S. Constitution, together with copyright, antitrust and export
control laws" secondo la SCO.24 Il caso, dunque, assunse rilevanza soprattutto per
l’importanza che avrebbe rivestito in futuro riguardo la validità in se della GPL – e, di
fatto, di tutte le altre licenze copyleft.

Tuttavia, il caso ebbe un risvolto inaspettato: il 28 marzo 2003, la Novell contestò le


affermazioni su cui la SCO fondava il suo ricorso alle misure legali contro IBM,
affermando che "the 1995 agreement governing SCO’s purchase of UNIX from Novell
does not convey to SCO the associated copyrights".25 Le schermaglie fra SCO e Novell
portarono la prima ad intentare una causa, sempre presso la Corte Distrettuale dello
Utah, anche contro Novell nel gennaio 2004. Da questo giudizio, sarebbero di fatto dipesi
sia il giudizio sul caso IBM, sia quelli riguardanti altre cause intentate da SCO verso
altre aziende.26

Un primo giudizio giunse nell’agosto 2007: la corte accolse i rilievi della Novell,
dichiarandola unica detentrice dei diritti di sfruttamento su Unix e, dunque, dismettendo
de facto tutti gli altri processi ancora pendenti che vedevano coinvolta SCO. Questa fu,
inoltre, condannata a pagare circa 4 milioni di dollari di risarcimento a Novell.27 La
sentenza è stata però annullata nell’agosto del 2009 e il caso rinviato alla precedente
corte, che ora dovrà nuovamente esprimersi al riguardo.

2.3.4.b) Il caso Sitecom

In Europa, il problema della natura giuridica della GPL è stato affrontato per la prima
volta nel 2004:28 la Corte Distrettuale di Monaco di Baviera condannò la filiale tedesca
della azienda olandese di software Sitecom ad una multa di 100.000 Euro. La Sitecom
rese, infatti, possibile il download gratuito di un programma basato a sua volta su un
programma sviluppato dalla comunità del Progetto netfilter/iptables e licenziato in GPL
– senza però che l’azienda citasse quest’ultima circostanza, né rendesse disponibile il
codice sorgente, ai sensi della licenza.

La Corte stabilì il 2 aprile 2004, in sede di primo grado che la Sitecom "is under penalty
... to distribute and/or copy and/or make publicly accessible the software
’iptables/netfilter’, without pointing to the licensing under the GPL and attaching the
license text of the GPL and making the source code of the software ’iptables/netfilter’
available free of license fees, according to the conditions of the GNU General Public
License, version 2", confermando poi la sentenza in sede di secondo grado (luglio 2004)
ed aggiungendo che "the court shares the opinion that the conditions GPL [...] cannot be
considered a waiver of copyright and autorship rights. To the contrary, conditions of
copyright law serve the users to ensure and realize their goals regarding further
development and distribution of software".29
Va notato che, sebbene la clausola 4 della GPL30 sia stata considerata dalla corte
parzialmente invalida nella misura in cui l’esaurimento prescritto ha effetto solo in
personam, nessun dubbio invece viene espresso sulla clausola 2, ossia quella che
garantisce il permesso di usare, copiare e modificare il programma e di distribuire le
versioni modificate.

La sentenza della corte bavarese rappresenta indubbiamente una vittoria per il


movimento copyleft, anche se non risolve definitivamente ogni dubbio. Nota Boschiero:
"La decisione della corte tedesca [...] appare [...] criticabile sotto il profilo della
completa mancanza di un ragionamento internazionalprivatistico[.] Avendo qualificato
la licenza come contratto, ci pare in particolare che la corte avrebbe dovuto risolvere il
problema della validità o meno della licenza, nel suo complesso e dei suoi singoli
termini [...] alla luce della legge regolatrice individuata dall’appropriata norma di
conflitto. [...] Non è chiaro se la corte tedesca abbia inteso sottrarsi a questo ingrato
compito ravvisando comunque nella sua decisione una violazione dei diritti di proprietà
intellettuale, [...] o se invece, più semplicemente, non si sia nemmeno resa conto del
problema di una possibile diversa soluzione internazionalprivatistica conseguente alla
corretta qualificazione [delle clausole] 2 e 3 della licenza GPL come «contractual
issues»".31

2.3.5. Le prospettive future

Come accennato prima, il successo del modello copyleft è finora dipeso (e continuerà a
dipendere) dal successo della sua filosofia di fondo, basata sull’apertura, sulla
flessibilità e sulla libertà di scelta – ma anche dalla sua capacità di continuare a produrre
opere di qualità appetibili per il mercato.

Un discorso simile si può fare per le singole licenze: è ragionevole supporre che le
impostazioni troppo "fondamentaliste" lasceranno facilmente il passo ad altre più
rispettose degli interessi di tutti gli attori coinvolti. Ad esempio, si è visto come, in
passato, si sia estremamente ridotto il ricorso a varie licenze create in ambito
universitario negli anni ’80, i cui estensori pure sono stati costretti (come si vedrà) ad
abbandonare determinate restrizioni.

In prospettiva, anche le licenze della Free Software Foundation corrono questo rischio:
sebbene sia eccessivo dire che esse si avviino entro breve all’estinzione, le polemiche
sorte riguardo il rilascio della versione 3.0 della GNU GPL – particolarmente aggressiva
nei confronti dei meccanismi di digital rights management,32 al punto da scatenare la
clamorosa decisione di Linus Torvalds di non rilasciare Linux con questa nuova versione,
ma di mantenere ancora la licenza 2.0 ("Conversion isn’t going to happen")33 –
sollevano ben più di un interrogativo sulla necessità di continuare a mantenere una
posizione di manicheo rifiuto nei confronti di tutto ciò che è "proprietario".
È, in effetti, estremamente condivisibile la posizione di Torvalds su quello che una
licenza libera dovrebbe essere: "I really want a license to do just two things: make the
code available to others, and make sure that improvements stay that way. That’s really it.
Nothing more, nothing less. Everything else is fluff".34 Fatta salva quella che è la volontà
dell’autore nei confronti della sua opera, le modalità decise sull’uso e la distribuzione
dovrebbero, infatti, dipendere da valutazioni pragmatiche e non ideologiche, per quanto
condivisibili.

Anche per questo, si è ritenuto opportuno in quest’analisi focalizzarsi maggiormente


sulle licenze Creative Commons, come esempio di licenze che coprono con efficacia
tutte le combinazioni esistenti fra il copyright e il pubblico dominio e che vengono il più
possibile incontro all’utilizzatore, sia in termini di comprensibilità che di adattabilità
alle varie legislazioni nazionali.

È opportuno rimarcare, tuttavia, come questa "polemica" interna non sia altro che una
normale dinamica "di un processo sociale complesso, all’interno del quale vi sono
posizioni più radicali", come quelle di Stallman e della Free Software Foundation, "e
posizioni meno estremiste", come quelle della Open Source Initiative o della Creative
Commons Foundation.35

Note

1. ↑ Il termine hacker nasce intorno agli anni ’60 ed indica inizialmente un


appartenente al gruppo universitario di programmatori per computer,
prevalentemente gravitante intorno alle strutture del Massachusetts Institute of
Tecnology (MIT). L'hacker è "[a] person who delights in having an intimate
understanding of the internal workings of a system, computers and computer
networks in particular". Col tempo, tuttavia, il termine ha assunto connotati
dispregiativi, essendo così chiamati i c.d. "pirati della rete", laddove sarebbe più
corretto parlare di crackers, ossia "an individual who attempts to access computer
systems without authorization. These individuals are often malicious, as opposed to
hackers, and have many means at their disposal for breaking into a system". Per
entrambe le definizioni, cfr. Internet Users’ Glossary, Request for Comments 1392,
gennaio 1993. Disponibile al sito: http://www.rfc-editor.org/rfc/rfc1392.txt.
2. ↑ Unix era un sistema operativo "proprietario" particolarmente usato all’epoca.
3. ↑ Cfr. R. Stallman, op. cit.
4. ↑ Stallman afferma che usò il termine copyleft "to name the distribution concept I
was developing at the time" perché ispirato da una lettera ricevuta dall’amico e
collega programmatore Don Hopkins. Cfr. R. Stallman, op. cit.
5. ↑ Per un commento della licenza, cfr. infra, par. 2.4.1. "La GNU General Public
License".
6. ↑ La definizione, decisamente appropriata, viene riportata in M.S. Spolidoro, "Open
Source e violazione delle sue regole", in L.C. Ubertazzi (a cura di), op. cit., pag. 96.
7. ↑ Per un commento della licenza, cfr. infra, par. 2.4.2. "La GNU Lesser General
Public License".
8. ↑ Per un commento della licenza, cfr. infra, par. 2.4.3. "La GNU Free
Documentation License".
9. ↑ R. Stallman, op. cit.
10. ↑ Il messaggio originale, in lingua inglese, è disponibile al sito:
http://groups.google.com/group/comp.os.minix/msg/b813d52cbc5a044b.
11. ↑ Il nome iniziale scelto da Torvalds fu Freax, ma i suoi amici insistettero per
chiamarlo (quasi) come il suo ideatore.
12. ↑ H. Yamagata, "The Pragmatist of Free Software: Linus Torvalds Interview",
Tokyo Linux Users Group, 30 settembre 1997. Disponibile al sito:
http://www.tlug.jp/docs/linus.html.
13. ↑ In realtà, il nome GNU/Linux viene utilizzato quasi esclusivamente dalla Free
Software Foundation, per rimarcare il fatto che Linux sia rilasciato con la licenza
GNU GPL. Il nome Linux resta comunque quello più diffuso in assoluto e, dunque,
per comodità lo si utilizzerà di qui in avanti.
14. ↑ Per "distribuzione", spesso abbreviata con "distro", si intende un pacchetto
preconfigurato di programmi facile da installare, particolarmente utile in ambito
open source per permettere anche ad utenti non esperti di installare programmi
liberi sul proprio computer.
15. ↑ Per "versione beta" si intende una versione non ufficiale (ossia una sorta di
prototipo) di un programma, che viene rilasciata ad un gruppo di utenti più o meno
ristretto per verificarne l’efficienza ed il funzionamento.
16. ↑ Per "versione stabile" si intende la versione ufficiale di un programma, rilasciata
dopo una serie di test sul funzionamento ritenuta sufficiente dagli sviluppatori.
17. ↑ Dati aggiornati a febbraio 2010, disponibili al sito: http://greatstatistics.com/.
18. ↑ D. Tapscott, A.D. Williams, op. cit., pag. 87.
19. ↑ Cfr. i dati disponibili al sito: http://marketshare.hitslink.com/os-market-
share.aspx?qprid=9.
20. ↑ La ricostruzione che segue è basata principalmente su M. Bertani, "Open source
ed elaborazione di software proprietario", nota 98, in L.C. Ubertazzi (a cura di), op.
cit., pag. 135.
21. ↑ G. Olivieri, L. Marchegiani, "Open source e innovazione tecnologica: il ruolo del
diritto antitrust", in L.C. Ubertazzi (a cura di), op. cit., pag. 478.
22. ↑ A tal proposito, Eben Moglen, avvocato che ancora oggi cura le questioni legali
per la Free Software Foundation, nota che: "[a]s to its trade secret claims, which are
the only claims actually made in the lawsuit against IBM, there remains the simple
fact that SCO has for years distributed copies of the kernel, Linux, as part of
GNU/Linux free software systems. [...] There is simply no legal basis on which SCO
can claim trade secret liability in others for material it widely and commercially
published itself under a license that specifically permitted unrestricted copying and
distribution". Cfr. E. Moglen, FSF Statement on SCO v. IBM, Free Software
Foundation (ultimo aggiornamento: 29 luglio 2008). Disponibile al sito:
http://www.gnu.org/philosophy/sco/sco-v-ibm.html.
23. ↑ Un provvedimento di subpoena è un atto di convocazione a testimoniare o a
fornire prove documentali riguardo un procedimento, ovvero affrontare un giudizio
per renitenza.
24. ↑ R. McMillan, "SCO: IBM cannot enforce GPL", InfoWorld.com, 27 ottobre 2003.
Disponibile al sito: http://www.infoworld.com/t/platforms/sco-ibm-cannot-enforce-
gpl-892.
25. ↑ "Novell Challenges SCO Position, Reiterates Support for Linux", Novell Press
Release, 28 marzo 2003. Disponibile al sito:
http://www.novell.com/news/press/archive/2003/05/pr03033.html.
26. ↑ SCO intentò causa anche contro la DaimlerChrysler nel dicembre 2003 (poi
ritirata nel 2005) e contro AutoZone nel marzo 2004 (con cui si raggiunse un
accordo extragiudiziale nel 2009).
27. ↑ Il pagamento fu però sospeso, poiché SCO chiese l’applicazione del Chapter 11,
ovvero l’amministrazione controllata della società in seguito a fallimento.
28. ↑ Una traduzione non ufficiale in inglese della sentenza originale è disponibile al
sito: http://www.groklaw.net/article.php?story=20040725150736471.
29. ↑ Traduzioni della sentenze riportate in N. Boschiero, op. cit., pag. 227.
30. ↑ La clausola 4 prevede la cessazione della licenza stessa in caso di sua violazione.
Cfr. infra, par. 2.4.1. "La GNU General Public License".
31. ↑ N. Boschiero, op. cit., pagg. 231-232.
32. ↑ M. LaMonica, "New open-source license targets DRM, Hollywood", ZDNet News,
18 gennaio 2005. Disponibile al sito: http://news.zdnet.com/2100-1040_22-
146399.html. In merito cfr. anche infra, par. 2.4.1. "La GNU General Public
License".
33. ↑ S. Shankland, "Torvalds: No GPL 3 for Linux", ZDNet News, 26 gennaio 2005.
Disponibile al sito: http://news.zdnet.com/2100-3513_22-146510.html.
34. ↑ S. Shankland, "Torvalds: A Solaris skeptic", CNET News, 21 dicembre 2004.
Disponibile al sito: http://news.cnet.com/Torvalds-A-Solaris-skeptic/2008-1082_3-
5498799.html.
35. ↑ M.S. Spolidoro, op. cit., pag. 104.
2.4.1. La GNU General Public License

