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libraio
di Stefano Amato
Puoi prestare il romanzo a chi ti pare, tutte le volte che ti pare. L'ideale
sarebbe tuttavia che ognuno scaricasse la propria copia o ne regalasse
una nuova. Per sapere come fare, visita il sito L'apprendista libraio.
«Ciao.»
«Di cosa?»
Quando arrivai, il cortile della chiesa era deserto. Non si era ancora
visto nessuno degli invitati, figuriamoci gli sposi. Entrai e mi sedetti su
una panca. Faceva un bel fresco là dentro. Per un po’ mi guardai in-
torno in attesa di un qualche sentimento religioso, ma fu inutile. Ero
senza speranza. Poi il prete, bardato a festa, si avvicinò e mi chiese
preoccupato dove fossero tutti quanti.
Il prete annuì e diede un’occhiata discreta alle mie scarpe di tela. Poi
consultò alcuni fogli che teneva in mano.
«Sì.»
«No, non l’ho fatta» dissi. Allungai in avanti le gambe e mi accorsi che
per la prima volta quel giorno non mi pizzicavano. «È un problema?»
2
Quando qualche giorno dopo andai in libreria spuntò fuori che Flavio
voleva veramente offrirmi un lavoro. Disse che il suo socio lo aveva
mollato per aprire una parafarmacia e quindi gli serviva una mano. Gli
spiegai subito che al mattino e certe volte anche di pomeriggio ero im-
pegnato con la scuola.
Dissi che andava bene. Tanto pensavo che se il lavoro non mi fosse
piaciuto avrei sempre potuto lasciare perdere, come avevo già fatto in
passato.
«Certo.»
Non avevo ancora cominciato, e già non vedevo l’ora di uscire all’aria
aperta.
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In quel periodo mi vedevo con una ragazza. Si chiamava Marina, ed
era venuta a stare a Siracusa dalla Calabria per fare uno stage o qual-
cosa del genere in un’etichetta discografica. Era una fumatrice e
portava sempre i tacchi alti. In più si truccava un po’ troppo per i miei
gusti, ma carina era carina.
Non c’era stato ancora niente fra noi (non avevo visto neanche casa
sua), ma era nell’aria. Si capiva da come ci cercavamo che prima o poi
sarebbe successo qualcosa. Nutrivamo dubbi una sull’altro e la cosa
creava una bella tensione. Quel tipo di tensione che un po’ dispiace
sempre rompere.
«Ha due occhi che mi mettono i brividi» disse. «Se vuoi lo chiamo e te
lo faccio conoscere, ti va?»
«Una libreria! Che bello» disse. «Ma come farai con la scuola?»
Ascoltai per qualche secondo. Era quel tipo di indie rock che non si
capisce niente di quello che suonano.
Io ascoltavo soprattutto punk rock, ma non glielo avevo mai detto per
paura che le facesse schifo o lo considerasse grezzo. Le fissai il piede
che spuntava dalla ciabatta dondolante. Le unghie erano laccate di
rosso scuro. Distolsi gli occhi, mi alzai e versai un po’ di un suo liquore
calabrese dentro due bicchieri. Cominciammo a bere e intanto chiac-
chieravamo del più e del meno. Poi le andai vicino. Mi piegai alla sua
altezza e restai a fissarla, il mio viso a un centimetro dal suo.
Marina sorrise.
«Chi è?»
«Sono Massimiliano.»
«È quello che abita qui sotto» bisbigliò lei. «Te l’ho detto che viene
continuamente a bussarmi. DIMMI, MASSIMILIANO.»
«Sì... No... Puoi passare più tardi, per favore? Adesso non posso apri-
re» disse Marina trattenendo le risate.
Massimiliano restò in silenzio per qualche secondo. Poi disse: «oh, ok.
A dopo allora.» Ma non lo sentimmo scendere le scale.
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Insegnare non mi piaceva. Sia perché ero costretto a svegliarmi presto,
sia perché quella scuola era un incubo. Pareva ci si fossero iscritti tutti
i somari della città. Le storie degli alunni erano tutte simili: avevano
provato con la scuola pubblica, ma dopo la seconda o la terza bocci-
atura i genitori li avevano iscritti in quell’istituto privato, dove per
ottenere il diploma bastava pagare. Molti studenti sapevano a mal-
apena leggere. La loro capacità di concentrarsi sull’insegnante era lim-
itata a trenta, quaranta secondi al massimo. Dopodiché fissavano il
vuoto, giocavano con i telefonini, dormivano, andavano in bagno fino
alla fine della lezione. Se li richiamavo perché non avevano studiato,
non facevano una piega. Sapevano che avrei dovuto dargli comunque
la sufficienza.
«Neanche una.»
«Motivo?»
Scossi la testa.
«“Sì, signor giudice. Sono pentito. Invece di spaccargli una sedia sulla
schiena avrei dovuto ammazzarlo”.»
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Flavio mi spiegò tutto del lavoro, a cominciare dal criterio con cui
erano sistemati i libri.
«Va bene.»
Entrò una ragazza. Alta, magra. Carina. Sorrise a entrambi, poi disse:
«Flavio, ce l’avete I silenzi degli innocenti?»
«Aspetta un attimo» dissi alla ragazza. «Vuoi dire Il silenzio degli in-
nocenti? Quel thriller col cannibale eccetera?»
«Ora, Santo, dove li teniamo noi i saggi?» Flavio lo disse come se non
parlassi la sua stessa lingua.
Andai nella zona dei saggi sentendo i loro sguardi sulla schiena.
Quando portai il libro al bancone la ragazza mi sorrise. Era proprio
carina. Forse un po’ goffa, però in modo simpatico.
Il libro costava dodici euro. Sulla tastiera della cassa digitai “1”, poi
“2”, poi “zero” due volte di fila. Quando premetti il tasto “TOTALE” il
registratore fece ding e il cassetto si aprì. Strappai via lo scontrino e lo
guardai.
«Ops.»
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Nonostante mi vedessi con Marina, continuavo a corrispondere via
email con una ragazza olandese. L’avevo conosciuta a luglio nel
campeggio dove lavoravo da cinque estati. Il miglior lavoro della mia
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La ragazza olandese si chiamava Lise Van Cleef. Una sera io, lei, la sua
amica e un mio amico avevamo cenato insieme e poi eravamo finiti in
spiaggia, sdraiati uno accanto all’altra ad ammirare le stelle. Lise
aveva senso dell’umorismo. Era alta un metro e ottanta, poco meno di
me, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. Mi piaceva molto. Dopo
un po’ mi ero sporto a baciarla, ma lei si era rifiutata.
Mi voltai verso Pippo, il mio amico. Lui stava pomiciando con l’altra
ragazza senza problemi.
Lise mi raccontò che stava con lo stesso ragazzo da nove anni. Era il
suo primo e unico fidanzato, e anche se le cose fra loro ormai an-
davano male non le sembrava corretto tradirlo.
Mi decisi uno dei primi giorni in cui lavoravo in libreria. Pensai che mi
serviva una vacanza. L’impatto con i clienti e con Flavio era stato più
forte del previsto, cominciavo già ad accarezzare l’idea di licenziarmi.
