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L’OPERA QUINTA CORELLIANA: NOTA INTRODUTTIVA

di
Matteo De Padova

ORIGINE DELLA MUSICA STRUMENTALE


Per tutto il Cinquecento il modello supremo di composizione era stato la musica vocale, che
combina suono, ritmo e parola: il suono parla all’anima, il ritmo al corpo e la parola all’intelletto;
insieme agiscono sulla totalità dell’uomo. La musica strumentale, basata solo sul suono e sul ritmo,
aveva la sua importanza, ma non avendo la parola non poteva raggiungere l’intelletto e quindi
appariva per certi aspetti incompleta e meno efficace della musica vocale. Le musiche strumentali
furono composte e pubblicate per tutto il secolo come derivazioni di quelle vocali e gli strumenti
erano tanto più lodati quanto più riuscivano ad imitare le inflessioni della voce umana.
Questo accadde anche nell’Italia del Cinquecento, quando si cominciò ad assumere la pratica di
trascrivere in veste strumentale la chanson vocale francese. In un primo tempo le chanson erano
destinate solo ad una esecuzione strumentale fatta in prevalenza sul liuto; in seguito, invece, si
passò a una produzione consistente di composizioni elaborate anche per strumenti a tastiera e per
strumenti d’insieme, che adottano i modelli ritmico-prosodici tipicamente strutturali della chanson
francese: brani multisezionali prevalentemente a quattro voci. La chanson (canzona) chiamata
anche Canzon francese (o anche Aria di canzon e Canzon da sonar da cui deriverà la sonata)
divenne uno dei più importanti generi di musica strumentale ed ebbe un’influenza decisiva sullo
sviluppo della sonata e del concerto. Era una musica che raccoglieva l’eredità della polifonia
vocale, trasfigurandone però i tratti e sublimando la voce dello strumento.
A godere di tante elaborazioni strumentali fu soprattutto la chanson parigina (il cui stile fu fissato
da compositori parigini a partire dal 1530) il cui carattere è la chiara inclinazione alla musica a
programma, cioè ad una musica che coglieva gli elementi narrativi descrittivi del testo poetico
attraverso una tecnica polifonica movimentata fatta di ritmi vivaci e di richiami onomatopeici.
Clément Janequin (1485-1558) è uno dei rappresentanti principali di questo tipo di chanson
ricordato per La Guerre, ou La Bataille.
In definitiva le forme strumentali si presentano prima sotto forma di semplici trascrizioni, in genere
per cembalo o liuto, poi sotto forma di imitazioni e solo in seguito evolvono verso una propria
autonomia formale.
Alcuni autori cominciarono così a scostare la canzona strumentale dal modello della chanson
francese dando inizio ad un processo di sviluppo che porterà alla sonata. È il caso delle
composizioni di Claudio Merulo (1533-1604) che rivestono particolare importanza per lo sviluppo
del linguaggio strumentale e della tecnica esecutiva. Sono canzoni ricche di effetti tecnici vistosi, di
passaggi veloci, figurazioni ornamentali, ecc., denominate “canzoni da sonar” proprio per ricordare
il loro carattere di composizioni strumentali originali. Le indicazioni in partitura non prevedevano
organici definiti: l’esempio è noto a partire dalle canzoni dei maestri bresciani destinate non solo
all’organo ma anche ai complessi di strumenti ad arco, fino a quelle dei maestri veneziani in cui si
preferiva l’impiego degli strumenti a fiato (cornetti, tromboni, ecc.); e non è un caso se si pensa al
fatto che nella Venezia del XVI secolo erano attivi i maggiori costruttori di cornetti, che venivano
considerati alternativi al violino.
Accanto alla canzone vanno menzionate: la forma fugata del ricercare, i primi tentativi di
formalizzare la suite attraverso una coppia di danze (la prima in tempo binario e andamento
moderato, la seconda in tempo ternario più veloce), le variazioni sopra un basso dato e lo stile
improvvisativo della toccata, quali strutture, che attraverso una successiva stabilizzazione formale
(dalle sezioni alle parti e da queste ai movimenti indipendenti) e l’affermarsi dell’armonia tonale,
verranno a costituire la base della sonata corelliana.
Il passaggio dalla “canzona da sonar” alla sonata antica non è avvenuto in un determinato momento
storico. E’ comunque nel primo Settecento che il cambio di denominazione trova effettiva
corrispondenza nella graduale trasformazione della canzone nella “sonata da chiesa”