La GNU General Public License (anche detta GNU GPL, o più semplicemente GPL),
come accennato nel precedente paragrafo, è stata la prima licenza libera mai prodotta e
ben rappresenta la filosofia del progetto GNU, all’interno del quale è stata generata. Per
questo, "è la licenza, tra quelle di software libero e open source, che più strettamente
attua tali principi".1

La versione 1.0 fu scritta con l’aiuto di alcuni consulenti legali, fra cui Eben Moglen
(docente alla Columbia University e legale fin dalla fondazione della FSF), e rilasciata
nel gennaio 1989 come licenza ufficiale del progetto GNU.2

In base a questa versione della licenza, è resa possibile la copia e la distribuzione,


eventualmente a pagamento, del codice sorgente di un programma, allegandovi una copia
della licenza GPL3 e un copyright notice che attribuisca correttamente la paternità
dell’opera (sezione 1). Eventuali modifiche al programma sono ammesse, a patto che,
qualora esse siano rese pubbliche,4 vengano rilasciate in GPL e che sia indicata la data
della modifica (sezione 2).

Le libertà indicate, che non possono in nessun caso essere limitate in alcun modo, si
applicano a tutti coloro che ottengono una copia del programma (sezione 6). Tuttavia,
queste attività possono essere effettuate solo nei modi previsti dalla licenza. Qualora non
si rispettassero le condizioni esposte, questo "will automatically terminate your rights to
use the Program under this License". Questo, tuttavia, non riguarda eventuali terzi che
hanno ricevuto una copia del programma, "so long as such parties remain in full
compliance" (sezione 4).5

La pubblicazione del codice sorgente è un punto nodale della licenza (sia in questa
versione, che nelle successive): qualora non fosse distribuito assieme al programma,
deve essere indicato la modalità con cui ottenerlo oppure l’autore deve impegnarsi, per
un termine minimo di almeno tre anni, con una offerta scritta a fornirlo a chiunque ne
faccia richiesta ad un costo non superiore alle spese effettivamente sostenute per
realizzare ed inviare una copia fisica (sezione 3).

Riguardo la cessione a titolo oneroso di copie del programma, va notato che è autorizzata
anche per gli utenti che ricevono a loro volta una copia: l’eventuale prezzo richiesto "è
infatti relativo al solo trasferimento della copia del programma", e non è "un
corrispettivo per la possibilità concessa dal titolare dei diritti su di esso di riutilizzarlo,
modificarlo, copiarlo e distribuirlo".6

Appena due anni e mezzo dopo, nel giugno 1991, venne rilasciata la versione 2.0,7 che
ancora oggi rappresenta la versione più diffusa della GPL. Le novità rilevanti della
licenza sono tre.

Innanzitutto, va segnalata l’aggiunta di due capoversi alla sezione 2, che chiariscono le


modalità del licenziamento di eventuali opere derivate: se le modifiche al programma
iniziale sono facilmente identificabili e "can be reasonably considered independent and
separate works in themselves", la licenza GPL non si applica anche alle modifiche; se,
invece, non è possibile distinguerle oppure sono strettamente integrate nel programma,
la licenza si applica anche alle altre parti.

L’effetto – rectius, l’obbiettivo – di questa clausola è quello di rendere automaticamente


"libere" eventuali integrazioni di materiale "proprietario" o di materiale rilasciato con
licenze non pienamente compatibili8 con la GPL. In questo caso, si parla del c.d. "effetto
virale" della licenza, "dal momento che la licenza contagerebbe [...] i programmi non
liberi attraverso la combinazione dei codici sorgenti e il rilascio delle versioni così
ottenute sotto la stessa GPL".9

Altra modifica interessante – si direbbe di natura esplicativa – è quella operata alla


sezione 5: se la prima versione statuiva che attraverso la copia, la distribuzione e la
modifica del programma si accettava implicitamente la licenza, adesso si specifica che,
"since you have not signed it", non è obbligatorio accettare la licenza. Tuttavia, "nothing
else grants you permission to modify or distribute the Program or its derivative works",
poiché queste azioni violano le leggi sul diritto d’autore. In sostanza, l’utente finale è
costretto ad accettare la licenza solo se intende avvalersi delle libertà da essa concesse.

L’ultima modifica sostanziale è l’inserimento della c.d. "Liberty or Death clause",10


ovvero della sezione 7: in base a questa disposizione, qualora vi siano delle condizioni
che impediscono l’applicazione completa della licenza (ad esempio, la presenza di un
brevetto o una decisione di una corte riguardo rivendicazioni di diritti di proprietà
intellettuale), "then as a consequence you may not distribute the Program at all".

L’obbiettivo dichiarato è quello di salvaguardare il sistema di distribuzione free


software/open source – laddove il manicheismo della FSF non permette di ammettere
esplicitamente che, di fatto, così facendo si rispetta anche la volontà del singolo autore
riguardo le condizioni d’uso che vuole garantire.

Dopo ben 12 anni di attesa e circa due anni di discussioni pubbliche, la versione 3.0 è
stata infine pubblicata (non senza strascichi polemici) nel giugno 2007.11 Molte le
modifiche apportate, a partire da un generale ampliamento e riordino delle clausole. In
quest’analisi, ci si soffermerà comunque su quelle più rilevanti: la lotta ai sistemi di
restrizione delle modifiche, il rapporto con i programmi sottoposti a brevetto e la
compatibilità con altre licenze libere.
Il primo punto si occupa innanzitutto della c.d. "tivoization". Il termine, coniato da
Stallman, deriva da Tivo, un registratore video digitale basato su Linux prodotto dalla
omonima azienda. La controversia nasce dal fatto che è permesso all’utente di
modificare il codice sorgente, ma non di poter eseguire il programma modificato sul
prodotto stesso.

Nominalmente, quindi, non si tratterebbe di una violazione della licenza, poiché il diritto
viene teoricamente (ma non praticamente) concesso. Il problema è stato affrontato
attraverso l’inserimento dell’obbligo di fornire le c.d. informazioni di installazione12
allegate al resto del programma (sezione 6).13

Inoltre, è stato aggiunto – decisione particolarmente "politica" – un riferimento al rifiuto


esplicito di qualsivoglia "effective technological measure under any applicable law
fulfilling obligations under article 11 of the WIPO Copyright Treaty adopted on 20
December 1996, or similar laws prohibiting or restricting circumvention of such
measures" (sezione 3).

Il secondo punto si occupa di risolvere eventuali problemi che potrebbero sorgere


dall’integrazione di materiale brevettato all’interno di programmi rilasciati in GPL.
L’obbiettivo è quello di prevenire il rischio (anche se solo teorico) di un ricorso
giudiziario da parte del detentore del brevetto contro l’utente che intendesse copiare,
modificare o distribuire il programma.

Coerentemente con l’impianto della licenza, il detentore del brevetto si impegna a non
procedere contro chi viola tali diritti, qualora si intenda usufruire delle libertà concesse
dalla GPL – conscio del fatto che ricorrere a mezzi giudiziari farà terminare
automaticamente la licenza (sezione 11).

Il terzo ed ultimo punto riguarda la compatibilità della GPL con altre licenze: a questo
scopo, è stata regolamentata la possibilità di inserire delle "condizioni aggiuntive" che
eccepiscano alle condizioni della GPL. Ciò va inteso non tanto nel senso che questa
possa essere derogata, ma che possa esservi affiancata una licenza altra, che contenga
delle clausole aggiuntive fra quelle tassativamente indicate come "permesse" dalla GPL
(sezione 7).

2.4.2. La GNU Lesser General Public License

La GNU Lesser General Public License (anche detta GNU LGPL, o più semplicemente
LGPL) è una licenza libera protettiva,14 inizialmente nota con il nome di GNU Library
General Public License. Infatti, questa licenza nacque con il preciso intento di essere
utilizzata per le librerie15 e di costituire un buon compromesso fra la GPL e le meno
restrittive BSD License e MIT License.
La scelta fu dettata anche da una precisa intenzione strategica, poiché se anche le librerie
"fossero state distribuite attraverso la GPL, infatti, anche i programmi che le avessero
utilizzate avrebbero dovuto divenire software coperto da GPL, in quanto opere
derivate".16

La prima versione della licenza è stata la 2.0, numerata così perché uscita
contemporaneamente alla versione 2.0 della GPL (gennaio 1991). Nel 1999, venne
rilasciata la versione 2.1,17 che comprendeva qualche correzione minore e soprattutto il
cambio di nome da Library a Lesser.

Entrambe le versioni (così come la versione 3.0,18 pubblicata nel giugno 2007, sempre in
contemporanea con la GPL 3.0) si rifacevano largamente alla GPL, tranne che su un
punto fondamentale: la possibilità di poter utilizzare le librerie anche in programmi
"proprietari" (sezione 14).

La scelta è stata compiuta per poter competere sul loro terreno e promuovere l’approccio
free software, rispetto allo schema "proprietario". Tuttavia, Stallman stesso afferma che
è (ancora oggi) preferibile limitare l’uso della LGPL e utilizzare quanto più possibile la
GPL, per puntare direttamente sull’effetto virale di quest’ultima, se non addirittura sul
rilascio fin dall’inizio di programmi con licenza libera.19

2.4.3. La GNU Free Documentation License

La GNU Free Documentation License (anche detta GNU FDL, o più semplicemente
GFDL) è una licenza protettiva ideata dalla FSF specificamente per documentazioni di
programmi, manuali, libri di testo e simili. Come la LGPL, è largamente basata nei suoi
principi sulla GPL – risultando, tuttavia, troppo farraginosa negli obblighi richiesti, al
contrario della licenza madre.

Sia la prima versione della licenza (1.1, rilasciata nel marzo 2000)20 che la seconda
versione (la 1.2, rilasciata nel novembre 2002)21 prevedono la possibilità di copiare e
redistribuire, a titolo oneroso o meno, testi rilasciati con questa licenza, a patto di
allegare quest’ultima senza modifiche o omissioni all’opera (sezione 2).

Tuttavia, se il numero di copie è superiore a 100 e l’autore originale richiede la


pubblicazione di uno o più testi in copertina, questi devono essere inclusi nelle copie
come richiesto in modo chiaro e leggibile. Inoltre, sulla copertina deve essere
identificato l’editore che pubblica il documento (sezione 3).

Qualora il testo venga modificato, devono essere indicati autore e data delle modifiche in
una apposita sezione "Storia", oltre ad essere riportati i termini originari di licenza e
quelli eventualmente nuovi di chi ha provveduto a modificare il testo (sezione 4).
Infine, nel caso in cui venga effettuata una combinazione di due o più documenti
(sezione 5), una raccolta di documenti (sezione 6) o una semplice aggregazione (sezione
7), è possibile allegare una sola copia della licenza GFDL, così come unificare lo storico
delle eventuali modifiche apportate ai testi. Anche le traduzioni vengono considerate una
modifica (sezione 8) ed equiparate ai casi di cui alla sezione 4.