Non sarebbe stata la prima volta. In passato avevo abbandonato i la-
vori che non mi erano piaciuti, cioè tutti. Non ero di quelli che di
fronte alle difficoltà resistono. Ero di quelli che abbandonano tutto e
amen.
Perfetto.
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Prima di lavorarci immaginavo le librerie come posti tranquilli, fre-
quentati da gente colta, rilassata, tollerante. Spuntò fuori che non
avrei potuto farmi un’idea più sbagliata. Chissà, forse librerie del
genere esistevano pure, da qualche parte, ma di sicuro non era il mio
caso. Sembrava che chiunque metteva piede nella libreria dove
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«E quel signore simpatico che c’è sempre, Claudio, non ci lavora più?»
«Flavio» dissi. «Sì, lavora ancora qui. Ma quando ci sono io non c’è lui
e viceversa.»
«N-no, mi dispiace.»
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Un pomeriggio pensai che dovevo cambiare aria, presi l’autobus e an-
dai a Palermo a trovare Nina, una ragazza che avevo conosciuto in
estate.
La guardai.
Tornati a casa ci sedemmo sul divano. Eravamo io, Nina e una sua
coinquilina, Sabrina, per gli amici Sabry. Lo stereo mandava ad alto
volume un rock pesante cantato in tedesco che mi metteva paura.
«Carino.»
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Notai che, a parte gli ovali neri che le circondavano gli occhi come due
lividi, era pallidissima. Attraverso la camicetta sbottonata le si intrave-
devano le tette. Mi sorprese a fissargliele, così spostai lo sguardo nel
vuoto fingendo di riflettere su chissà quale mistero del cosmo.
«Bene.»
«Sono stata una volta sola a Siracusa. Ma ero piccola, non mi ricordo
niente. Solo un grande teatro antico, bianco. C’è un teatro antico e bi-
anco a Siracusa?»
«Perché stronza?»
Nina riuscì a calmarsi. «L’ho beccata nel pieno di una pecora, capisci?
Non solo. Se lo stava facendo mettere da dietro AMMANETTATA AL
LETTO. E il tizio aveva... aveva UNA CHINGHIA IN MANO!»
«Giusto.»
«Sì.»
«Meno male che c’è gente come te che lavora» disse Sabry.
«Meno male» dissi. Non aggiunsi altro perché notai che Nina ci stava
fissando con una strana espressione del viso.
«È fantastico.»
Diedi un’occhiata in giro. Mi resi conto che in quella casa non c’era
neanche l’ombra di un libro.
Quando dopo cena Nina e io uscimmo a fare un giro, lei era ormai
completamente ubriaca. Mi afferrò quasi subito la mano e prese a tras-
cinarmi per tutta la Vucciria, che di notte, senza bancarelle né vend-
itori, sembrava un posto come un altro.
«Bravo» dissi.
«Non fare lo stronzo con i miei amici, ok?» disse. «Perché devi fare
tanto lo stronzo?»
«Timidezza.»
Prima che potessi fare qualunque cosa, Nina mi prese di nuovo per
mano e ricominciò a trascinarmi da un posto all’altro.
«Ormai sei il mio ragazzo» sibilò guardando fisso davanti a sé. «Ti
ammazzo se mi lasci di nuovo la mano. Parola mia, ti ammazzo.»
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Perché finivo sempre con l’avere a che fare con matte del genere?, mi
chiesi. Che cosa le attraeva? Mi vestivo in modo normale, cercando di
essere il meno appariscente possibile. Non ero un tipo stravagante
(non secondo i loro canoni, almeno), né avevo una personalità com-
plicata. I lati più eccentrici del mio carattere saltavano fuori solo dopo
un po’ che mi si frequentava. Mi chiesi se la faccenda non avesse a che
fare con mio padre che, quando ero piccolo, lavorava come infermiere
all’ospedale psichiatrico di Siracusa. Se non avevo scuola, mia madre
per non lasciarmi solo in casa mi portava in quella specie di grande
parco e io per non disturbare mio padre me ne andavo in giro e facevo
amicizia con i matti. Li conoscevo quasi tutti quei poveretti. Quando
mi vedevano arrivare era una festa. A quell’età avevo più amici fra i
pazzi che fra la gente cosiddetta normale. Forse per questo motivo ad-
esso attiravo le ragazze come Nina? Perché avevo trascorso una fetta
non indifferente della mia infanzia in un manicomio?
«COOOME?»
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«Niente, niente.»
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In quel periodo suonavo la chitarra in un gruppo punk. Ci chiamava-
mo i Cellophane e in tutta onestà non eravamo un granché. Cioè, gli al-
tri due, Marco e Gianluca, erano bravi, ma a me era passata un po’ la
voglia e quindi non mi applicavo. Suonavamo pezzi nostri più qualche
cover di Ramones, Queers, Manges eccetera. I concerti erano per lo
più un disastro: si vedeva poca gente, i gestori dei locali non ci vol-
evano pagare e via dicendo.
«Certo.»
«Dillo e basta.»
«Ok. Dunque, hai presente nei film porno? Quando gli uomini
vengono?»
«Ecco, ti sei mai accorto che la maggior parte delle volte vengono sulla
faccia delle ragazze?»
«No.»
«Non ne ho idea» dissi. «Più che altro non penso che le ragazze
approvino.»
«Ma nei film sembra che gli piaccia da impazzire! Come se in quel mo-
mento se ne stiano venendo anche loro.»
«Che c’è?»
Avrei voluto chiedergli di parlare più piano, perché una ragazza seduta
al tavolo vicino aveva sentito tutto e sembrava sconvolta. Ma non dissi
niente. Presi solo un altro sorso di birra e cambiai discorso.
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Marina passò in libreria.
«Un sacco.»
«Ok.»
Thomas disse che aveva cucinato per noi e portò in tavola delle pol-
pette enormi. Me ne misi due sul piatto e le assaggiai. Facevano pena.
Dentro erano troppo crude. In più le aveva farcite con dei peperoni
ancora più crudi della carne. Per mandarle giù cominciai a bere vino
rosso.
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«Cosa sei, un... gerontofilo? Si dice così, no?» Lo chiesi a Tania perché
credevo fosse ferrata su ogni tipo di perversione sessuale. Ma lei
scosse le spalle e disse che non ne aveva idea. Marina mi lanciò
un’occhiataccia.
«Massimo, Santo. Santo, Massimo» disse Tania con quel suo vocione
baritonale. «Santo è un mio nuovo amico cinofilo.»
Lasciai il mio posto a uno dei nuovi arrivati e dissi a tutti che dovevo
andare perché il giorno dopo mi sarei dovuto svegliare presto. Non era
vero niente, ma mi ero stufato di stare lì. E poi con la testa ero altrove.
Ero già in Olanda, a trovare Lise. Non vedevo l’ora, il giorno prima
avevo fatto i biglietti. Sarei partito il primo finesettimana di dicembre.
«Lo so, non è per quello. È che ho paura di tornare a casa da sola.»
«Va bene.»
«Oh, ok.»
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Non ricordo come feci con la scuola, probabilmente mi diedi malato. A
Flavio invece dissi che mi serviva il fine settimana perché si sposava
un mio amico. Salutai tutti e partii per l’Olanda, a trovare Lise.