ARCANGELO CORELLI E LE SUE OPERE


Figlio di agiati proprietari terrieri di origine patrizia, Corelli nacque a Fusignano, vicino Ravenna.
Dopo aver ricevuto la sua prima formazione musicale a Bologna, città che all’epoca fu centro
importante di attività nel campo della musica strumentale, egli si trasferì (sicuramente dal 1675 e
forse anche prima) a Roma, dove rimase ininterrottamente fino alla morte. A parte un breve
soggiorno a Napoli nell’estate del 1702, non è documentato soggiorno altrove. Forse la provenienza
sociale piuttosto distinta spianò al musicista di Fusignano la strada presso tutti i famosi mecenati
della Roma di fine Seicento, i quali ospitavano “Accademie” nei loro palazzi. Egli strinse rapporti
con la regina Cristina di Svezia (a lei dedicò l’Op. 1), a Roma dal 1655 fino alla morte (1689) il cui
Palazzo Riario (poi chiamato Corsini) era aperto ad artisti e musicisti. Accanto ad Alessandro
Scarlatti, Bernardo Pasquini e virtuosi del canto, Corelli fu anche al servizio del cardinale Benedetto
Pamphili, dedicatario dell’Op. 2. Quando questi diventò legato papale a Bologna, Corelli si trasferì
al servizio del giovane ventiduenne cardinale Pietro Ottoboni, rimanendovi tutto il resto della vita e
dedicando a lui l’Op. 4. Gli anni trascorsi presso l’Ottoboni furono i più gloriosi della sua carriera,
culminati nel 1706 con l’iscrizione all’Arcadia, la prestigiosa Accademia fondata nel 1690. I
rapporti di Corelli con l’estero sono provati dalle ultime due raccolte: l’Op. 5 e l’Op. 6 che furono
dedicate rispettivamente a Sofia Carlotta elettrice di Brandeburgo e a Giovanni Guglielmo principe
palatino del Reno. A Roma Corelli si era acquistato un nome indiscusso come direttore e come
virtuoso violinista. Oltre che nelle Accademie egli si esibì anche nelle sfarzose esecuzioni musicali
che si svolgevano nelle chiese romane, assecondando una tradizione largamente in uso a Roma già
prima della sua venuta. E’ più volte documentata la presenza di Corelli in S. Luigi dei Francesi ai
concerti per la festa del santo. Egli fu anche attivo in qualità di violinista al Teatro Capranica.
Dei vari generi in cui si codificò la musica sonatistica italiana, tre sono stati coltivati da Corelli, tutti
incentrati sul violino e la sua famiglia: 1) La Sonata a tre, per due violini e violone; 2) la Sonata a
due, per violino e violone (o cembalo); 3) il Concerto grosso.