Anche la GFDL presenta la classica clausola di terminazione in seguito a violazione


della licenza (sezione 9). Differentemente dalla GPL e dalla LGPL, invece, è la prima a
far cenno al divieto di introdurre meccanismi di DRM sui testi (sezione 2).

La GFDL non ha mai avuto un grande successo, anche se rileva notare come, fino al
2007, i principali progetti rilasciati sotto questa licenza fossero quelli della Wikimedia
Foundation (WMF)22 – fra cui spicca per notorietà l’enciclopedia libera Wikipedia.

Tuttavia, come accennato prima, lo svantaggio della GFDL è nella sua estrema
farraginosità, che la rende adatta per le pubblicazioni via Internet e molto meno adatta
per le pubblicazioni cartacee – e completamente inadatta per qualsiasi altro mezzo di
espressione non testuale. Le inadeguatezze e la complessità della licenza furono
accentuate dal crescente successo delle licenze Creative Commons (che saranno
analizzate nel prossimo paragrafo).

Prova ne fu la decisione della Wikimedia Foundation di chiedere alla Free Software


Foundation di modificare la GFDL "in such a fashion as to allow the possibility for the
Wikimedia Foundation to migrate the projects to CC-BY-SA".23 Dopo circa un anno di
trattative (invero, iniziate prima della risoluzione ufficiale della WMF), venne rilasciata
nel novembre 2008 la versione 1.3 della GFDL.24

La versione prevede l’aggiunta della sezione 11, in base alla quale qualsivoglia "sito per
la collaborazione massiva multiautore"25 licenziato in GFDL può rilicenziare i propri
contenuti con licenza CC-by-sa, se questi rispettano i seguenti due criteri:

a) non è presente alcuna limitazione così come prevista dalla licenza GFDL;

b) sono stati pubblicati per la prima volta con licenza GFDL su tale sito prima del 1°
novembre 2008.

Il rilicenziamento era comunque permesso solo entro una ristretta finestra temporale,
ossia entro e non oltre il 1° agosto 2009. La limitata possibilità temporale era dovuta al
fatto che tale modifica era stata prevista, nei fatti, solo ed esclusivamente per la WMF –
che decise infine di sfruttare, in seguito ad una consultazione con le comunità dei vari
progetti a cui fa capo.26

2.4.4. Le BSD Licenses


Le BSD Licenses o Berkeley Software Distribution Licenses sono una famiglia di licenze
libere non protettive,27 che prendono il nome dalla Berkeley Software Distribution
(BSD), la versione modificata di Unix prodotta dall’Università di Berkeley nel 1977.

La prima licenza prodotta, la BSD License (comunemente chiamata BSD-old o 4-clause


BSD License)28 nacque nel 1989 proprio come licenza d’uso di BSD e consentiva l’uso,
la modifica e la distribuzione del programma, modificato o meno, subordinati al rispetto
delle seguenti quattro condizioni:

a) l’obbligo di allegare "the above copyright notice, this list of conditions and the
following disclaimer" alle redistribuzioni del codice sorgente (punto 1);

b) l’obbligo di allegare quanto sopra "and/or other materials provided with the
distribution" alle redistribuzioni del codice oggetto (punto 2);

c) l’obbligo di inserire l’avviso "This product includes software developed by the


<organization>" in ogni avviso pubblicitario di programmi che avrebbero usato e/o che
si sarebbero basati su BSD (punto 3);

d) il divieto di utilizzare il nome del titolare dei diritti per promuovere opere derivate
senza previo permesso da parte del titolare stesso (punto 4).

In sostanza, la BSD License garantiva condizioni molto più permissive rispetto alla GPL
riguardo la redistribuzione dei programmi, modificati o meno, anche con licenze diverse
da quella originaria, fatti salvi gli obblighi di riconoscere i diritti morali e di ottenere un
permesso scritto per l’utilizzo del nome del titolare del copyright.

Ad accendere il dibattito fu la terza clausola, la c.d. advertising clause: stando alla


lettera della licenza, tutti i creatori di opere derivate da BSD avrebbero dovuto inserire in
qualsiasi pubblicità, anche in nota, l’avviso che il programma originario fosse stato
creato dall’Università di Berkeley. Questo li avrebbe dunque costretti, "in caso di
pubblicità di distribuzioni contenenti molti programmi diversi, a stendere pagine e
pagine di note per adempiere tale obbligo".29

Il problema venne sollevato da Stallman, quando notò che in una versione di NetBSD, un
sistema operativo derivato da BSD, l’avviso previsto dalla clausola veniva inserito per
ben 75 volte.30 Va inoltre notato come questa clausola sia in aperto contrasto con il
divieto di imporre ulteriori clausole restrittive sancito dalla GPL – problema non di poco
conto per i programmi rilasciati con doppia licenza GPL/BSD License.

Il 22 luglio 1999, il direttore dell'Office of Technology Licensing dell’Università di


Berkeley, William Hoskins, rilasciò un comunicato in cui "con effetto immediato"
veniva dichiarata decaduta la clausola.31 La nuova formulazione della licenza viene oggi
comunemente chiamata New BSD License o 3-clause BSD License.32

Il 9 gennaio 2008, venne infine rilasciata una terza versione, chiamata comunemente
Simplified BSD License (o anche 2-clause BSD License o FreeBSD License, poiché
rilasciata soprattutto in relazione al sistema operativo FreeBSD),33 nella quale viene
rimossa anche la c.d. non-endorsement clause, ossia l’originale punto 4.

2.4.5. La MIT License

La MIT License è una licenza libera non protettiva,34 nata presso il Massachusetts
Institute of Technology nel 1988. La licenza permette esplicitamente "to use, copy,
modify, merge, publish, distribute, sublicense, and/or sell" una copia dell’opera così
rilasciata, con il solo obbligo di citare la licenza.

Gli stessi diritti sono concessi a chi riceve una copia del programma, anche se da questa
previsione non discende l’obbligo di rilasciare eventuali modifiche con licenza MIT o
altra licenza libera. Si tratta in definitiva di una licenza che amplia i già notevoli margini
di utilizzo e riutilizzo concessi dall’Università di Berkeley.

2.4.6. La Apache License

La Apache License è una licenza libera non protettiva, con la quale sono rilasciati tutti i
progetti della Apache Software Foundation. Fu rilasciata nella sua versione 1.035 nel
1995 e ricalcava in larga parte la BSD License, con l’aggiunta di due clausole:

a) il divieto di poter utilizzare il nome "Apache" per una eventuale opera derivata (punto
5);

b) l’obbligo di inserire un avvertenza in tutte le redistribuzioni "of any form whatsoever"


che "This product includes software developed by the Apache Group for use in the
Apache HTTP server project (http://www.apache.org/)" (punto 6).

In realtà, l’aggiunta di queste clausole "sono volte a spingere l’autore delle modifiche a
riflettere sull’interesse a renderle software libero",36 dal momento che è costretto a
citare gli autori originali e, dunque, impossibilitato ad "appropriarsene" completamente.

Nel 2000, coerentemente con quanto deciso dall’Università di Berkeley, anche la Apache
Software Foundation decise di modificare la propria licenza e di rilasciare la versione
1.1:37 anche qui, infatti, viene rimossa la vecchia clausola 3 (la advertising clause),
sostituita da una riformulazione leggermente diversa della vecchia clausola 6.

Nel 2004, viene rilasciata la versione 2.0 della licenza,38 che introduce alcune modifiche
sostanziali per renderla compatibile con la GPL e per definire in maniera più precisa i
termini di riutilizzo. Rimane ferma l’impostazione non protettiva delle vecchie versioni
(sezione 2), anzi viene concesso gratuitamente in licenza ogni brevetto sul programma
detenuto dall’autore originale o da eventuali autori successivi, facendo però terminare in
maniera automatica tale concessione qualora il licenziatario opponga un ricorso per
violazione di brevetto (sezione 3).

La sezione 4, infine, specifica le nuove condizioni di redistribuzione, che prevedono:

a) di allegare copia della licenza assieme all’opera o all’opera derivata;

b) di evidenziare adeguatamente eventuali modifiche tramite avvertenze scritte;

c) di mantenere tutti le avvertenze che riguardano quelle parti dell’opera pertinenti


all’opera derivata;

d) di inserire le avvertenze di cui alla lettera b) in un file di testo apposito, allegato al


programma stesso.

Rileva notare come da questa versione della licenza vengano eliminati tutti gli obblighi
di richiamare esplicitamente il progetto Apache e la provenienza del codice originale
dell’opera – obblighi che sarebbe stato difficile considerare compatibili con la GPL.

2.4.7. La Mozilla Public License e la Netscape Public License

La Mozilla Public License (MPL) è una licenza libera non protettiva, largamente basata
sulla Netscape Public License (NPL). La versione 1.0 di entrambe fu rilasciata nel
1998,39 quando Netscape, una delle aziende più importanti nell’ambito della new
economy, decise di rilasciare sotto NPL il codice sorgente di vari programmi, fra cui
Navigator, "veterano" dei web browser.

La decisione venne presa perché Netscape si trovò in grossa difficoltà nella c.d. "guerra
dei browser", che la vedeva contrapposta a Microsoft e al suo Internet Explorer. Decisa a
recuperare quelle quote di mercato perdute, scelse di imboccare la via dell'open source,
senza però venire meno agli accordi di licenza precedentemente stipulati con altre
aziende.

Entrambe le licenze prevedono la possibilità di copiare, modificare, mostrare, eseguire,


sub-licenziare e distribuire liberamente il codice sorgente del programma, modificato o
meno, senza però alterare i termini della licenza originaria (punti 2.1 e 2.2). Le eventuali
modifiche apportate al codice devono anch’esse, se pubblicate, essere rilasciate con
licenza MPL/NPL (punti 3.1, 3.2 e 3.3).

Pur essendo la NPL molto simile alla GPL, a differenza di quest’ultima permette la c.d.
interoperabilità fra parti di codice sorgente libero e parti di codice sorgente
"proprietario", limitandosi soltanto a richiedere che siano soddisfatti gli obblighi
richiesti dalla NPL e non costringendo a rilasciare anche la porzione "proprietaria" sotto
questa licenza libera (punto 3.7).

In seguito al rilascio della versione 1.1, le differenze fra MPL40 e NPL41 si sono ridotte,
ma restano rilevanti: la prima, più permissiva rispetto alla GPL, riguarda solo quelle
parti di codice sorgente scritte ex novo rispetto a quelle rilasciate sotto NPL; la seconda
prevede alcune clausole "che riservano a Netscape la facoltà esclusiva di sfruttare le
modifiche apportate al codice sorgente originario, permettendogli di rilicenziarle e di
utilizzarle in altri prodotti Netscape proprietari" (Amendments, punti V.2 e V.3).42

Note

1. ↑ M. Bertani, op. cit., pag. 90.


2. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/gpl-1.0.html.
3. ↑ L’atto di allegare una copia della licenza è considerato fondamentale, poiché
(afferma la FSF) la semplice indicazione di un collegamento al testo su Internet
potrebbe non essere utile, nel caso il sito non sia più raggiungibile. Cfr. Frequently
Asked Questions about the GNU Licenses, Free Software Foundation (ultimo
aggiornamento: 30 novembre 2009). Disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/gpl-faq.html.
4. ↑ La FSF non considera come pubblicazione l’uso all’interno di una struttura
organizzata di cui fanno parte gli autori delle modifiche. La pubblicazione avviene,
dunque, quando il programma viene rilasciato all’esterno dell’ambiente di lavoro
degli autori delle modifiche. Cfr. Frequently Asked Questions about the GNU
Licenses, op. cit.
5. ↑ Questa clausola è da sempre una delle più controverse della licenza GPL ed in
odore di invalidità, secondo le norme di molti Paesi – ad esempio, la Germania,
come già notato infra, par. 2.3.4.b) "Il caso Sitecom", o l’Italia, ai sensi dell’art.
1456 c.c. e di quanto afferma la Cassazione riguardo la necessità
dell’individuazione "di una o più obbligazioni specificamente determinate" che
possano determinare l’invalidità della licenza. Cfr. M. Bertani, nota 284, op. cit.,
pag. 94.
6. ↑ M. Bertani, op. cit., pag. 93.
7. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/gpl-2.0.html.
8. ↑ La FSF considera "compatibili" con la GPL quelle licenze che permettono la
combinazione dei materiali rilasciati con licenze diverse e autorizzano il rilascio
dell’opera derivata con GPL. Cfr. Frequently Asked Questions about the GNU
Licenses, op. cit.
9. ↑ M. Bertani, op. cit., pag. 97.
10. ↑ La definizione è stata data da Stallman stesso. Cfr. Transcript of Richard Stallman
at the 2nd international GPLv3 conference; 21st April 2006, Free Software
Foundation Europe (ultima modifica: 14 aprile 2009). Disponibile al sito:
http://fsfe.org/projects/gplv3/fisl-rms-transcript.en.html.
11. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/gpl-3.0.html.
12. ↑ Per "informazioni di installazione" si intende, ai sensi della licenza GPL versione
3.0, "any methods, procedures, authorization keys, or other information required to
install and execute modified versions of a covered work in that User Product from a
modified version of its Corresponding Source".
13. ↑ Il punto ha scatenato, come accennato nel precedente paragrafo, vibranti
polemiche all’interno della comunità, tanto da essere sottoposto a sostanziali e
continui lavori di riformulazione – che comunque non hanno convinto né la
comunità di Linux, né la Tivo ad adottare la versione 3.0.
14. ↑ Per una definizione di "protettiva", cfr. infra, par. 2.1.2. "La nozione di licenza
libera".
15. ↑ Per "libreria" si intende un insieme di funzioni di uso comune, predisposte per
essere collegate ad un programma. Questo permette al programmatore di non dover
riscrivere ogni volta le funzioni, ma semplicemente di farvi riferimento,
semplificando le operazioni di scrittura e manutenzione del codice.
16. ↑ M. Bertani, op. cit., pagg. 97-98. Cfr. in tal senso anche Frequently Asked
Questions about the GNU Licenses, op. cit.
17. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/lgpl-2.1.html.
18. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/lgpl-3.0.html.
19. ↑ Why you shouldn’t use the Lesser GPL for your next library, Free Software
Foundation (ultima modifica: 8 dicembre 2008). Disponibile al sito:
http://www.fsf.org/licensing/licenses/why-not-lgpl.html.
20. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/fdl-1.1.html.
21. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/fdl-1.2.html.
22. ↑ L’unica eccezione era costituita da Wikinews, il progetto di notizie open source
rilasciato con licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo
2.5 Unported (CC-by-sa 2.5).
23. ↑ License update, Wikimedia Foundation, 1° dicembre 2007. Disponibile al sito:
http://wikimediafoundation.org/wiki/Resolution:License_update.
24. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/fdl-1.3.html.
25. ↑ Per "sito per la collaborazione massiva multiautore" si intende qualsiasi progetto
web che pubblichi opere sottoponibili a diritto d’autore e che fornisce a chiunque
appositi meccanismi per la loro modifica – come, ad esempio, i progetti della
WMF.
26. ↑ "Wikimedia community approves license migration", Wikimedia Foundation, 21
maggio 2009. Disponibile al sito: http://blog.wikimedia.org/2009/05/21/wikimedia-
community-approves-license-migration/.
27. ↑ Per una definizione di "non protettiva", cfr. infra, par. 2.1.2. "La nozione di
licenza libera".
28. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://en.wikipedia.org/wiki/BSD_licenses#4-
clause_license_(original_"BSD_License").
29. ↑ M. Bertani, op. cit., pag. 102.
30. ↑ R. Stallman, The BSD License Problem, Free Software Foundation (ultimo
aggiornamento: 18 marzo 2003). Disponibile al sito:
http://www.gnu.org/philosophy/bsd.html.
31. ↑ W. Hoskins, To All Licensees, Distributors of Any Version of BSD, Università di
Berkeley, 22 luglio 1999. Disponibile al sito:
ftp://ftp.cs.berkeley.edu/pub/4bsd/README.Impt.License.Change.
32. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://en.wikipedia.org/wiki/BSD_licenses#3-
clause_license_("New_BSD_License").
33. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://en.wikipedia.org/wiki/BSD_licenses#2-
clause_license_("Simplified_BSD_License"_or_"FreeBSD_License").
34. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.opensource.org/licenses/mit-license.php.
35. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.apache.org/licenses/LICENSE-1.0.
36. ↑ M. Bertani, op. cit., pag. 104.
37. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.apache.org/licenses/LICENSE-1.1.
38. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.apache.org/licenses/LICENSE-2.0.
39. ↑ Il testo originale della licenza MPL è disponibile al sito:
http://www.mozilla.org/MPL/MPL-1.0.html. Il testo originale della licenza NPL è
disponibile al sito: http://www.mozilla.org/MPL/NPL-1.0.html.
40. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.mozilla.org/MPL/MPL-1.1.html.
41. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://www.mozilla.org/MPL/NPL-1.1.html.
42. ↑ M. Bertani, op. cit., pagg. 107-108.
2.5.1. La nascita del progetto

Nel 2001, su iniziativa di alcuni giuristi californiani, venne fondata la Creative


Commons Foundation (o CC Foundation). Scopo dell’organizzazione era quello di
replicare in ambito artistico-letterario il paradigma, già sperimentato in ambito
informatico, delle licenze libere.

Il nome dell’associazione trae spunto da un saggio del 1968 dell’economista britannico


Garret Hardin, intitolato The tragedy of the commons ("La tragedia dei beni comuni"),
riguardo la gestione dei c.d. "beni comuni", ossia quelli che non appartengono a nessuno
e di cui tutti possono beneficiare.1

Hardin si mostra alquanto pessimista riguardo il loro destino, utilizzando la famosa


metafora dei pastori che lasciano pascolare il loro bestiame in un prato "pubblico": dal
momento che esso non appartiene a nessuno, ogni allevatore sarà portato a far pascolare
sempre più animali, incrementando la propria utilità ma consumando sempre più le
risorse disponibili. Il risultato è la distruzione del pascolo stesso, con ovvio danno di
tutti i pastori.

I promotori della CC Foundation, al contrario, intendevano dimostrare come la


condivisione delle idee e dei prodotti della creatività non solo non avrebbe arrecato
danno a chi le avrebbe condivise, ma avrebbe anzi permesso di moltiplicare i benefici
della produzione di opere.

Fra i principali promotori dell’iniziativa, vi fu il già citato Lawrence Lessig, docente a


Stanford specializzato proprio in tema di diritto d’autore e nuove tecnologie. Lessig,
all’epoca, era anche impegnato come legale in una causa, la Eldred v. Ashcroft, che
vedeva opposti vari editori, guidati da Eric Eldred, al Governo statunitense,
rappresentato dal Procuratore Generale John Ashcroft.

Oggetto del contendere era il Sonny Bono Copyright Term Extension Act (CTEA), ossia
un provvedimento adottato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1998 che aumentava di
venti anni i termini di tutela del copyright negli Stati Uniti.2 Secondo i ricorrenti, tale
provvedimento violava la c.d. copyright clause contenuta nella Costituzione degli Stati
Uniti d’America, che garantiva "To promote the Progress of Science and useful Arts, by
securing for limited Times to Authors and Inventors the exclusive Right to their
respective Writings and Discoveries". Il procedimento si concluse di fronte alla Corte
Suprema, la quale il 15 gennaio 2003 confermò la costituzionalità del provvedimento per
7 voti a 2.

Da questa sconfitta, Lessig trasse ispirazione per continuare la sua battaglia contro le
limitazioni alla creatività imposte dalle leggi sul copyright, seguendo in parte l’esempio
della Free Software Foundation e della Open Source Initiative.

Nota Rossato: "Si comprende sin da subito come l’origine intellettuale del lavoro di
Lessig sia da rintracciarsi in quelle correnti dell’analisi economica che [...] muovono
contro ciò che, sin dai primi anni Novanta, viene identificato come il centralismo
giuridico di cui la dottrina, anche quella più aperta ad esperienze realiste come l’analisi
economica del diritto, soffre."3

La fondazione si strutturò successivamente come un ente no profit con sede legale a San
Francisco, a cui sono stati trasferiti – al pari della Free Software Foundation – tutti i
diritti riguardo il marchio, le licenze e le opere rilasciate con licenza Creative
Commons.4

La diffusione delle licenze marciò a ritmi inequivocabilmente veloci: entro la fine del
2004, si stimava che circa 4,7 milioni di opere fossero state rilasciate con licenze
Creative Commons (o più semplicemente CC); nel 2008, le opere sono diventate più di
130 milioni.5

In seguito al successo dell’iniziativa, la Fondazione decise di lanciare il progetto


Creative Commons International (Cci), ossia promuovere la traduzione e l’adattamento
delle licenze ai singoli ordinamenti nazionali (c.d. porting). Già entro il 2004, vennero
prodotte le prime 12 versioni nazionali (fra cui quella italiana).6

2.5.2. Le "tre forme" delle licenze Creative Commons

Rispetto alle vecchie licenze, si nota una evoluzione nell’approccio sotto due aspetti: la
formazione e la struttura delle licenze. Innanzitutto, a disposizione dell’utente finale non
viene messa più a disposizione una sola licenza, ma più licenze, derivanti dalla diversa
combinazione delle 4 "clausole base",7 tali da coprire tutte le possibilità comprese fra il
copyright e il pubblico dominio.

La struttura della licenza (il c.d. legal code) è simile in quasi tutte le licenze, il cui
"cuore" è nelle sezioni rispettivamente dedicate ai diritti accordati (sezione 3) e alle
restrizioni imposte dall’autore al loro esercizio (sezione 4). La vera novità risiede, però,
nella diversificazione delle forme con cui la licenza viene presentata al pubblico. Alla
licenza vera e propria si affiancano una versione sintetica ed una versione digitale.

La versione sintetica (c.d. Commons deed) nasce dall’esperienza pregressa in questo


campo: dal momento che "l’utente medio non è portato a leggere e comprendere un
documento di quel tipo"8 (per assenza di volontà, per mancanza di una cultura giuridica
di base o per entrambi i motivi), si correva il rischio che questi adottasse una licenza con
leggerezza, che si diffondessero informazioni sbagliate o false sulle loro condizioni o
che permanesse una certa diffidenza nel loro utilizzo.
Proprio per questo, la CC Foundation decise di creare una versione delle proprie licenze
che fosse comprensibile per chiunque, strutturata con una forma grafica chiara e
schematica. Questa "sintesi" avrebbe avuto la sola funzione per l’appunto di "riassunto",
di informare a grandi linee riguardo le modalità d’uso e le libertà offerte dalla licenza,
senza mai però sostituirsi al legal code.

La terza ed ultima versione è quella digitale (c.d. digital code), ovvero una versione
composta di soli metadati.9 Questi "dati nascosti" permettono di legare
indissolubilmente la licenza all’opera prodotta, rendendola riconoscibile come tale anche
dai motori di ricerca – in tal modo, semplificando notevolmente le operazioni di ricerca
di opere che corrispondano ad un determinato profilo di licenza.10

2.5.3. La struttura delle licenze e le "clausole base"

Come anticipato, le licenze CC hanno una struttura di base comune, composta da 8


clausole. Previo rispetto delle condizioni imposte, è concessa (sezione 3) agli utenti
finali la possibilità di:

a) copiare l’opera con qualsiasi mezzo e su qualsiasi tipo di supporto;

b) distribuire l’opera attraverso qualsivoglia mezzo, con l’eventuale esclusione di quelli


commerciali;

c) eseguire l’opera in qualsiasi modo;

d) modificare il formato dell’opera.

Generalmente, sono richiesti una serie di obblighi fissi (sezione 4), ossia:

a) di richiedere il permesso all’autore per poter eseguire una qualsiasi delle azioni non
espressamente autorizzate fin dall’inizio;

b) di inserire un link alla licenza, ovvero di indicare chiaramente come poter risalire al
testo della licenza in caso di opere non digitali;

c) di non alterare i termini della licenza;

d) di non utilizzare sistemi di digital rights management per impedire di esercitare i


diritti autorizzati.

In aggiunta a questi obblighi, si aggiungono quelli derivanti dalle quattro c.d. "clausole
base", ossia:

1) Attribution ("Attribuzione", BY): presente di default in tutte le licenze a partire dalla


versione 2.0, impone l’obbligo di corretta attribuzione dell’opera;

2) Non commercial ("Non commerciale", NC): la distribuzione di un’opera non può


essere finalizzata, né totalmente né parzialmente, all’ottenimento di guadagni monetari o
altri vantaggi commerciali;

3) No derivative works ("Niente opere derivate", ND): impedisce qualsiasi tipo di


modifica dell’opera, ivi comprese traduzioni o adattamenti;

4) Share Alike ("Condividi allo stesso modo", SA): in caso di modifica dell’opera, la
versione derivata può essere distribuita solo con una licenza simile a quella dell’opera
originaria.