Lise non aveva specificato se avrei dormito con lei o su un divano. De-
cisi che la cosa migliore era non pensarci e restare a vedere cosa succe-
deva. Ma mentre osservavo il piatto paesaggio olandese fuori dal fines-
trino del treno cominciai a sentirmi nervoso, e a chiedermi perché mi
cacciassi continuamente in situazioni come quella. Non conoscevo
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«Lise!»
«Lungo ma bello.»
Appena fuori dalla stazione salimmo su un tram per andare a casa sua.
Lise arrossì. Poi con una faccia e una voce buffe disse: «ok».
Il cibo era buono, anche se il fatto di non sapere quanto sarebbe ven-
uto il conto mi angosciava un po’. E poi: avrei dovuto pagare io? O Lise
si sarebbe offesa? L’avrebbe presa per una cosa da troglodita latino?
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«Sì.»
«Buonanotte.»
«Sei sicura?»
«Sì, sono sicura. Lasciala aperta» disse Lise con uno strano sorriso.
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Il giorno dopo ce ne andammo in giro per Rotterdam. Faceva freddo,
ma non quanto avevo immaginato. Lise mi portò a visitare una mostra
dedicata a Magritte. Guardavamo i quadri e intanto chiacchieravamo.
Quando non chiacchieravamo, ci baciavamo. Cominciavo a essere
cotto di lei.
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«Non è che lo odio. È che mi costringe ad avere a che fare con le per-
sone, più che altro.»
«Sì.»
Parlandone, io per primo capii che il problema era proprio quello. Non
ero fatto per lavorare a contatto col pubblico. Lo diprezzavo troppo, il
cosiddetto pubblico. Non sopportavo quel suo bisogno infantile di
comprare continuamente cose inutili, di assecondare la spinta
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Tornato a casa ripresi la vita di sempre (non mi licenziai). Qualche
giorno dopo Marina mi chiamò in libreria. Doveva parlarmi, disse.
Sembrava arrabbiata per qualcosa. Le dissi che l’avrei incontrata in un
bar.
Non sapevo a cosa si riferisse. Ero stanco. In libreria era stata una
giornata pesante, la gente cominciava a fare gli acquisti natalizi. Solo
quel giorno avevo confezionato una cinquantina di pacchi regalo. E io
ero negato per i pacchi regalo, anche perché li consideravo superflui,
destinati com’erano a essere ridotti a brandelli. Peccato che i clienti la
pensassero diversamente. Loro volevano confezioni impeccabili.
Ritenevano di fondamentale importanza che il pacco non avesse il
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«Senti, non fare il finto tonto. Ieri notte mi hai lasciata sola in quel
pub come se niente fosse.»
«Alle quattro. E sono tornata a casa da sola. Col pericolo che qualcuno
mi violentasse.»
«E allora perché non sei tornata prima? Magari quando sono andato
via io?»
Lo dissi: allora non volevo stare insieme a lei. Era vero. Non volevo es-
sere il ragazzo di nessuno. Volevo stare da solo. Solo con Lise.
Io mi alzai e me ne andai.
Non ci sentimmo più. Venni a sapere poi che si era trasferita a Catania
dove stava con un musicista, il bassista di un gruppo indie rock.
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Arrivò il Natale e mi trovò impreparato.
Sospettavo che sarebbe stata dura, ma non avrei mai immaginato che
la libreria sarebbe diventata un vero e proprio manicomio. Già la sera
del diciotto dicembre ero distrutto. Incassammo quasi lo stesso che in
una settimana qualunque.
Dicevano: «se c’è una cosa che odio è fare i regali di Natale.»
Nemmeno li sfiorava il pensiero che non erano obbligati a farli, che era
una convenzione come un’altra. Solo che a un certo punto della loro
infanzia qualcuno gli aveva insegnato che a Natale si fanno i regali, e
come tutte le cose ficcate nella testa della gente quando è piccola era
impossibile da cancellare. Visti da dietro il bancone della libreria i cli-
enti sembravano tanti membri di una setta. Avevano subito il lavaggio
del cervello, e ora sarebbero andati sul lastrico pur di comprare qual-
cosa e farsela incartare. Per loro provavo un misto di pena e rabbia.
I clienti compravano tutti gli stessi libri degli stessi scrittori. Non
avevano un briciolo di individualità, seguivano alla lettera quello che
gli diceva di fare la televisione. Ed erano ossessionati dal prezzo. Chie-
devano una decina di volte se mi ero ricordato di coprirlo. Perfino
dopo che avevano pagato ed erano usciti, tornavano indietro e
dicevano: «è sicuro di avere tolto il prezzo?»
Allora non potevo sapere che avrei pensato la stessa identica cosa alla
vigilia di altri quattro Natali.
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Qualche giorno dopo capodanno un mio amico dei tempi dei liceo,
Alessandro Mancuso, mi disse che si stava trasferendo a Rotterdam
per lavoro.
Lo dissi a Lise via email. Lei ci mise più tempo del solito a rispondere.
Non mi sembrò un buon segno. Me la immaginai presa dal panico, in-
decisa su come dirmi che stavo correndo un po’ troppo.
Santo!
A presto,
Lise.
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Lui non fece una piega. Ormai Natale era passato, mi aveva sfruttato a
dovere. Allora non lo sapevo, ma i mesi fra gennaio e marzo erano un
vero mortorio in libreria. In pratica gli stavo facendo un favore a togli-
ermi dai piedi. Si sarebbe risparmiato il mio stipendio.
Lei tamburellò con le dita sulla scrivania per qualche secondo. Poi
disse: «le aspettative si concedono solo per motivi familiari.»
«E sarebbero?»
«Benissimo.»
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Mi fecero firmare alcune carte e scambiare due parole col preside. Poi
mi lasciarono andare.
Capitolo secondo
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Il viaggio fu più pesante dell’ultima volta – mi trascinavo dietro una
borsa con tutti i vestiti invernali e uno zaino – e non era ancora finita.
Quando arrivai a Rotterdam, alle sette di sera, non avevo idea di dove
avrei abitato. Dalla stazione dei treni raggiunsi a piedi lo studio dove
lavorava Alessandro Mancuso, lo chiamai al telefono e gli chiesi di
scendere.
«Facciamo presto, sono in riunione col capo» disse lui. «Queste sono
le chiavi e questa è la cartina per raggiungere casa. Ciao, a dopo.»
E mi piantò in asso.
Non mi mossi. Di una cosa ero sicuro: non poteva essere per me.
Di nuovo, ci bloccammo.
«No, non credo» dissi, e intanto cercavo con gli occhi un posto dove
avremmo potuto nasconderci se fosse entrato Alessandro. Sotto il ta-
volo? Dietro la stufa?
Per tutto il tempo sentimmo della gente passare davanti alla porta e
poi proseguire. Stavano facendo dei lavori, avrei scoperto dopo,
nell’appartamento disabitato accanto al nostro, e quelli erano i mur-
atori che salivano e scendevano. Ogni volta io e Lise ci fermavamo col
cuore in gola, poi riprendevamo sollevati. Non fu il massimo come
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I primi tre giorni dormii da Lise, che ormai abitava da sola in un ap-
partamento a un paio di chilometri dalla stazione dei treni. Lise mi
mostrò Rotterdam e i posti che mi poteva interessare frequentare, fra
cui la libreria più grande della città. Credevo scherzasse e invece
faceva sul serio. Ma reagii meglio di quanto pensassi. Entrare in una
libreria da cliente era diverso. Quella libreria, era diversa. I clienti
sembravano delle persone a posto. I commessi erano rilassati, sereni.