1. LA SONATA A TRE
Nello sviluppo secentesco della Sonata primeggiava questo tipo di composizione definita a tre,
perché permetteva di unire notevole agilità (con pochi esecutori) e mantenimento di un impianto
polifonico. Questa Sonata raccoglieva l’eredità della canzonetta a tre voci, già nota alla fine del
Cinquecento grazie ad autori come Claudio Monteverdi e Adriano Banchieri. Ovviamente è in
questo contesto che il violino diventa protagonista indiscusso.
È nell’ambito della Sonata a tre che solitamente si fa distinzione tra Sonata da chiesa e Sonata da
camera, distinzione apparsa per la prima volta nell’Op. 22 (Venezia 1655) di Biagio Marini
intitolata Diversi generi di Sonate, da Chiesa, e da Camera. Fra il 1681 e il 1694 Corelli pubblica
quattro serie di Sonate a tre: l’opera I nel 1681, la II nel 1685, la III nel 1689 e la IV nel 1694. La
prima e la terza appartengono alla tipologia delle Sonate da chiesa, la seconda e la quarta a quella
delle Sonate da camera.
Le Sonate da chiesa di Corelli, (in analogia con diverse raccolte precedenti di diversi autori),
comprendono un numero di dodici sonate. Questo è un tratto che rimarrà invariato nelle successive
opere, e testimonia l’istanza di ordine e simmetria rilevata in altre dimensioni del suo pensiero
compositivo. In queste sonate Corelli adotta come canonico lo schema in quattro movimenti (con
alcune eccezioni come nella n. 7 dell’op. I priva del “grave” iniziale o, al contrario, nelle più
variegate sonate op. I n. 9 e op. III n. 12), nella prevalente sequenza grave, allegro, adagio, allegro,
raccogliendo la prassi antica di accostare un tempo veloce a uno lento.
Anche nelle Sonate da camera è presente una struttura canonica in quattro movimenti (anche se
alcune ne comprendono solo tre, mentre un caso particolare è offerto dalla conclusiva n. 12 dell’op.
II, interamente costituita dalle variazioni su una Ciaccona), nella sequenza adagio, allegro, adagio,
allegro con la caratteristica principale dell’utilizzo della danza, per cui i contemporanei di Corelli
definivano queste sonate da camera “Balletti”. Balletto, poi, era un termine usato già da parecchio
tempo nella musica italiana del Cinquecento, destinato ad assumere notorietà internazionale con i
Balletti con li suoi versi per cantare, sonare e ballare a cinque voci e a tre voci di Giovan Giacomo
Gastaldi del 1594. In quest’epoca insomma la prassi di ballare, suonare e cantare con una medesima
musica era ancora viva. Con gli anni cade la componente vocale ma rimane la possibilità di usare le
medesime musiche tanto per ballare quanto per suonare. Infine dal 1660 in poi la musica con
strutture di danze ma definita “da camera” indicherà un genere autonomo.
Una prima differenza tra le due tipologie di sonate sta nella presenza o meno dell’organo; a questa
bisogna aggiungere anche le già accennate differenze di carattere musicale. Ma è necessario uno