In base alla combinazione di queste quattro clausole, nascono le attuali sei versioni delle
licenze Creative Commons (qui disposte in ordine dalla più restrittiva alla più
permissiva):11

1) Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate (CC by-nc-nd);12

2) Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo (CC by-nc-sa);13

3) Attribuzione – Non commerciale (CC by-nc);14

4) Attribuzione – Non opere derivate (CC by-nd);15

5) Attribuzione – Condividi allo stesso modo (CC by-sa);16

6) Attribuzione (CC by).17

Rileva a questo punto notare due particolarità: la prima è la incompatibilità fra le


clausole "Non opere derivate" e "Condividi allo stesso modo", poiché "la prima nega a
priori la possibilità di modifica, mentre la seconda implica necessariamente la
possibilità di modifica",18 rendendole di fatto mutualmente escludenti.

La seconda è che quelle licenze che adottano le clausole "Non commerciale" e "Non
opere derivate" non possano essere pienamente qualificate come licenze libere, dal
momento che non rispettano i dettami né della Free Software Definition, né della Open
Source Definition.

Tuttavia, proprio quelle due clausole rappresentano la maggiore "rottura" dell’approccio


della Creative Commons Foundation rispetto al paradigma "classico" delle licenze
libere. Se è pur vero che impedire il riutilizzo di un’opera a fini commerciali o la
modifica della stessa pregiudica in linea teorica la successiva diffusione dell’opera, allo
stesso modo va considerato come sia diritto dell’autore decidere di non autorizzare
quelle azioni. Il vantaggio delle licenze CC, rispetto alle altre licenze libere, è proprio
questo: garantire all’autore piena autonomia riguardo le condizioni da porre, pure se ciò
significa ottenere un risultato non propriamente in linea con la filosofia copyleft.

Ragionando per assurdo, si potrebbe ipotizzare un autore che intenda rilasciare la propria
opera con licenza libera, ma che allo stesso tempo intenda impedire a chiunque di poter
lucrare sulla propria opera, mosso dal principio per cui essa debba rimanere non solo
libera, ma anche gratis. Questa volontà entrerebbe in conflitto con la possibilità, insita
nelle licenze libere, di concedere il riutilizzo anche per fini commerciali, costringendo
l’autore ad adeguarsi obtorto collo, a creare una propria licenza d’uso oppure a
rinunciare a rilasciare il proprio lavoro con licenza libera.

Più pragmaticamente, è ragionevole supporre l’esistenza di autori che intendano favorire


quanto più possibile la diffusione del proprio lavoro (magari a scopo pubblicitario),
senza però essere costretti a cedere il diritto all’integrità dell’opera o i diritti di
sfruttamento commerciale. L’individuazione di queste due clausole permette, dunque,
anche a questi autori di poter usufruire dei benefici delle licenze libere, riducendo però
l’impatto negativo sui propri interessi.

Resta infine il meccanismo (già visto nella GPL e nelle altre licenze libere della FSF) di
terminazione automatica della licenza, in caso di violazione dei termini previsti (sezione
7).19

2.5.4. Il porting

Come accennato prima, il successo dell’iniziativa ha portato la CC Foundation, nel 2004,


a decidere di lanciare un progetto di "porting"20 delle licenze, ossia di "localizzazione"
delle licenze.

Il processo è portato avanti da una serie di associazioni e istituzioni, affiliate alla CC


Foundation, che operano da referenti per i vari progetti nazionali. "Tale impostazione
«gerarchica», che agli occhi di qualcuno può apparire poco calzante con la natura
spontanea/comunitaria della cultura opencontent, consente però di verificare il corretto
porting delle licenze e di realizzare iniziative d’informazione e sensibilizzazione in modo
efficace e coordinato".21

La necessità che il porting sia affidato a persone competenti nasce anche dal fatto che il
processo non si limita alla semplice traduzione delle licenze nelle varie lingue mondiali,
ma si allarga anche all’adattamento delle singole clausole ai vari ordinamenti nazionali.
Si può dire dunque che "le licenze CC francesi, italiane, giapponesi etc. sono dei
documenti sostanzialmente indipendenti, ispirati e adattati al diritto d’autore dei vari
Stati".22
In questo modo, la Creative Commons Foundation ha ritenuto di ovviare al problema sia
dell’interpretazione della licenza (dunque, della lingua ufficiale in cui essa è scritta), sia
della giurisdizione applicabile (dunque, della che regolamenta tale licenza) – fermo
restando la possibilità di utilizzare una licenza unported, ossia priva di previsioni
specifiche per un singolo Stato genericamente valida in tutto il mondo.

Il processo di localizzazione è iniziato nel 2004 in 12 Paesi, fra cui l’Italia. Attualmente,
sono disponibili ben 52 versioni locali23 ed altre 9 dovrebbero essere completate entro la
fine del 2010.24 Infine, è stata annunciata la creazione di nuovi capitoli locali in altri 11
Stati.25

2.5.5. Evoluzione delle licenze

Nel dicembre 2002, venne resa pubblica la versione 1.0 delle licenze Creative
Commons.26 Furono messe a disposizione ben 11 licenze, con una struttura ad una, due o
tre clausole.

Nel maggio 2004, venne rilasciata la versione 2.0: le licenze vennero ridotte da 11 a 6, in
seguito alla decisione di imporre la clausola "Attribution" come base in tutte le
licenze,27 anche per uniformarsi alle norme internazionali (ad esempio, l’art. 6-bis della
Convenzione di Berna) in materia di diritti morali.

Inoltre, vennero apportate delle modifiche minori, in seguito ai feedback ottenuti dagli
utenti. In particolare, vennero inserite alcune precisazioni sulle opere musicali e sulla
rinuncia a rivendicare i relativi diritti, sia in forma individuale che attraverso istituzioni
collettive, di ritrasmissione su supporti analogici o digitali.

Nel 2005, fu lanciata la versione 2.5, che riformulava lievemente alcune clausole, senza
modificarle sostanzialmente. Nel febbraio 2007, fu infine rilasciata la versione 3.0,28 che
costituisce al momento l’ultima versione disponibile delle famiglia di licenze CC.

Con questa nuova versione, viene definitivamente abbandonato l’impianto delle versioni
precedenti,29 dove si faceva ampio riferimento a norme ed istituzioni statunitensi,
coerentemente con il processo di porting in atto dal 2004. Viene inoltre inserito un
rimando esplicito alla Convenzione di Berna, alla Convenzione di Roma, al WIPO
Copyright Treaty, al WIPO Performances and Phonograms Treaty e alla Universal
Copyright Convention (sezione 8, punto f).

Riguardo i diritti morali, viene specificato il trattamento del diritto all’integrità


dell’opera, che confligge in alcuni ordinamenti con la possibilità di creare opere
derivate, concessa da alcune licenze CC.30 Pertanto, sia la versione generica che quelle
localizzate delle licenze garantiscono il diritto di produrre opere derivate (qualora
concesso dal licenziante) "to the fullest extent permitted by the applicable national law"
(sezione 4, punto c).31

Sempre in quest’ottica, è stato affrontato anche il problema delle c.d. "collecting


societies", ossia gli istituti e le società a cui si rivolgono gli autori per tutelare i propri
diritti (come la SIAE) che richiedono tassativamente agli autori di cedere i propri diritti
di sfruttamento alla società stessa, poiché essa possa amministrarli in loro vece.

La soluzione trovata concede all’autore, qualora intenda farlo e limitatamente agli


ordinamenti in cui sussistono obblighi di iscrizione a tali società, la possibilità di
riscuotere in prima persona tali diritti (sezione 3, punto e). Sono comunque in corso
trattative con le singole istituzioni per trovare una soluzione più adeguata riguardo il
compenso degli autori.32

È stato infine annunciato un progetto, per il momento ancora solo in fase di studio, per
superare i problemi di compatibilità fra licenze libere, in particolar modo fra la GFDL e
la Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo.

Lo scopo, afferma Lessig, è quello di rendere più stabili ed affidabili le licenze e


permettere una maggiore interoperabilità fra licenze, in modo che la cultura libera "will
no longer be ghettoized within a particular free license. It will instead be able to move
among all relevantly compatible licenses. And the world of «autistic freedom» that
governs much of the free software world will be avoided in the free culture world".33

2.5.6. Le altre licenze Creative Commons

In aggiunta alle sei licenze base sopra indicate, la CC Foundation ha prodotto altre
tipologie di licenze (alcune delle quali ritirate)34 che si rivolgono a particolari settori di
utilizzo: la licenza CC Developing Nations, le licenze CC Sampling, il protocollo CCPlus
e la licenza CC Zero.

La licenza CC Developing Nations era una licenza derivata dalla CC Attribuzione, basata
su "un intento di promozione culturale e di filantropia verso quelle parti del mondo in
cui, per ragioni economiche e tecnologiche, non sarebbe comunque possibile uno
sfruttamento commerciale dell’opera".35

In sostanza, un’opera rilasciata con questa licenza garantiva i diritti di copia, modifica e
distribuzione limitatamente ai Paesi in via di sviluppo, mantenendo invece la richiesta di
previa autorizzazione per i Paesi più sviluppati. La licenza fu, però, ritirata nel giugno
2007 sia perché poco utilizzata, sia perché la clausola precludeva (paradossalmente)
l’accesso di queste opere ai mercati occidentali.

Le licenze sampling sono un set di due licenze (inizialmente tre) dedicate


esclusivamente alle opere musicali, rectius alla possibilità di campionare frammenti di
un’opera musicale e riutilizzarli per comporne di nuove. La CC Sampling, poi ritirata,36
permetteva la copia e la trasformazione di parti (e non della totalità) dell’opera
originaria per qualsiasi scopo, eccezion fatta per quello pubblicitario.

Il divieto di copia e trasformazione della totalità dell’opera fu poi abbandonato con il


rilascio delle licenze CC Sampling Plus e CC Sampling Plus Non Commerciale. Restava
dunque il divieto di utilizzo a fini pubblicitari dell’opera modificata, a cui si aggiungeva
(con riguardo solo alla versione "non commerciale") il divieto di riutilizzo a fini
commerciali.

Il protocollo CC Plus (CC+), creato nel 2007, è "un protocollo che permette ad un
licenziante, in maniera semplice e immediata, di indicare quali ulteriori permessi sono
eventualmente associati ad un’opera licenziata sotto Creative Commons e in che modo
usufruire di tali permessi".37

In pratica, un autore può decidere di rilasciare un’opera attraverso una licenza CC e


prevedere delle condizioni aggiuntive per determinati utilizzi (ad esempio, gli scopi
commerciali). Il protocollo CC Plus permette di integrare queste condizioni aggiuntive,
attraverso un sistema simile a quello delle altre licenze CC, in modo da sfruttare le
semplificazioni offerte dal sistema.

Infine la licenza CC Zero (CC0), creata nel 2008, è una evoluzione della Creative
Commons Public Domain Certification,38 in base alla quale l’autore decide di rilasciare
la propria opera in pubblico dominio prima che trascorrano i 70 anni post mortem
auctoris.

"Si tratta in verità di una prassi abbastanza lontana dalla cultura giuridica dell’Europa
continentale [...] e più vicina a quella degli ordinamenti anglo-americani di
copyright",39 che sconta anche il difetto (al momento) di essere perlopiù incentrata
sull’ordinamento statunitense, adombrando qualche dubbio sulla efficacia della licenza –
peraltro, ancora ad uno stato iniziale – anche in altri ambiti nazionali.