Non c’era traccia in loro della tensione che provavo nella libreria di
Flavio. Li invidiai all’istante.
Lise voleva che una volta ambientato mi muovessi per i fatti miei. Era
contenta che fossi a Rotterdam ma non l’aveva presa poi così bene.
Mentre mi accompagnava in giro leggevo il panico nei suoi occhi, e
non potevo darle torto. Io avrei reagito allo stesso modo.
C’era dell’altro. Lise capì che ero cotto di lei, che avrei voluto trasferi-
rmi a casa sua seduta stante. Ma mise subito in chiaro che non era
possibile. I patti non erano questi. Avrei abitato con Alessandro, e ogni
tanto mi sarei visto con lei.
Ciao Santo,
Baci,
Lise.
3
Ero solo. A parte aspettare di vedere Lise non avevo niente da fare. In
teoria avrei dovuto cercarmi un lavoro ma le prime domande d’assun-
zione erano finite nel vuoto. Avevo intere giornate da riempire, possib-
ilmente spendendo il meno possibile perché dall’Italia avevo portato
pochi soldi in contanti, e servivano più che altro a pagare l’affitto.
Alessandro era quasi sempre al lavoro. I primi giorni non lo vidi mai.
Mi svegliavo al mattino e lui non c’era. Andavo a letto, di notte, e lui
non era ancora tornato. Non c’erano dubbi che gli olandesi lo sfrut-
tavano a dovere. Finalmente una settimana dopo il mio arrivo gli die-
dero una giornata libera, e noi due riuscimmo a fare colazione insieme
nel nostro monolocale
Parlammo del più e del meno, poi Alessandro disse: «Santo, ricordi
che cosa ti ho detto prima che arrivassi, vero?»
«A proposito di cosa?»
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«A proposito di Lalla.»
Lalla era la sua ragazza. Era francese e l’avevo vista una volta sola, a
Siracusa. Ricordo che pensai che era uguale a lui. La versione fem-
minile di Alessandro. Non che fosse un gran complimento, per lei.
Comunque Alessandro mi aveva detto che se Lalla fosse venuta a tro-
varlo a Rotterdam io avrei dovuto sloggiare.
«Certo.» In realtà, visto come stavano andando le cose con lei non mi
sembrava un’idea brillante imporle la mia presenza. «Ma mettiamo
che in quei giorni Lise è fuori città» dissi. «Come si fa?»
«Ok, ok.»
Lasciai perdere. Non c’era verso. Finii di fare colazione e uscii a fare i
miei soliti giri senza meta.
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Cominciai a vivere giorni strani. Giorni tutti uguali, fatti di nulla. Fatti
di me che me ne andavo in giro per Rotterdam con una bicicletta scas-
sata che mi aveva prestato Lise. Facevo sempre la stessa strada: peda-
lavo fino in centro, lasciavo la bicicletta legata a un palo e andavo a
piedi fino alla biblioteca pubblica. Guardavo le vetrine dei negozi,
prendevo un caffè da qualche parte, cose così. In giro era pieno di belle
ragazze, alcune perfino più carine di Lise. Ma io continuavo a pensare
a lei e a quanto mi mancasse. Passavo il tempo a contare le ore che mi
separavano da Lise.
Fissavo le porte chiuse davanti a me, quando alle mie spalle sentii dire
qualcosa in olandese. Era stata la ragazza. Mi voltai e le dissi che mi
dispiaceva, ma non parlavo olandese.
«Di dove sei?» mi chiese lei in inglese. Aveva i capelli biondi striati di
rosso, occhi azzurri, un sacco di lentiggini. Era bella.
«Italia» dissi.
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«Davvero? Su cosa?»
«Sulle aringhe.»
«Sulle aringhe.»
«Sì. Sugli omega-3 eccetera. Una cosa scientifica, per il governo. Molto
noiosa.»
«Ciao.»
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Poi me ne accorsi: anche lei distoglieva spesso gli occhi dal monitor
del computer per guardare me. E un paio di volte mi sorrise.
Solo che quando girai l’angolo la ragazza non c’era più. La sedia dav-
anti al suo computer era vuota. Com’era possibile? L’avevo persa di
vista per dieci secondi al massimo. Mi guardai intorno, ma non la vidi
da nessuna parte.
«C’era una ragazza qui, non è vero?» dissi in inglese. «Fino a qualche
secondo fa.»
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Scesi le scale alla velocità del suono. Controllai ogni piano di quella
biblioteca, poi l’atrio, e infine per strada. Niente da fare. La ragazza era
scomparsa.
Mentre tornavo a casa in bicicletta, più tardi, pensai che non avevo
controllato nell'unico posto plausibile: il bagno. Mi venne anche il
dubbio che me la fossi inventata. Tornai spesso all’ultimo piano della
biblioteca, ma non la vidi mai più.
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Un pomeriggio ero in giro per il centro a mangiare una porzione maxi
di patatine fritte, felice come non so cosa perché quella sera, dopo una
settimana, avrei rivisto Lise – avremmo cenato e poi dormito insieme
– quando suonò il telefono. Era lei.
«Lise?»
«Be’...»
«Santo...»
«Non so, domani sarà anche peggio. Ti chiamo io caso mai, va bene?»
«Ciao Santo.»
«Ciao.»
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Pensavo che le cose non potessero andare peggio di così, ma ovvia-
mente mi sbagliavo. Per esempio poteva venire la ragazza di
Alessandro.
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«Santo, svegliati.»
Chiesi a Lise via email se per un paio di notti avrei potuto dormire da
lei. Le descrissi la situazione nei minimi particolari. L’aveva visto il
nostro appartamento: in tre non ci si poteva abitare, soprattutto se
due di loro avevano in programma di dormire insieme.
Non rispose.
Presi la bicicletta e vagai senza meta fino a quando non fece buio. A
quel punto chiamai di nuovo Lise. Il telefono squillò a vuoto, poi scattò
la segreteria. Questa volta lasciai un messaggio.
«Ciao Lise, ascolta...» Mi resi conto che era il primo messaggio che
lasciavo in una segreteria telefonica in vita mia. Che tono si usava in
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questi casi? Quanto tempo avevo? Capitava a tutti di sentirsi dei per-
fetti idioti come mi stavo sentendo io?
7
L’ostello più decente, quello vicino a casa nostra, era al completo. La
ragazza alla reception mi disse che se volevo ce n’era un altro a qual-
che chilometro di distanza. Lo raggiunsi in bici. Era messo malissimo,
puzzava. Al bancone c’erano due ragazze un po’ trascurate che mi
rivolsero un sorriso tirato.
ragazza gemella per avermi sfrattato. Rabbia verso Lise perché non
rispondeva al telefono, neanche per dirmi di lasciarla in pace. Ma
soprattutto rabbia verso me stesso e la mia capacità di cacciarmi con-
tinuamente in situazioni del genere.