sguardo alla situazione precedente a Corelli per vedere quando e in qual modo si siano distinti i due
generi da chiesa e da camera. Alla fine del Cinquecento il concetto di Sinfonie sacre era già diffuso,
ma non esisteva ancora una distinzione fra i due generi da applicare alle sonate. È intorno alla metà
del secolo che comincia a identificarsi un cambiamento, testimoniato dalle Sonate, da chiesa e da
camera di Biagio Marini, e dalle Suonate da chiesa, da camera, correnti, balletto, alemane,
sarabande (1656) di Giovanni Legrenzi. La distinzione è esplicita perché si incontrano serie distinte
di danze per ballare, di danze per camera, e di pezzi più austeri definiti sonate o sinfonie. Negli anni
successivi, anche se le varie raccolte continuavano a portare il titolo “da chiesa e da camera”, la
tendenza era quella di separare i due generi definendo Sonate quelle “da chiesa” e Balletti quelle
“da camera”.
Il lessicografo francese Sébastien de Brossard (1655-1730) fu il primo a definire e a differenziare in
sede teorica i due generi di sonate a seconda della loro funzione. Nel Dictionaire de musique (Parigi
1701) affermava:
“Le Sonate sono propriamente grandi pezzi, variati di ogni tipo di movimento e di espressione, di
accordi ricercati o straordinari, e tutto ciò puramente secondo la fantasia del compositore. Di Sonate
ne abbiamo fino a 8 parti, ma ordinariamente sono a Violino solo o a due Violini diversi con un
Basso continuo per il Clavicembalo, e spesso un Basso più figurato per la Viola da gamba, il
Fagotto, ecc. Gli italiani solitamente le riducono in due generi. Il primo comprende le Sonate che
chiamano da Chiesa, cioè adatte alla chiesa, che cominciano di solito con un movimento grave e
maestoso, adeguato alla dignità e alla santità del luogo. Sono propriamente queste ad esser chiamate
Sonate. Il secondo genere comprende le sonate che chiamano da Camera, cioè adatte alla camera.
Sono propriamente suites di diversi pezzetti adatti a far danzare, e composti sotto lo stesso modo o
tono. Questo tipo di sonate cominciano solitamente con un Preludio, o Sonatina, che serve da
preparazione a tutte le altre danze; seguono l’Allemanda, la Pavana, la Corrente, e altre danze o
arie serie; quindi vengono le Gighe, le Passacaglie, le Gavotte, i Minuetti, le Ciaccone, ed altre Arie
allegre. E tutto ciò, composto sullo stesso modo o tono e suonato di seguito, forma la sonata da
camera. La sonata contiene solitamente una suite di 4, 5 o 6 movimenti, più spesso su un medesimo
tono. La Sonata da Chiesa si distingue da quella chiamata da Camera o Balletti, per il fatto che i
movimenti di quelle da chiesa sono Adagio, Largo ecc., mescolate a fughe che costituiscono gli
Allegro; mentre i movimenti di quelle da Camera sono composti, dopo gli Adagio, con arie dal
movimento regolato, come un’Allemanda, un Adagio, una Gavotta, una Bourrée o un minuetto. Si
vedano le opere di Corelli come esempio”.