Note

1. ↑ S. Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo, Viterbo, 2008, pag. 21. Il


testo di Hardin fu pubblicato per la prima volta su Science n. 3859 del 13 dicembre
1968 ed è disponibile al sito:
http://www.sciencemag.org/cgi/content/full/162/3859/1243.
2. ↑ All’epoca, la tutela era garantita per 50 anni post mortem auctoris o per 75 anni
dalla data di creazione di un’opera su commissione (corporate autorship). Tali
termini venivano così portati rispettivamente a 70 e 95 anni dal CTEA.
3. ↑ A. Rossato, "Le ragioni del libero accesso", in G. Ziccardi (a cura di), Nuove
tecnologie e diritti di libertà nelle teorie nordamericane, Modena, 2007, pag. 52.
4. ↑ A margine, bisogna notare come questo trasferimento non comporti anche
l’instaurarsi di un qualche rapporto giuridico fra le Fondazioni e chi utilizza le loro
licenze, anzi. Nota Aliprandi: "In gran parte di queste licenze compaiono chiari
avvertimenti in cui si ribadisce questa estraneità; tuttavia in varie occasioni [...]
emerge talvolta da parte di alcuni utenti la richiesta (in certi casi la pretesa) che
tali organizzazioni prendano posizione su alcuni dubbi interpretativi. Cosa che non
sono assolutamente tenute a fare, dato che [tali licenze] funzionano finché non è un
giudice a dichiarare l’invalidità di qualche clausola". Cfr. S. Aliprandi, Teoria e
pratica del Copyleft, op. cit., pag. 32.
5. ↑ Dati disponibili al sito: http://creativecommons.org/about/history.
6. ↑ A tal proposito, cfr. infra, par. 2.5.4. "Il porting".
7. ↑ A tal proposito, cfr. infra, par. 2.5.3. "La struttura delle licenze e le «clausole
base»".
8. ↑ S. Aliprandi, Teoria e pratica del Copyleft, op. cit., pag. 54.
9. ↑ Per "metadato" si intende la descrizione di un insieme di dati riguardanti un
singolo oggetto, come il contenuto, la disposizione, l’autore, la data di
pubblicazione, eccetera.
10. ↑ Ad esempio, la Creative Commons Foundation offre sul proprio sito un motore di
ricerca gratuito che permette di ricercare tutte le opere rilasciate con licenze
Creative Commons ed eventualmente di raffinare la ricerca, scegliendo solo quelle
licenze di cui si ha realmente bisogno.
11. ↑ I link di seguito indicati sono riferiti alla versione 3.0 Unported (ossia "generica")
della stessa.
12. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/legalcode.
13. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/3.0/legalcode.
14. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://creativecommons.org/licenses/by-nc/3.0/legalcode.
15. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://creativecommons.org/licenses/by-nd/3.0/legalcode.
16. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/legalcode.
17. ↑ Il testo originale della licenza è disponibile al sito:
http://creativecommons.org/licenses/by/3.0/legalcode.
18. ↑ S. Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo, op.cit., pag. 38.
19. ↑ In realtà, questo meccanismo è esplicitamente limitato alle sole sezioni 3 e 4, dal
momento che le altre sezioni "will survive any termination of this License".
20. ↑ Per "porting" si intende, in ambito informatico, un adattamento o una modifica di
un programma, volto a consentirne l’uso in ambiti diversi da quello originale.
Mutatis mutandis, lo scopo era ottenere un effetto simile anche per le licenze.
21. ↑ S. Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo, op.cit., pag. 25.
22. ↑ S. Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo, op.cit., pag. 26.
23. ↑ In stretto ordine alfabetico: Argentina, Australia, Austria, Belgio, Brasile,
Bulgaria, Canada, Cile, Cina, Repubblica di Cina (Taiwan), Colombia, Corea del
Sud, Croazia, Danimarca, Ecuador, Filippine, Finlandia, Francia, Germania,
Giappone, Grecia, Guatemala, Hong Kong, India, Israele, Italia, Lussemburgo, ex-
Repubblica Iugoslava di Macedonia, Malaysia, Malta, Messico, Nuova Zelanda,
Norvegia, Paesi Bassi, Perù, Polonia, Portogallo, Puerto Rico, Regno Unito
(Inghilterra e Galles), Regno Unito (Scozia), Repubblica Ceca, Romania, Serbia,
Singapore, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Sudafrica, Svezia, Svizzera, Thailandia,
Ungheria.
24. ↑ In stretto ordine alfabetico: Armenia, Azerbaigian, Egitto, Georgia, Giordania,
Irlanda, Nigeria, Ucraina, Vietnam.
25. ↑ In stretto ordine alfabetico: Bangladesh, Costa Rica, Estonia, Islanda, Indonesia,
Siria, Slovacchia, Tanzania, Tunisia, Turchia, Venezuela.
26. ↑ G.O. Brown, "Creative Commons Unveils Machine-Readable Copyright
Licenses", Creative Commons Foundation, 16 dicembre 2002. Disponibile al sito:
http://creativecommons.org/press-releases/entry/3476.
27. ↑ La decisione fu presa poiché, stando alle statistiche sulla versione 1.0, il 97-98%
circa degli utenti scelse di utilizzare questa clausola da sola o in combinazione con
altre. Cfr. G.O. Brown, "Announcing (and explaining) our new 2.0 licenses",
Creative Commons Foundation, 25 maggio 2004. Disponibile al sito:
http://creativecommons.org/weblog/entry/4216.
28. ↑ M. Garlick, "Version 3.0 Launched", Creative Commons Foundation, 23 febbraio
2007. Disponibile al sito: http://creativecommons.org/weblog/entry/7249.
29. ↑ Rileva notare come questo impianto sia stato, di fatto, trasferito nelle versioni
localizzate delle licenze CC per gli Stati Uniti.
30. ↑ In merito, nota Mia Garlick, Consigliera della CC Foundation: "Obviously, the
first generic version 1.0 license suite released in December 2002 did not mention
moral rights because it was based on US copyright law[, which] only grants very
limited moral rights to works of fine art. However, [...] now that the licenses have
been ported to over 30 jurisdictions, we felt that it was time to harmonize the
approach to this issue at both the Legal Code level and the Commons Deed level".
Cfr. M. Garlick, Creative Commons Version 3.0 Licenses - A Brief Explanation,
Creative Commons Foundation (ultima modifica: 24 giugno 2009). Disponibile al
sito: http://wiki.creativecommons.org/Version_3.
31. ↑ Riguardo il problema della giurisdizione applicabile, cfr. in particolare S.
Aliprandi, Teoria e pratica del Copyleft, op. cit., pagg. 29-31.
32. ↑ S. Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo, op. cit., pag. 46.
33. ↑ L. Lessig, "CC in Review: Lawrence Lessig on Compatibility", Creative
Commons Foundation, 30 novembre 2005. Disponibile al sito:
http://creativecommons.org/weblog/entry/5709.
34. ↑ Per "licenza ritirata" si intende una licenza che non viene più pubblicizzata
dall’istituzione che l’ha prodotta e la cui ulteriore adozione è anzi fortemente
scoraggiata dalla stessa. Ciò tuttavia non implica che la licenza, laddove adottata,
perda di efficacia giuridica.
35. ↑ S. Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo, op. cit., pag. 86.
36. ↑ La licenza CC Sampling "base" fu ritirata anch’essa nel giugno 2007,
contestualmente alla licenza CC Developing Nations, più o meno per gli stessi
motivi di quest’ultima.
37. ↑ A. Glorioso, "Creative Commons annuncia due nuovi progetti: CC Plus e CC
Zero", Creative Commons, 20 dicembre 2007. Disponibile al sito:
http://www.creativecommons.it/node/608.
38. ↑ Il testo originale della Dichiarazione è disponibile al sito:
http://creativecommons.org/licenses/publicdomain/.
39. ↑ S. Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo, op. cit., pag. 42.
In conclusione di questa analisi, rileva affrontare alcuni aspetti dubbi delle licenze
libere, ancora oggi non risolti e che probabilmente saranno forieri di nuove evoluzioni
delle stesse nei prossimi anni.

2.6.1. Irrevocabilità di una licenza libera

Un dubbio legittimo riguarda gli effetti di un possibile ripensamento dell’autore rispetto


alla sua scelta di rilasciare un’opera con licenza libera, ossia se sia possibile compiere il
percorso "inverso".

L’atto di sostituire dei termini di licenza permissivi con altri più restrittivi è pienamente
nelle possibilità dell’autore: l’intera impostazione copyleft discende, come abbiamo
visto, dalla disciplina contrattuale, facendo leva proprio sul principio di autonomia
contrattuale dell’autore rispetto ai licenziatari. Le parti, così come sono libere in
qualsiasi momento di stipulare un contratto, sono anche libere di porre termine ai
rapporti giuridici da esso derivanti in qualsiasi momento.

La natura particolare delle licenze libere, tuttavia, rende particolarmente labile la


definizione di licenziatario: essendo questi indefinibile, poiché l’opera può essere
utilizzata da chiunque, "è poco praticabile che il licenziante, qualora decida di cambiare
i termini della licenza, prenda contatti con tutti i licenziatari che hanno usufruito di essa
per concordare il cambiamento".1

Rileva anche notare come sia impossibile, in virtù degli obblighi contratti con la
precedente licenza accordata, richiedere anche la cessazione di ogni attività
precedentemente garantita. È per questi motivi che, fra gli esperti in materia, è opinione
comune considerare le licenze libere come sostanzialmente irrevocabili.

Un possibile escamotage è quello di modificare sostanzialmente l’opera, al punto da


renderla, per quanto possibile, "nuova" rispetto all’originale. In questo senso, i termini
della vecchia licenza sarebbero applicabili solo alla "vecchia" versione.

2.6.2. Legge applicabile

Un altro aspetto particolarmente analizzato in dottrina è quello della giurisdizione


applicabile, in caso di controversia riguardo una data licenza. Il problema è amplificato
dalle differenze, a volte sensibili, fra i vari ordinamenti giuridici – che possono anche
arrivare a fondarsi su concetti diversi, come il copyright per i sistemi anglo-sassoni e il
droit d’auteur per i sistemi europei continentali. È questo un problema non di poco
conto, se consideriamo che ormai un’opera può essere facilmente prodotta in un Paese e
"consumata" in un altro.
Stando alla lettera della Convenzione di Roma2 (peraltro integrata all’interno del sistema
WTO), le parti contraenti sono libere di scegliere quale diritto applicare in maniera
espressa, ovvero la scelta deve risultare dalle disposizioni del contratto o dalle
circostanze (art. 3, par. 1).

Dal momento però che le licenze libere rientrano nella categoria delle c.d. browse-wrap
licences,3 "è logicamente impossibile che il licenziatario possa esprimere pienamente la
sua scelta; potrà al massimo accettare la scelta indicata dal licenziante nel testo della
licenza".4 Dunque, si dovrebbe ritenere applicabile quanto disposto ex art. 4, par. 1, ossia
che "il contratto è regolato dalla legge del paese col quale presenta il collegamento più
stretto".

Sebbene la Convenzione indichi a titolo esemplificativo alcune delle fattispecie in cui si


può presumere tale "collegamento stretto", è comunque sempre al giudice che spetta
determinare quale sia il criterio corretto e, di conseguenza, l’ordinamento applicabile.

Ex art. 7, par. 2, comunque, il giudice non può esimersi dall’applicare le norme in vigore
nel proprio Paese "le quali disciplinano imperativamente il caso concreto
indipendentemente dalla legge che regola il contratto". Questo aspetto è particolarmente
importante, poiché potrebbe determinare esiti diversi a seconda del Paese in cui si sta
svolgendo il procedimento.

Un caso emblematico potrebbe riguardare la c.d. "clausola virale" o "clausola copyleft",


che impone il rilascio di qualsivoglia opera derivata con gli stessi termini di riutilizzo
dell’opera originaria:5 una dichiarazione di invalidità di questa clausola potrebbe far
decadere l’obbligo di licenziare un’opera derivata con la stessa licenza, minando le
fondamenta stesse del modello copyleft.

Si è già notato durante l’analisi del "caso Sitecom" come, nell’ordinamento tedesco, essa
sia stata considerata parzialmente invalida, laddove sia considerata motivo di revoca in
personam dei diritti accordati. Non così potrebbe essere, invece, nell’ordinamento
italiano: Sanseverino, ad esempio, nota che la violazione della c.d. clausola virale,
essendo essa "un particolare esercizio negoziale delle facoltà esclusive garantite dal
diritto d’autore", comporta la responsabilità di chi non vi ottempera "in termini di
inadempimento e non di avveramento di una condizione risolutiva".6

Spolidoro a sua volta nota, analizzando nello specifico la sezione 4 della GPL, come essa
ponga "una serie di problemi giuridici di non agevole soluzione", come può essere, ad
esempio, la mancata distinzione riguardo la gravità della violazione, "dato che la licenza
GPL sembra ammettere la risoluzione anche in caso di violazione non grave".7

Alla luce di ciò, appare ancora più intelligente la decisione adottata dalla CC di
"localizzare" le proprie licenze e di svincolare la versione "Unported" dall’ordinamento
statunitense – dipendenza dalla quale la GPL e le altre licenze della FSF sembrano
ancora oggi soffrire.

2.6.3. Tutela effettiva dei diritti morali

In ultimo, rileva notare qualche difficoltà nella gestione dei diritti morali, che pure
risultano essere particolarmente importanti all’interno del fenomeno copyleft. In
particolare, Sanseverino pone il problema di individuare in che misura è possibile ancora
parlare di lesioni dei diritti morali ed in che modo è possibile garantire tutela contro una
loro violazione.