Il letto che mi diedero era in una stanza lercia e triste come il palazzo
che la conteneva. C’erano tre letti a castello ma soltanto uno, in basso,
era libero. Non so dove fossero gli altri occupanti. Vidi la loro roba, ma
i letti erano vuoti. Coprii il mio materasso con le lenzuola che mi
avevano dato le due ragazze e notai che puzzavano di candeggina. Poi
spensi la luce e mi sdraiai. Mi girai e rigirai per non so quanto tempo,
e finalmente riuscii ad addormentarmi.
Qualche ora dopo venni svegliato da alcune voci. Fuori era ancora
buio. Nella penombra contai tre ragazzi, tutti ubriachi fradici, che bar-
collavano e ridacchiavano per qualunque cosa. Parlavano ad alta voce
fra loro in una lingua dell’Europa dell’est.
Uno di loro disse qualcosa nella sua lingua che fece scoppiare a ridere
gli altri due. Poi tutti e tre si calmarono e andarono a coricarsi. Uno si
arrampicò sul letto sopra al mio.
Strinsi gli occhi e immaginai di essere altrove. Ma era una parola con
tutto quel movimento. Allora mi spostai il più al centro possibile sul
materasso e aspettai che quel supplizio finisse.
E a me veniva da piangere.
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Spuntò fuori che Lise in quei giorni non aveva controllato le email e
aveva dimenticato il telefono al lavoro. Questo, almeno, fu quello che
disse. Non le credetti neanche per un secondo.
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Dunque, Lise parlava nel sonno. Anzi, strillava. In piena notte saltava
giù dal letto e con gli occhi rivoltati verso l’alto mi urlava non so cosa
in olandese. Dopo, come se nulla fosse tornava a letto e si riad-
dormentava. Ogni volta che succedeva rischiavo l’infarto.
«Mh mh» disse lei, e si voltò dall’altra parte. Poi attaccò a russare.
Qualche giorno dopo commisi l’errore peggiore della mia vita. Forse
perché si stava avvicinando la primavera, non so; fatto sta che di
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«Lo so che non dovrei dirlo» continuai, «ma è vero. Sono innamorato
di te.»
«L’altra notte durante una delle tue crisi ti ho chiesto se anche tu sei
innamorata di me.»
Silenzio.
«Sì. Hai detto di sì. Almeno credo fosse un sì. Ma il punto non è
questo. Il punto è che, nonostante cerchi di negarlo a te stessa, il tuo
subconscio sa benissimo che anche tu sei innamorata di me.»
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«Il punto, Santo, è un altro» disse infatti Lise a voce più alta del nor-
male. Era la prima volta che usava quel tono con me. Da sveglia, al-
meno. «E cioè che non devi permetterti mai più di fare una cosa del
genere. Parlarmi nel sonno eccetera. Sono stata chiara?»
«Sì, ma...»
9
A tempo perso cercavo lavoro.
«Otto a quello di destra e...» fece una smorfia, «quattro meno a quello
di sinistra. Secondo te?»
Alla fine del corso provarono a tenerci sulle spine, ma era chiaro che
avrebbero assunto tutti quanti. Lì dentro doveva essere un viavai con-
tinuo di gente. Chi avrebbe resistito più di qualche giorno a fare
noiosissime interviste? L’australiano ci raccomandò perfino di non re-
starci male se fossimo stati scartati, un trucco da due soldi per convin-
cerci che valeva la pena lavorare per loro.
«Evvai!»
«Sì!»
«Complimenti!»
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Qualche giorno dopo tornai per fare le mie prime cinque ore. Il re-
sponsabile per l’Italia mi fece sedere a una delle postazioni e mi disse
che l’intervista di quel giorno riguardava l’Iran, Israele eccetera.
«Sei pronto?»
«Altroché.»
«Le assicuro» lessi, «che non voglio venderle niente. Ci preme solt-
anto conoscere la sua opinione su determinati argomenti.»
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La signora fece un gran sospiro e disse che andava bene. Avrebbe ris-
posto alle mie domande, se questo fosse servito a non farmi perdere il
lavoro.
«È per le statistiche.»
«Senta» disse la signora. «Questi non sono affari vostri. Se vuole farmi
qualche domanda in generale, va bene. Altrimenti ho cose più import-
anti da fare.»
Sospirai. Non ce l’avrei mai fatta a resistere cinque ore. Perché con-
tinuavo a trovare lavori a contatto col pubblico? Era chiaro che io e il
resto dell’umanità non riuscivamo a prenderci. Mi chiesi se quella mia
incapacità di stabilire un rapporto normale col prossimo mi poteva es-
sere certificata. Magari ci scappava una piccola pensione. Oppure lo
Stato era obbligato a trovarmi un lavoro in cui non avrei avuto a che
fare con nessuno, ma sarei stato chiuso in una stanzetta, da solo, a lec-
care francobolli o cose del genere. Mi guardai intorno. Gli altri sem-
bravano prenderla bene. Molti di loro sorridevano mentre parlavano
nel microfono. Come facevano? E che cavolo ci trovavano da ridere?
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«Certo, però ha ragione anche lui ad avercela con gli israeliani. Quelli
ne stanno combinando di cotte e di crude in Palestina. Ma d’altronde
cosa vuole? Sono fatti così. Sono ebrei.»
«No, signora, non siamo la radio. Gliel’ho detto che cosa facciamo.
Senta, diciamo che lei è molto in disaccordo con l’affermazione del
presidente iraniano, va bene?»
«Ok.»
Era vietato mettere in bocca agli intervistati le risposte. Era una delle
poche cose che ricordavo dal corso. Ma almeno sarei andato avanti con
le domande.
«Lo facciamo con tutti all’inizio. Comunque, non fare mai più una cosa
del genere. Se serve, gli ripeti fino alla nausea che devono scegliere
una risposta fra quelle che gli elenchi tu. Chiaro?»
Annuii, sperando che l’espressione del mio viso non tradisse la noia
che provavo in quel momento. Una noia insostenibile. Avrei voluto
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Il supervisore sorrise e mi diede una pacca sulla spalla, forse per farmi
capire che non ce l’aveva veramente con me. O forse perché aveva
paura che mi licenziassi, e lui non poteva permettersi di perdere
telefonisti.
«Ah, e un’altra cosa» disse. «Se devi interrompere una telefonata dici
gentilmente che richiamerai e chiudi, non che devi scappare in bagno,
ok?»
«Ok.»
«Sì?»
«D’accordo.»
«Bene. Ora fai dieci minuti di pausa e poi torna di corsa al telefono.»
Carlo mi vide. Posò le cuffie e ne approfittò per fare pausa anche lui.
«Lascio perdere.»
11
Poi la ragazza di Carlo, un’inglese di nome Katy o Ketty, non l’ho mai
capito, mi disse che dove lavorava lei cercavano gente.
«Bello, che c’entro io? Io sono un account manager, non un logistic su-
pervisor.» Disse così o qualcosa del genere. Non ci capivo niente con
tutte quelle qualifiche in inglese. Ma capii che era una scusa. In realtà
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«Sono io.»