2. LA SONATA PER VIOLINO E VIOLONE


Rappresentano l’altro filone seguito da Corelli per le sue composizioni. Solitamente viene
identificata con la Sonata per violino solo, ma in realtà nel Seicento esistono due stili diversi: quello
più specificamente solistico (e virtuosistico) in cui il Basso fa solo da supporto, e quello della
Sonata a due dove invece esiste un rapporto tematico e contrappuntistico fra violino e basso. La
distinzione è importante, perché se fino a qualche anno prima di Corelli era il violino ad avere un
ruolo principale nelle Sinfonie, adesso anche gli strumenti che con esso fanno coppia hanno pari
dignità, e questa è l’anima dello stile che caratterizza tutta l’op. V di Corelli.

2.1. L’OPERA QUINTA DI CORELLI


L’arte di Corelli si presenta come un momento di sintesi dei generi e dei modi di scrittura
violinistica che fino ad allora si erano andati formando e sperimentando. Ecco perché in una
situazione polistilistica di tanti effetti che aveva caratterizzato il linguaggio della musica
strumentale delle generazioni precedenti, l’opera di Corelli si impone come un magistero di
equilibrio e di perfezione formale specialmente dal punto di vista tecnico e didattico. L’arte di
Corelli rappresenta l’unione delle tecniche violinistiche essenziali (il cantabile legato, la leggerezza
di polso, l’intonazione, il fraseggio, ecc.) con lo sviluppo sempre crescente di sperimentazioni e
varianti utili alla musicalità e all’esecuzione della composizione. Questo, fece della sua arte una
realtà in grado di soddisfare e affascinare i differenti ambienti culturali del suo tempo composto da
un vasto pubblico di didatti, di intenditori-esecutori, di violinisti dilettanti e professionisti occupati a
far musica nelle cappelle ecclesiastiche, nelle accademie e nei salotti gentilizi. L’arte di Corelli
riesce a soddisfare i musicisti del suo tempo e di conseguenza il premio che gli venne dato fin dagli
inizi del Settecento e che ancora oggi ci permette di apprezzarne le sue composizioni è
l’immortalità, sorte che era toccata anche ai grandi del periodo musicale a lui precedente come
Palestrina e Frescobaldi.
Ma il merito maggiore del Nostro va evidenziato nel connubio e spesso nella coincidenza di arte e
di preparazione all’arte, tra modello e prodotto artistico, tra scuola e vita, che egli seppe esprimere.
L’op. V di Corelli, intitolata Sonate a violino e violone o cimbalo (1700), ebbe numerose ristampe:
più di 50 in Italia e 29 tra Londra, Amsterdam, Parigi e Rouen già a partire dallo stesso anno di
pubblicazione, e questo a motivo di quell’interesse e alto valore artistico che quest’opera ebbe
nell’ambiente musicale del tempo. Il fatto che quest’opera abbia avuto tale successo è un tema
affascinante e in primo luogo consiste nel fatto che essa esalta il mondo sonoro che Corelli riesce a
esprimere attraverso il risultato di una continua ricerca di controllo, di equilibrio stilistico e formale.
Nelle sonate racchiuse nell’op. V, Corelli sviluppa, più che nelle altre sue composizioni, la tecnica
violinistica: l’esecutore è impegnato con accordi, arpeggi su tre corde e in lunghe successioni di
quartine che richiedono una smagliante agilità dell’arco. Nel 1789 Burney affermava che: «I Soli di
Corelli, quale libro classico per formare la mano del giovane studente di violino, sono sempre
considerati come l’opera più utile e preziosa dai grandi maestri dello strumento […]. Tartini
formava tutti i suoi studenti su queste sonate; ed il signor Giardini mi ha detto che di due qualsiasi
allievi di uguale età e talento, se uno cominciasse i suoi studi da Corelli e l’altro da Geminiani o
qualsiasi altro eminente maestro, sarebbe sicuramente il primo a diventar il miglior esecutore». La
natura cantabile dello strumento, invece, è sfruttata nei tempi lenti. In questi movimenti Corelli
afferma la relazione, che non ha raffronti con le opere dei suoi predecessori, fra la sua tecnica e il
mezzo vocale, fra il suo fraseggio e l’arte del canto.
Importante quindi è il valore pedagogico contenuto in quest’opera. Alcuni studiosi concordano con
quanto sottolinea in special modo Neal Zaslaw, (cfr. in M. Privitera, Arcangelo Corelli, p. 155) che
cioè il valore in essa contenuto sia triplice: “1) come studi (in molti movimenti la bellezza musicale
si esprime con difficoltà tecniche alla portata di violinisti principianti); 2) come modello
compositivo (gran parte delle sonate per violino composte ed eseguite fino a circa il 1770-80
appaiono tentativi di ampliare e modernizzare l’opera V); 3) come base per l’improvvisazione (la
semplicità di certi movimenti li rendeva veicoli ideali per la pratica dell’ornamentazione)”.
L’opera fu concepita da Corelli secondo la tradizionale sequenza di dodici composizioni. La prima
edizione ha due frontespizi distinti: il primo, per le sonate 1-6, recita semplicemente Sonate a
violino e violone o cimbalo; nel secondo, per le sonate 7-12, si legge Preludi Allemande Correnti
Gighe Sarabande Gavotte e Follia. Dunque Corelli ha organizzato una raccolta equamente divisa fra
stile grave (da chiesa) e stile di danza (da camera).
Nella prima serie di Sonate (1-6), rispetto alle loro corrispondenti a tre (op. I e III), troviamo una
differenza importante: l’aggiunta sistematica di un quinto tempo, che è sempre un Allegro (o
Vivace). La sequenza dei movimenti avviene secondo due schemi: grave allegro allegro adagio
allegro, per i nn. 1, 2, 4, 6; adagio allegro adagio allegro allegro, per i nn. 3 e 5.
Nella seconda serie (7-12) il quadro risulta più movimentato. Le sonate 8 e 9 sono in quattro tempi,
nella sequenza largo (= grave) allegro adagio allegro. La 10 e la 11 vi aggiungono un quinto
movimento allegro. La 7 invece cambia il primo grave con un vivace; e la 12, la Follia, è un caso a
sé.