Dal momento che è concessa da quasi tutte le licenze libere la facoltà di modificare
liberamente la propria opera, de facto il diritto morale all’integrità dell’opera viene
volontariamente non perseguito in parte dai singoli autori. "In parte", si diceva, poiché
va da se che "il diritto dell’autore ad opporsi ad ogni atto in danno dell’opera, lesivo
altresì della sua reputazione, sembra invece avere un’applicazione più concreta".8

Resta da determinare se il diritto di opporsi a tali modifiche possa essere rivendicato


solo in modo congiunto da tutti gli autori coinvolti, ovvero anche da uno solo degli
autori. Una soluzione sembra essere stata individuata fin dall’inizio dalla FSF, con la
pratica di alienazione di tutti i diritti in capo ai singoli autori a favore della Fondazione
stessa, la quale assume anche l’incarico di tutelare tali autori da eventuali violazioni.
Similmente, la CC Foundation amministra i diritti degli autori che rilasciano le proprie
opere con licenze Creative Commons.

Sanseverino, tuttavia, si dimostra particolarmente scettico riguardo questa soluzione,


parlando di un complessivo "abbassamento del livello di tutela dei diritti morali, a
fronte di una base di regole comuni ai diversi sistemi"9 e notando come sia piuttosto
stata ideata per tutelare la diffusione delle opere, essendo il riconoscimento dei diritti
morali un potenziale ostacolo al loro utilizzo.

Pur trattandosi di una posizione parzialmente condivisibile, va riconosciuto innanzitutto


che la cessione ad una istituzione terza non pregiudica la possibilità per il singolo di
adire le vie legali per tutelare i propri diritti. Inoltre, la prassi dimostra proprio come
queste istituzioni terze siano state capaci di far valere il proprio peso in casi del genere.
Il problema è semmai, ancora una volta, riconducibile ai differenti schemi di tutela
nazionale.

Note

1. ↑ S. Aliprandi, Teoria e pratica del Copyleft, op. cit., pag. 37.


2. ↑ A margine, si deve notare come la disciplina della Convenzione di Roma sia da
considerarsi obsoleta in ambito UE, in seguito all’introduzione del Regolamento n.
593 del 17 giugno 2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (c.d.
Regolamento "Roma I"), il cui testo è disponibile al sito: http://eur-
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:177:0006:0006:IT:PDF.
3. ↑ Per una definizione, cfr. infra, par. 2.1.2. "La nozione di licenza libera".
4. ↑ S. Aliprandi, Copyleft & opencontent. L’altra faccia del copyright, Lodi, 2005,
pag. 103.
5. ↑ La presenza di una clausola del genere, in verità, non è inedita: già i software
proprietari di grandi industrie informatiche adottano clausole che condizionano
l’ulteriore circolazione di una copia regolarmente acquistata all’accettazione, da
parte dei successivi utilizzatori, delle condizioni d’uso. Cfr. G. Sanseverino, op. cit.,
pag. 99.
6. ↑ G. Sanseverino, op. cit., pagg. 102-103.
7. ↑ M.S. Spolidoro, op. cit., pag. 97.
8. ↑ G. Sanseverino, op. cit., pag. 84.
9. ↑ G. Sanseverino, op. cit., pagg. 86-87.
"Evoluzione" e "complementarietà" sembrano le due parole più adatte a sintetizzare
l’intera analisi: il copyleft rappresenta un’evoluzione, dai risvolti ancora non pienamente
esplicati, del copyright – le cui regole non saranno totalmente soppiantate, ma affiancate
dalle nuove.

È necessario ricordare come sia completamente fuori luogo immaginare un mondo


futuro senza copyright, dal momento che "l’imposizione di certe regole di utilizzo del
programma, sia pure di contenuto più permissivo [...], attraverso il modello contrattuale
della licenza, costituisce pur sempre esercizio di un’esclusiva d’autore, e cioè comporta
l’imposizione di regole di utilizzo al licenziatario, cioè esercizio del copyright".1

Queste nuove regole hanno avuto il pregio di scardinare alcuni luoghi comuni
sull’attuale sistema di tutela, di rendere note e criticabili le distorsioni più evidenti e di
fornire una alternativa praticabile e costruttiva, tale da far intravedere una via
percorribile che possa in futuro riequilibrare la ricerca del profitto e i profitti della
ricerca.

Si può riconoscere, dunque, che il profitto economico "non è il solo stimolo della ricerca
scientifica e tecnologica, e non è il solo strumento capace di indirizzarla verso obiettivi
socialmente utili"2 – con ciò falsificando una delle estremizzazioni recenti operate da chi
difende l’attuale sistema di tutela dei diritti – e che la ricerca è soprattutto condivisione
delle idee, che la produzione di nuove opere (sia letterarie che tecniche) può essere anche
frutto di una rielaborazione di ciò che altri hanno prodotto in passato.

Il funzionamento di questo paradigma è stato analizzato e dimostrato ampiamente in


questa analisi, dunque non si ritiene di dovervi ritornare. Tuttavia, così come è lecito
aspettarsi un’improvvisa impennata nella produzione di opere culturali e creative,
similmente a quanto avvenuto in ambito informatico, è altrettanto lecito nutrire dubbi
sulla qualità di queste nuove opere.

Sarà proprio la qualità uno dei banchi di prova del futuro: se il tempo ha dimostrato che
in ambito informatico la sfida è stata vinta, non è detto che una vittoria del genere possa
essere replicata in ambito culturale, dove non è il bene e la sua funzionalità a fare la
differenza, quanto i gusti del consumatore. "Sarà dunque importante verificare se, negli
anni a venire, i commons creativi continueranno ad essere alimentati da prodotti di
buona qualità, ovvero se si ridurranno a veicolo di distribuzione di contenuti di seconda
scelta".3

Allo stesso modo, sarà di enorme interesse anche valutare le reazioni dei "grandi autori"
rispetto a questo nuovo fenomeno. Al momento si registrano già importanti adesioni: un
esempio abbastanza importante è dato dal canale satellitare di informazione arabo al-
Jazeera, che agli inizi del 2009 ha creato un Creative Commons Repository, ossia una
collezione di registrazioni video effettuate dall’emittente rilasciate con licenza CC
Attribuzione. A questo si è poi aggiunta la piattaforma blog per i propri giornalisti,
interamente rilasciata con licenza CC Attribuzione-Non commerciale-Non opere
derivate.

Un altro esempio interessante è il progetto OpenCourseWare, promosso dal


Massachusetts Institute of Technology (MIT), col quale il prestigioso ateneo statunitense
rilascia con licenza CC Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo
materiali e testi che vengono utilizzati per i loro corsi. Sulla stessa falsariga si inserisce
la Public Library of Science (PloS), un’organizzazione no profit che raccoglie
pubblicazioni in ambito medico e scientifico e che rilascia i propri contenuti con licenza
CC Attribuzione.

Per quanto riguarda gli autori "non professionisti", "è evidente che lo straordinario
successo riscontrato dal modello creative commons è in buona parte dipeso anche dal
fatto che il sistema di beni comuni creativi proposto ha rappresentato, in ultima analisi,
l’attesa risposta ad un’esigenza già da tempo spontaneamente avvertita",4 soprattutto
per quelle piattaforme che ospitano prevalentemente o solamente contenuti prodotti dai
propri utenti (i c.d. user generated content) come Flickr e Wikipedia.

Tutto questo non ci autorizza comunque a trarre conclusioni definitive: le dinamiche dei
mercati interessati sono complesse e differiscono da ambito ad ambito. Le stesse
ricerche economiche condotte finora hanno avuto modo di individuare solo delle linee di
tendenza generali. Tuttavia, è stato raggiunto un risultato, che Sanfilippo giustamente
riteneva fondamentale: "sin quando i mondi open source non si aggregheranno intorno a
centri di interessi, specie imprenditoriali, [...] la tutela dell’ordinamento riguardo al
fenomeno in discorso non può che continuare a mostrare i tratti di una tutela debole".5

Vale la pena ricordare ancora una volta come questo risultato dipenda dalla correttezza
di fondo dell’approccio, sia nei suoi principi che nella sua applicazione, e da come
questo si sia combinato con la produzione di opere di qualità a basso costo. Così come
vale la pena sottolineare ancora l’eccezionale evoluzione rappresentata dalle licenze
Creative Commons e, in particolar modo, dalle due clausole più limitative (la Non
commerciale e la Non opere derivate). Proprio queste limitazioni, pur entrando in
conflitto con l’approccio classico delle licenze libere, permetteranno una transizione più
morbida di certi autori verso il nuovo modello, senza pregiudicare i loro diritti.

Il fenomeno del copyleft, infine, permette di opporre una alternativa credibile e


costruttiva alla posizione estremamente restrittiva adottata dagli Stati membri del WTO
e della WIPO riguardo la tutela della proprietà intellettuale. Come già notato
nell’analisi, la filosofia "open" potrebbe essere la chiave per rispettare gli obblighi
pattizi contratti dai Paesi occidentali nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, riguardo
le promesse di trasferimento di tecnologia e di cooperazione tecnica ed economica.
Senza contare che potrebbe costituire un metodo anche per la tutela e la salvaguardia del
patrimonio culturale in quei Paesi in cui scarseggiano i fondi relativi.

Questo presupporrebbe comunque la rettifica della posizione fin qui tenuta da molti
Paesi occidentali, così come la decisione di rivedere in senso più permissivo gli accordi
che regolamentano brevetti e licenze, senza che questo pregiudichi i legittimi diritti di
chi crea opere. Serve, insomma, una soluzione politica ad un fenomeno che non deve
essere criminalizzato, né soppresso, ma solo regolamentato.

Note

1. ↑ G. Giannelli, "Open source e diritti morali", in M. Bertani (a cura di), op. cit., pag.
200.
2. ↑ G. Sartor, "Proprietà e comunione del sapere informatico", in M. Bertani (a cura
di), op. cit., pag. 147.
3. ↑ M.G. Jori, "Creative Commons: passato, presente e futuro dei beni comuni", in G.
Ziccardi (a cura di), op. cit., pagg. 77-78.
4. ↑ M.G. Jori, op. cit., pag. 81.
5. ↑ P.M. Sanfilippo, "Organizzazione dei mondi open source: i controlli sulle opere",
in L.C. Ubertazzi (a cura di), op. cit., pag. 66.
1. Libri

Simone Aliprandi, Copyleft & opencontent. L’altra faccia del copyright, Lodi, 2005
Simone Aliprandi, Creative Commons: manuale operativo, Viterbo, 2008
Simone Aliprandi, Teoria e pratica del Copyleft, Rimini, 2006
Michele Bertani, Guida alle licenze di software libero e open source, Milano, 2004
Lawrence Lessig, Cultura libera, Milano, 2005
Giovanni Pascuzzi, Roberto Caso, I diritti sulle opere digitali: copyright
statunitense e diritto d’autore italiano, Padova, 2002
Paolo Picone, Aldo Ligustro, Diritto dell’Organizzazione mondiale del commercio,
Padova, 2002
Giuseppe Sanseverino, Le licenze free ed open source, Napoli, 2007
J.A.L. Sterling, World copyright law, Londra, 2003 (2ª ed.)
Dan Tapscott, Anthony D. Williams, Wikinomics, Milano, 2007
Gabriella Venturini, L’Organizzazione Mondiale del Commercio, Milano, 2004 (2ª
ed.)
Giovanni Ziccardi, Il diritto d’autore nell’era digitale, Milano, 2001
Giovanni Ziccardi (a cura di), Nuove tecnologie e diritti di libertà nelle teorie
nordamericane, Modena, 2007
AA.VV., Copyright digitale, Torino, 2009

2. Raccolte e riviste

Michele Bertani (a cura di), Quaderni di AIDA, n. 13, Milano, 2005


Luigi Carlo Ubertazzi (a cura di), AIDA – Annali italiani del diritto d’autore, della
cultura e dello spettacolo, Milano, Vol. XIII, 2004
Dr. Dobb’s Journal of Computer Calisthenics & Orthodontia, Running Light
Without Overbyte, Vol. 1, n. 5, maggio 1976
Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 16, gennaio-aprile 2004