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«Dal tuo curriculum sembra che tu sia una persona molto creativa.
Non credi che tutta questa creatività andrebbe persa lavorando per la
nostra compagnia? Considera che il tuo lavoro sarebbe tutt’altro che
creativo.»
«Sì, be’, non c’è problema» dissi. «A me piace essere creativo fuori
dall’orario di lavoro, per distendere i nervi eccetera. A dire la verità, un
lavoro più è noioso e più mi piace.»
«Bene» disse Lindsey. «Ora, ascolta. Lavorando qui da noi spesso po-
tresti affrontare dosi elevate di stress. Vorrei che ci spiegassi come
faresti a gestirle. Sai, i problemi si accavallerebbero, riceveresti re-
clami, telefonate di gente arrabbiata eccetera. Come reagiresti in uno
scenario del genere?»
Lindsey mi fece altre domande, poi si alzò in piedi e disse: «va bene, è
tutto. Abbiamo i tuoi dati. Ti faremo sapere nei prossimi giorni, sia che
avremo deciso in tuo favore, sia nell’altro caso.»
Lindsey allungò la sua, ma a metà strada si fermò. «Ehm, hai la zip ab-
bassata» disse.
«Eh?»
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«SEI ANDATO AL COLLOQUIO IN JEANS?» urlò Katy.
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«Sì, e allora?»
Fui lì lì per dirle anche che ero andato al colloquio con le scarpe da
ginnastica, ma avevo troppa paura che si buttasse sotto la prima mac-
china che passava.
13
L’aspettativa dalla scuola stava finendo. E anche i soldi, se è per
questo. Ad aprile cominciai a chiedere lavoro a chiunque: ristoranti
italiani, pub, panifici. Dicevo a tutti di avere un sacco di esperienza in
qualunque campo. Pizzaiolo? Lo ero stato. Cuoco? Anche. Maître? Hai
voglia.
Mi scrisse Flavio.
Ciao Santo!
Flavio.
Era uno di quei giorni in cui mi sentivo terribilmente solo, così dissi:
«sentite, avete da fare? Perché non usciamo a berci una birra tutti
insieme?»
Bevvi il caffè senza offrirglielo e uscii per i fatti miei. Cercai lavoro, ma
sembrava che nessuno in quella città avesse bisogno di una mano.
Disse che era l’architetto che aveva progettato i negozi di non ricordo
quale importante casa di moda.
14
«Santo» disse Lise, «devo dirti una cosa.»
«Sentiamo.»
«Ok» disse lei. E poi fece una cosa che non le perdonerò mai: arricciò
il labbro inferiore come fanno i bambini quando si stanno per mettere
a piangere. Era un modo divertente per farmi capire che in fondo le
dispiaceva che me ne andassi.
La sera prima di partire Lise mi chiese di passare l’ultima notte con lei.
Valle a capire le ragazze. Andammo a letto insieme e a mezzanotte
spaccata, mentre ci stavamo baciando eccetera, le squillò il telefono.
Quando controllò, mezz’ora dopo, scoprì che era stato il suo ex
ragazzo, quello con cui era stata per nove anni.
«Auguri» dissi.
Quella notte Lise nel sonno strillò più del solito. A un certo punto ebbi
paura che andasse in cucina a prendere un coltello per ficcarmelo nel
petto, ma fortunatamente non successe niente del genere.
«Ottimo» disse lui, «torni giusto in tempo per il primo maggio. Apri
tu, ok?»
Presi la porta e uscii. Scesi le scale di corsa, arrivai al portone e... non
si apriva. Era chiuso a chiave dall’interno. Aspettai qualche minuto,
ma non entrò né uscì nessuno. Risalii le scale e suonai il campanello di
Lise. Attraverso la porta sentii un lamento e rumori di passi
strascicati.
«Chi è?»
Lise aprì e mi fissò con odio. Le spiegai qual era il problema, lei prese
la chiave e mi accompagnò giù. Barcollava e si teneva la pancia con
una mano, ma pensai che era sempre bellissima. Peccato non avesse
funzionato fra noi. Quando finalmente uscii da quel palazzo, alle mie
spalle sentii il portone sbattere con più energia di quanta fosse neces-
saria. Addio anche a te, Lise.
Capitolo terzo
1
Ricominciai con la scuola e con la libreria. Poi la scuola chiuse per l’es-
tate, mi tagliai i capelli cortissimi, e continuai a lavorare soltanto in
libreria, tre giorni a settimana. Il resto del tempo lo trascorrevo per lo
più da solo, andavo al mare a leggere romanzoni ottocenteschi di mille
pagine, oppure suonavo con i Cellophane.
Una sera dopo le prove andai con Gianluca in un pub dove c’era una
barista dai capelli ricci e i lineamenti forti. Il naso, le labbra, gli occhi,
le emergevano dal viso come se avessero voluto scappare. Io la trovavo
carina. In più mi salutava sempre con calore, e in quel periodo di
calore me ne serviva un sacco.
Vuoi sposarmi?
OK
2
Quell’estate Flavio mi fece firmare un contratto. Prima lavoravo in
nero.
Per un po’ Lise continuò a scrivermi. Voleva sapere come stavo, cosa
facessi. Mi scriveva più adesso di quando ero a Rotterdam. Un giorno
che ero in libreria le risposi così:
Lise,
Stai bene,
Santo.
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3
Qualche giorno dopo rividi una ragazza che conoscevo da tempo. Si
chiamava Sandra, come la barista. Era alta, aveva grandi occhi azzurri
e lunghi capelli rosso scuro. Eravamo pure usciti insieme, una volta,
ma non era successo niente, non ci eravamo presi.
«Quando?»
«Quando vuoi.»
4
Tornai dalla prima Sandra, la barista. Stava preparando birre e cock-
tail a ciclo continuo, ma quando mi vide s’illuminò in viso.
però feci un’altra puntata al bar. Sandra stava ancora riempiendo boc-
cali e bicchieri.
5
Un paio di giorni dopo ero in libreria con l’altra Sandra, quella con i
capelli rossi, e a un certo punto le chiesi che programmi avesse per la
serata.
«Nemmeno.»
«È pieno di scocciatori.»
Sandra sorrise. Era carina quando sorrideva. Aveva gli incisivi superi-
ori piccoli e leggermente distanziati, ma in un modo che le donava.
«Certo.»
«Ok.»
elastica fatta su misura per lei. Che ci faceva una ragazza così bella e
intelligente con uno come me?, mi chiesi. Che problema aveva? Non
ero certo un esempio di bellezza. Avevo i denti storti e i piedi piatti,
ero troppo magro per la mia altezza, muscoli manco a parlarne, brac-
cia e gambe nodose. In più non avevo prospettive per il futuro, ero
tutt’altro che un buon partito, la mia famiglia non era ricca, non sop-
portavo la gente, ero sciatto, taciturno e tenevo spesso il muso.
6
Recuperai il foglietto con il numero di Sandra la barista e la chiamai.
Le chiesi se le andava di uscire e lei rispose di sì, che le avrebbe fatto
piacere. Decidemmo di vederci sugli scalini del duomo. Mentre as-
pettavo pensai un po’ a Lise, la mia bionda ragazzona olandese. Erano
passati due mesi e mezzo dall’ultima volta che l’avevo vista, ma sem-
brava molto di più.