Tabella riassuntiva dell’op. V


A) Sonate a violino e violone o cimbalo
1 Re magg. Gr.-Al.-Ad. Allegro Allegro Adagio Allegro
2 Sib magg. Grave Allegro Vivace Adagio Vivace
3 Do magg. Adagio Allegro Adagio Allegro Allegro
4 Fa magg. Adagio Allegro Vivace Adagio Allegro
5 Sol min. Adagio Vivace Adagio Vivace Giga
allegro
6 La magg. Grave Allegro Allegro Adagio Allegro

B) Preludi Allemande Correnti Gighe Sarabande Gavotte e Follia


7 Re min. Preludio Corrente Sarabanda Giga
Vivace allegro largo allegro
8 Mi min. Preludio Allemanda Sarabanda Giga
Largo allegro largo allegro
9 La magg. Preludio Giga Adagio Tempo di
Largo allegro Gavotta
allegro
10 Fa magg. Preludio Allemanda Sarabanda Gavotta Giga
Adagio allegro largo allegro allegro
11 Mi magg. Preludio Allegro Adagio Vivace Gavotta
Adagio allegro
12 Re magg. Adagio-Allegro Ad. - All. Andante All. – Ad. Allegro
Follia

Le differenze tra le Sonate della prima parte e quelle della seconda, sono più o meno le stesse che si
trovano tra le Sonate da chiesa e da camera. Infatti nella prima parte è usata la fuga, che occupa il
secondo movimento (allegro), e può tornare anche nell’ultimo (come nei nn. 1 e 6); mentre è
assente nella seconda parte, anche se non mancano spunti imitativi fra violino e violone, come nel
vivace del n. 11. Delle tre voci delle fughe, due vengono suonate dal violino ed una dal violone.
Attraverso la fuga Corelli ripropone col violino un certo andamento polifonico. Questo accade
specialmente durante le cadenze e a conclusione del pezzo dove spesso troviamo addirittura tre (ma
anche quattro) suoni simultanei. Un altro modo per mimare l’aspetto polifonico col violino solo è
costituito dalla tecnica dell’arpeggio. In quasi tutte le sonate della prima parte si trova almeno una
volta una sequenza di accordi di tre note accompagnati dall’indicazione “arpeggio”. In questo caso
l’esecutore deve, per così dire, sgranare l’accordo, ed eseguire le note in rapida successione
muovendo l’archetto in giù e su ripetutamente. Questo crea all’orecchio dell’ascoltatore un certo
effetto polifonico.
Nelle fughe Corelli vuole riproporre in un certo senso la tipica sonorità della Sonata a tre. Anzi, si
può forse dire che tutta l’op V è una specie di sintesi delle quattro raccolte precedenti. Da un lato
troviamo lo stile contrappuntistico, ripreso negli episodi fugati; dall’altro il riutilizzo dei due stili
(grave e danzevole) ma in questo caso uno affianco all’altro. Questi stili nelle Sonate a tre erano
separati: grave (op.I), danzevole (op.II), grave (op. III), danzevole (op. IV). Lo stile solistico è
quindi sublimazione dell’idioma a tre, e ben presto il modello corelliano si espanderà in Europa
influendo anche sulla musica di J. S. Bach, che non mancherà di rendere omaggio al Nostro
attraverso la Fuga in Si minore (BWV 579) su un tema di Corelli tratto dall’op.III n.4.

BIBLIOGRAFIA
A. Basso, L’età di Bach e di Haendel, Torino,Edt 1986
M. Bukofzer, La musica barocca, Milano, Rusconi 1982
M. Privitera, Arcangelo Corelli, L’Epos, Palermo 2000
E. Surian, Manuale di storia della musica, vol. II, Rugginenti Editore, Milano 1991
N. Zaslaw, Ornaments for Corelli’s Violin Sonatas, op. 5, in “Early Music”, XXIV, pp. 95-115

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