3. Pubblicazioni e relazioni

John Perry Barlow, Selling Wine Without Bottles – The Economy of Mind on the
Global Net, 1992. Disponibile al sito:
http://w2.eff.org/Misc/Publications/John_Perry_Barlow/HTML/idea_economy_article.htm
Allan Fels, Intellectual Property, Competition & Trade Policy Implications of
Parallel Import Restrictions, relazione svolta nell’ambito del Convegno "Trade,
Competition & Development", Roma, 23 maggio 2001. Disponibile al sito:
http://www.accc.gov.au/content/index.phtml/itemId/255604
Mia Garlick, Creative Commons Version 3.0 Licenses – A Brief Explanation,
Creative Commons Foundation (ultima modifica: 24 giugno 2009). Disponibile al
sito: http://wiki.creativecommons.org/Version_3
John Alex Halderman, Edward William Felten, Lessons from the Sony CD DRM
Episode, Center for Information Technology Policy, Department of Computer
Science, Princeton University, 14 febbraio 2006. Disponibile al sito:
http://www.copyright.gov/1201/2006/hearings/sonydrm-ext.pdf
Eben Moglen, FSF Statement on SCO v. IBM, Free Software Foundation (ultimo
aggiornamento: 29 luglio 2008). Disponibile al sito:
http://www.gnu.org/philosophy/sco/sco-v-ibm.html
Richard Stallman, The BSD License Problem, Free Software Foundation (ultimo
aggiornamento: 18 marzo 2003). Disponibile al sito:
http://www.gnu.org/philosophy/bsd.html
Richard Stallman, The GNU Project, Free Software Foundation (ultimo
aggiornamento: 11 gennaio 2010). Disponibile al sito:
http://www.gnu.org/gnu/thegnuproject.html
Frequently Asked Questions about the GNU Licenses, Free Software Foundation
(ultimo aggiornamento: 30 novembre 2009). Disponibile al sito:
http://www.gnu.org/licenses/gpl-faq.html
Internet Users’ Glossary, Request for Comments 1392, gennaio 1993. Disponibile
al sito: http://www.rfc-editor.org/rfc/rfc1392.txt
Open Source Definition (annotated), versione 1.9, Open Source Initiative.
Disponibile al sito: http://www.opensource.org/docs/definition.php
License update, Wikimedia Foundation, 1° dicembre 2007. Disponibile al sito:
http://wikimediafoundation.org/wiki/Resolution:License_update
Selling Free Software, Free Software Foundation (ultimo aggiornamento: 7 gennaio
2010). Disponibile al sito: http://www.gnu.org/philosophy/selling.html
The Free Software Definition, Free Software Foundation (ultimo aggiornamento: 30
dicembre 2009). Disponibile al sito: http://www.gnu.org/philosophy/free-sw.html
Transcript of Richard Stallman at the 2nd international GPLv3 conference; 21st
April 2006, Free Software Foundation Europe (ultima modifica: 14 aprile 2009).
Disponibile al sito: http://fsfe.org/projects/gplv3/fisl-rms-transcript.en.html
What is Copyleft?, Free Software Foundation (ultimo aggiornamento: 8 gennaio
2010). Disponibile al sito: http://www.gnu.org/copyleft/copyleft.html
Why you shouldn’t use the Lesser GPL for your next library, Free Software
Foundation (ultima modifica: 8 dicembre 2008). Disponibile al sito:
http://www.fsf.org/licensing/licenses/why-not-lgpl.html

4. Articoli e siti web

Glenn Otis Brown, "Announcing (and explaining) our new 2.0 licenses", Creative
Commons Foundation, 25 maggio 2004. Disponibile al sito:
http://creativecommons.org/weblog/entry/4216
Glenn Otis Brown, "Creative Commons Unveils Machine-Readable Copyright
Licenses", Creative Commons Foundation, 16 dicembre 2002. Disponibile al sito:
http://creativecommons.org/press-releases/entry/3476
Ed Christman, "2009 Sales Wrap: Transactions Up As Digital Growth Slows",
Billboard, 6 gennaio 2010. Disponibile al sito: 641dba4e3f0c59
Mia Garlick, "Version 3.0 Launched", Creative Commons Foundation, 23 febbraio
2007. Disponibile al sito: http://creativecommons.org/weblog/entry/7249
Andrea Glorioso, "Creative Commons annuncia due nuovi progetti: CC Plus e CC
Zero", Creative Commons, 20 dicembre 2007. Disponibile al sito:
http://www.creativecommons.it/node/608
Martin LaMonica, "New open-source license targets DRM, Hollywood", ZDNet
News, 18 gennaio 2005. Disponibile al sito: http://news.zdnet.com/2100-1040_22-
146399.html
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NPD Group, 18 agosto 2009. Disponibile al sito:
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"Novell Challenges SCO Position, Reiterates Support for Linux", Novell Press
Release, 28 marzo 2003. Disponibile al sito:
http://www.novell.com/news/press/archive/2003/05/pr03033.html
"Wikimedia community approves license migration", Wikimedia Foundation, 21
maggio 2009. Disponibile al sito: http://blog.wikimedia.org/2009/05/21/wikimedia-
community-approves-license-migration/
Essendo questo l’ultimo atto della mia carriera universitaria, ritengo sia giusto esprimere
tutta la mia gratitudine alle persone che mi hanno accompagnato in questi anni.

Prima di cominciare: no, non siete in ordine di importanza. Solo e rigorosamente in


ordine sparso. E no, non finiscono qui i grazie che vi meritate.

Grazie alla prof.ssa Deli e al prof. Di Gaspare, per la supervisione, l’aiuto, l’interesse
che hanno dimostrato in questi mesi nei confronti del mio lavoro – ed ancor di più per la
pazienza che hanno avuto.

Grazie ai miei genitori e alla mia famiglia, che ora esplicitamente, ora silenziosamente,
hanno creduto in me e mi hanno sostenuto, che mi hanno sempre fatto arrivare il loro
affetto, che mi hanno fatto capire quanto sono fortunato ad averli avuti vicino in questi
anni.

Grazie a Gabriella, entrata a pieno titolo nella mia nozione di "famiglia". Non esistono
parole per descrivere l’affetto che provo per lei, che si è rivelata la persona più affidabile
e straordinaria che abbia mai conosciuto. E grazie anche alla sua impagabile famiglia, a
cui sento di voler bene quasi fosse la mia.

Grazie a Margherita, per avermi concesso l’onore ed il piacere di condividere a lungo il


mio cammino, per avermi sostenuto e sopportato, per aver creduto e continuato a credere
in me. Spero di averla ricambiata con tutto l’affetto di cui sono capace.

Grazie a Giuliano. Mentirei se negassi che mi manchi da morire. Grazie a te, il mio
destino e quello di tantissimi altri si sono incrociati e continuano ad incrociarsi in
diecimila declinazioni diverse. Grazie a te, tante cose sono successe e continuano a
succedere. Dio doveva avere davvero bisogno di una mano a gestire la sua agendina, se ti
ha chiamato.

Grazie a Ilaria e Olimpia. Il vostro valore si desume da quanto profondamente avete


segnato la mia vita, pur avendone fatto parte per così poco.

Grazie a Mauro, Lucia, Cristina, Luigi, Ciprian, Alessandra, Lorenzo, Marco, Flavio,
Teresa M., Francesca C.P., Federica, Daniele, Fabrizio, Francesco, Enzo, Gabriele, Elisa,
Tommaso, Elia, Barbara, Danilo, Teresa D.V., Filippo, Matteo Francesco, Edoardo,
Daniel, Simone, Eleonora, Francesca G., Flavia, Ilaria, Moran, Georgia, Cristina P. e tutti
– sì, proprio tutti – quelli dell’allegra banda di Roma Tre: quelli che hanno frequentato
con me i corsi, quelli che hanno collaborato assieme a me alla biblioteca di facoltà,
quelli che hanno condiviso con me l’impegno e le esperienze di IAPSS Roma Tre, quelli
che ho conosciuto e basta.

Grazie ad Alessandro, Antonio, Claudia, Giulio, Riccardo, Alba ed Ana, Sandro, Olivia e
Luca, che con Roma Tre non c’entrano direttamente, ma che io considero parte della
Casa Piramidale numero 3.

Grazie alla "Compagnia della Cena" (conosciuta in alcune culture subequatoriali anche
come "Associazione Culturale 416"), cioè Enrico, Claudia, Giulia, Carlo, Marianna ed
Alessandro. Grazie ad "Enzo" e al suo cinque per mille.

Grazie a Elisa, Salvatore, Pascal, Adriano, Alessandro, Pietro, Martina e tutti quelli che
hanno collaborato, collaborano e collaboreranno a LiberalCafè. E grazie anche a Mirella,
Lorenzo, Renato, Gabriele e tutto il gruppetto di BetaLib.

Grazie a Geppi, il mio primo, fantastico direttore, che mi ha costretto a prendere


coscienza di cosa vuol dire vivere a Roma e mi ha fornito una possibilità straordinaria di
espressione, nonostante avessi solo 16 anni e mezzo. Grazie ad Antonello, Luigi Oreste,
Silvio, Elena, Alessandro, Sonia e tutta la fantastica redazione di nuova Agenzia
Radicale e Quaderni Radicali.

Grazie a Filippo, Barbara, Michael "Soppy Raccoon", Astrid, Marco, Stefano, Elena,
Simonetta, Alberto, Deborah, Isabella, Tommaso, Luigi, Aldo, Anna, Sonia e tutto il
mondo fantastico che gravita(va) intorno al Cannocchiale.

Grazie ad Alessio (un mito per me, un esempio per tutti), Orlando, Roberto, Chiara,
Alessia e tutti quelli di ASP Roma Luiss, ai ragazzi di ELSA, AEGEE e delle altre
associazioni studentesche con cui ho avuto modo di collaborare in passato.

Grazie a Snowdog, M/, Gac, G., Frieda, JollyRoger, Brownout, Civvi, MM,
DracoRoboter, BrokenArrow, Jalo, Senpai, Pap3rinik, Cruccone, Biopresto, Elitre,
Sigfrido, Sbisolo, TierrayLibertad, Paginazero, Lusum, Retaggio, Triquetra, Jaakko, Gvf,
Xaura, Tooby, Torsolo, Luisa, Leoman3000, Cloj, Skyluke, KS,
Sogeking/Barbarian/Barbaking, Superchilum, Gvnn, Jaqen, VirtualSkiz, Sirabder, Helios,
OrbiliusMagister, Piero Montesacro, AubreyMcFato, LaPizia, Kiado, Remulazz, Melos,
Abisys, Vituzzu, valepert, Trixt, .anaconda, Alfreddo, Aeternus, Rael, PietroDN, Wim_b,
Giac, BlakWolf, Austroungarika, Gian_d, Klaudio, Ilario, Roberto Mura, Demart,
Gregorovius, Vale maio, BlackCat, GuidoMac, Vipera, Ask21, WindowsUninstall...
insomma, agli utonti, agli admincosi e agli IP anonimi di Wikipedia: senza di voi questa
tesi non sarebbe esistita, né io avrei imparato l’importanza del metodo, della ricerca,
della neutralità nell’esposizione, dell’ignorare le regole e dell’essere grassetti, seguendo
il buon senso.

Grazie a tutti "Quelli della 307" e di RadioLuiss, in particolare Domenico, Emanuele,


Luca, Tommaso, Alessandro, Matteo, Enrico M., Enrico G., Piergiorgio, Valeria, Andrea
A., Enrico V., Stefania, Ornella, Matteo "Matolas", Denise e Samantha. Grazie a
Lorenzo, il tutor, quello che tutti dovrebbero avere. Grazie ad Emiliano e Rudy. In
particolare di esistere.

Grazie a Cristiana Carletti, Raffaele Cadin, Cristiano Zagari, Simona Stabile e Stefano
Milia per avermi dimostrato il valore della competenza e dell’esempio.

Grazie ad Anna Erika, Yoana, Alejandro, Pepi, Gina, Lora, Katarina, Alexander, Davide,
Amra, Anamarija, Tom, Vedran, Veronika, Mirsada, Constantina, Nikola, Bogdan,
Zdravko e tutta l’allegra brigata di Belgrado.

Grazie a Pietro, Arianna, Nicola, Massimiliano, Dario, Lucilla, Biagio e tutti gli
"austriaci" per gli interessanti martedì che passiamo insieme.

Grazie a Marco P., Emma B., Adelaide A., Gianfranco S., Luca C., Piergiorgio W.,
Giovanni N., Massimo B., Enzo T., Domenico M., Donatella P., Rita B., Marco C., Maria
Antonietta F.C., Elisabetta Z., Sergio D’E., Giulia I., la redazione di Radio R.,
Alessandro M., Eleonora P. e tutti i compagni della Galassia Radicale, con cui condivido
l’intenzione di essere il cambiamento che vogliamo.

"Tutte le autorità vennero poi furtivamente varate a parte." (cit.)


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