Sandra arrivò poco dopo. Aveva i capelli ricci e voluminosi, si era truc-
cata leggermente gli occhi e indossava un giubbetto di pelle aderente,
da uomo. Con un balzo mi si sedette accanto e fece una faccia buffa.
«Ciao donna.»
«Dove si va?»
«Bentornato» disse.
«Grazie.»
Io e Sandra parlammo del più e del meno per circa un’ora. Con lei la
conversazione era più informale, giocavamo a comportarci da idioti.
Sandra aveva occhi espressivi e una bella bocca carnosa che assumeva
una forma strana ogni volta che scherzava.
Solo ora mi rendevo conto che doveva essere molto più giovane di me.
«Ventidue. È un problema?»
Forse erano davvero finiti gli anni bui, pensai. Quando le ragazze
voltavano la testa e mi lasciavano a secco. Gli anni dai dodici ai dician-
nove, in particolare, erano stati duri. Sette anni di rifiuti difficili da di-
gerire. Spesso immaginavo di stare vivendo, a trent’anni, tutte le es-
perienze che non avevo fatto da adolescente, come se volessi recuper-
are il tempo perduto. E il mio corpo sembrava confermare quella teor-
ia. Tutti mi davano al massimo ventiquattro anni. Secondo i miei cal-
coli avrei cominciato a ragionare come un adulto (e ad assomigliargli)
verso i cinquant’anni.
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7
Grazie alle due Sandre feci del mio meglio per dimenticare Lise. Stab-
ilii una routine: un giorno vedevo una Sandra, quello dopo l’altra. Ogni
tanto riuscivo a vederle tutte e due nello stesso giorno, grazie al fatto
che abitavano in zone diverse del centro e avevano orari lavorativi che
non coincidevano. Col telefono dovevo stare attento. I loro nomi erano
uno sopra all’altro, nella rubrica, e più di una volta chiamai la Sandra
sbagliata e dovetti inventare una scusa. Quando mi venivano dei dubbi
circa la mia condotta, scuotevo le spalle e mi dicevo che non c’era ni-
ente di cui preoccuparsi.
8
Era estate e la libreria cominciò a riempirsi di turisti. Una marea di
gente che proveniva da tutto il mondo. La maggior parte voleva usare
internet, oppure chiedeva se avevamo libri illustrati sulla Sicilia; lib-
roni massicci, pieni di foto, che si sarebbero dovuti portare in aereo
pagando il bagaglio extra per il gusto di mostrarli agli amici e darsi
delle arie. Alcuni compravano Il gattopardo o i libri di Pirandello per-
ché pensavano fosse fico leggersi un romanzo negli stessi posti in cui è
97/269
9
Con i clienti locali andava meglio, ma erano ossessionati dallo sconto.
«Mi scusi, non lo sapevo» dicevo. «Allora invece di diciotto euro fac-
ciamo diciassette.»
«Mi dispiace, non posso fare sconti. Sa, sono solo un dipendente.»
Era una bugia colossale e loro lo sapevano. Questo non faceva altro
che aumentare il loro livore. Che poi era il mio scopo.
10
Nonostante tutto, quello fu un bel periodo. Tre giorni alla settimana al
lavoro, il resto del tempo al mare o ad alternarmi con le due Sandre.
Una sera ero a casa di una delle due Sandre, quella con i capelli rossi e
gli occhi azzurri grandi. Stavamo vedendo un film sdraiati sul suo
letto. Non era un bel film, ricordo che preferivo guardare le caviglie e i
polsi di Sandra, che erano sottilissimi e lasciavano intravedere la rag-
natela di vene sotto la pelle.
«Il fatto è che mi sono rotta di vederti un giorno sì e uno no. Non è
normale. Neanche te l’avesse ordinato il medico.»
100/269
«No, non lo capisco.» Non era arrabbiata, solo dispiaciuta. Si era pre-
parata il discorso per mezzo film, e ora eccolo qua.
«No... Non voglio dire che non mi piaccia stare insieme a te. Mi piace
moltissimo. È solo che...»
«Ascolta» disse lei. «Le cose stanno così: o ci vediamo tutti i giorni
come le persone normali o non ci vediamo affatto, chiaro?»
Poi, ero appena arrivato in piazza Archimede quando alle mie spalle
sentii qualcuno chiamarmi.
«Santo!»
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«Aspetta!»
«Ci ho ripensato» disse. Aveva il fiatone. «Se è questo che vuoi, allora
mi sta bene. Anche se ci vediamo un giorno sì e uno no, per me va
bene lo stesso.»
Non dissi nulla. Speravo che lei capisse da quel silenzio come la
pensassi. E infatti lo capì.
«Sandra...»
«Va bene, Santo. Come vuoi» disse lei. Voltò la bicicletta e tornò da
dove era venuta.
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L’altra Sandra, l’unica che mi fosse rimasta, mi telefonò qualche
giorno dopo in libreria.
«Ho un ritardo.»
102/269
«Santo? Ci sei?»
«Mai.»
Mi ricordai della volta in cui Sandra si era vantata di non avere mai
avuto un ritardo in vita sua, nemmeno di mezza giornata. “Ci potrei
puntare l’orologio” aveva detto.
«Ok, a più tardi» disse Sandra, e riattaccò. Il suo tono non era
spaventato. Era calmo, come quello delle persone pratiche quando
devono affrontare un problema.
Diedi per scontato che Sandra fosse incinta, e trascorsi il resto del po-
meriggio a ideare un piano alternativo. È legale l’aborto in Italia? mi
chiesi. E se lei vuole tenere il bambino? Devo riconoscerlo per forza?
In quali paesi del mondo è più facile sparire per uno che non sa fare
niente e non ha soldi da parte?
«Come va?»
«Dolori premestruali?»
«Nessuno.»
«Hai paura?»
Rita, un’amica di vecchia data, disse che mi stava bene. Secondo lei
Sandra puzzava ed era strana. Mi aveva detto più volte di stare attento.
«Ehi, vacci piano» disse lui con quell’accento mezzo siculo mezzo lom-
bardo che si ritrovava. «L’aborto è un trauma per una ragazza. Mica
gliene puoi parlare così. Devi avere tatto.»
«Agnostico, caso mai» disse Vanni. «E no, non lo sono più. Da un po’
di tempo ho intrapreso un nuovo cammino spirituale. Ho conosciuto
una ragazza della chiesa evangelista, e ho scoperto che...»
«Seee.»
105/269
12
L’indomani eravamo già a cinque giorni di ritardo. Si avvicinava la
sicurezza matematica che Sandra fosse incinta. Era luglio inoltrato,
fuori facevano trentotto gradi, e un’ora prima di aprire la libreria, alle
tre del pomeriggio, me ne andavo in giro per la città deserta come
ubriaco. Non riuscivo a credere che stesse succedendo proprio a me.
Non volevo un figlio da Sandra. Anzi, non volevo un figlio da nessuno.
Il mondo mi sembrava già fin troppo affollato, qualcuno doveva pur
mettere da parte il proprio egoismo e rinunciare a riprodursi. E ormai
da tempo avevo deciso che quel qualcuno sarei stato io. Il mio DNA si
sarebbe estinto con me, e allora? Tanto meglio.
«Come va?»
«Sto malissimo.»
«Mi sono venute le mie cose. Sono più forti del solito. Sto a pezzi.»
«Oh, mi dispiace.»
106/269
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Quell’estate si sposò anche mio fratello. Guarda caso, con un’olandese.
Con indosso i miei soliti pantaloni di flanella andai alla cerimonia, e al
ristorante capitai allo stesso tavolo con cinque olandesi. Per un po' li
ascoltai parlare in silenzio mentre mangiavo. Poi non riuscii più a
trattenermi e mi alzai.
«Grazie.»
Lise mi mancava ancora molto. Avrei voluto che fosse lì anche lei.
Ormai non la sentivo da un pezzo. Mi chiesi che cosa stesse facendo in
quel momento, con chi fosse.
107/269
Scrissi a Lise che non era vero niente che non volevo più sentirla.
Volevo che restassimo in contatto, e che magari prima o poi ci
rivedessimo.
Aspettai una settimana, poi le scrissi un’altra volta. Forse non aveva
ricevuto la mia prima email? le chiesi. E comunque: avevo una gran
voglia di rivederla. Era possibile? Voleva fare un viaggio con me? Io e
lei da soli?
Caro Santo,
Lise.
Quando lessi questa risposta ero in libreria. Non riuscii a togliere gli
occhi dallo schermo per un pezzo. Rilessi quelle frasi una ventina di
volte senza mai trovare uno spiraglio, una speranza, niente. Era
proprio finita. Non riuscivo a crederci. La mia ragazzona olandese, an-
data per sempre.
108/269
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Questa volta stetti veramente male. Non ero mai stato così male per
una ragazza in vita mia. La sera andavo a letto pensando a Lise e al
fatto che non l’avrei mai più rivista. La mattina mi svegliavo e mal-
edicevo me stesso per essere vivo, se significava dovere attraversare
tutte quelle ore di veglia sull’orlo del pianto. Per fortuna Sandra in
quel periodo era in vacanza dai suoi, a Catania. In compenso parlavo
di Lise con chiunque mi capitasse a tiro, perfino con mia madre.
«Niente, mamma.»
«Sì.»
«Ma dài, quella bionda e alta?» Lo disse con una smorfia, come se
avere i capelli biondi ed essere alta fossero due difetti imperdonabili
per una ragazza.
«Ma smettila! Piuttosto trovati una bella ragazza siciliana. Che cosa
sono queste ragazze straniere?»
109/269
«E Leo allora?» dissi. Leo era mio fratello, quello che si era appena
sposato.
«Appunto, uno basta e avanza. Dài, riprenditi. Lo sai come si dice, no?
“Chiusa una porta, si apre un portone.”»
«Come no.»
Ne parlai perfino con mio padre, per dire come stavo messo.
Lui ascoltò con calma. Poi disse solo: «mogli e buoi dei paesi tuoi.» Ni-
ent’altro.
«In che senso “paesi tuoi”, papà? Mogli e buoi siciliani? Siracusani?
Del nostro quartiere? Del nostro pianerottolo?»
15
Mi sembrava d’impazzire. Dovevo trovare qualcosa per distrarmi.
16
La storia con Sandra andava avanti. Ci vedevamo soprattutto di po-
meriggio, perché la sera e la notte lei lavorava. Di giorno invece
dormiva. Si svegliava verso le quattro del pomeriggio, poi mi chiamava
per chiedermi di andarla a trovare. Io prendevo la bici e la raggiun-
gevo. Di solito la trovavo nella sua stanza, al buio, con addosso ancora
il pigiama. Lì dentro c’era puzza di chiuso e di scarpe da ginnastica su-
date. E anche di merda, se è per questo. Sandra aveva un gatto, ma
evidentemente non aveva tempo per pensare a lui, e così il poveretto
aveva la lettiera intasata di cacca. Sul serio, traboccava di fuori.
«Come no, guarda qua» dicevo mentre con una paletta filtravo la letti-
era. «Si può sapere come fai a dormire vicino a tanta merda?»
«Senti, se sei venuto a rompere i coglioni allora era meglio che non
venivi.»
*
112/269
«Bene.»
«Ok.»
Non avevo mai conosciuto una ragazza che chiedesse lei di farlo. Di
solito aspettavano che fossi io a prendere l’iniziativa, e anche allora
non ero sicuro che si arrivasse a qualcosa. Con Sandra era tutto molto
più semplice. Fu grazie a una serie di pomeriggi del genere che final-
mente riuscii a dimenticare Lise.
17
Ma la situazione in libreria era sempre la stessa. La cosa buffa era che
tutti i clienti erano convinti di capirne più di chiunque altro (soprat-
tutto di me) in fatto di libri. E ognuno credeva di avere gusti letterari
superiori alla media. Anche quelli che leggevano libri stupidi (anzi,
soprattutto loro) la pensavano così. Più erano ignoranti, più si davano
l’aria da intellettuali. E trattavano me di conseguenza. Dovere avere a
che fare col sottoscritto lo consideravano un ulteriore prezzo da pagare
113/269
«Mh mh mh.»
«Non ho capito.»
«Cos’è, sordo?»
18
Passò un altro Natale e un altro inverno.
A scuola quell’anno avevo tre classi. E visto che era in centro, ci an-
davo in bicicletta. Quando i ragazzi mi vedevano arrivare me ne
dicevano di tutti i colori.
115/269
«Professore Pantani!»
19
Non so perché, ma in quel periodo Flavio si mise ad aggiungere delle
regole.
116/269
Un giorno per esempio se ne uscì con quella cosa sulle luci. Al mattino
dovevo accendere tre file di neon, mentre di pomeriggio quattro,
anche se il risultato era lo stesso.
«Ciao» diceva, e si fermava sulla soglia per avere una visione d’in-
sieme del negozio. Riusciva sempre a trovare qualcosa che non an-
dava. La musica, per esempio, era sempre a volume troppo alto o
troppo basso. Per prima cosa, quindi, ogni volta si avvicinava allo
117/269
«Tutto bene?» diceva poi. Aveva il vizio di parlarmi con fare annoiato,
come se lo avessi pregato in ginocchio di potere lavorare in quella lib-
reria e lui avesse acconsentito malvolentieri.
«Quello che dice: “Signora Garofalo deve dare dieci euro?” Sì, l’ho
trovato.»
«Certo.»
«Sentiamo.»
«Li prendo.»
«Mi raccomando.»
20
Forse ero troppo concentrato su me stesso, ma davvero non riuscivo a
togliermi dalla testa che certi clienti ce l’avessero con me. Che si com-
portassero da matti e mi dessero fastidio solo per farmi i dispetti.
«Ma che stai dicendo?» disse Sandra quando gliene parlai. Era la fine
dell’estate, un altro Natale in libreria si avvicinava e io avevo già
cominciato a farmela sotto.
«Quale impressione?»
«Di quelli che si annoiano e stanno in giro senza niente da fare. Poi
passano davanti alla libreria, danno un’occhiata dentro, vedono me e
pensano: “rompiamo un po’ le scatole a quel poveretto”.»
«Sei paranoico.»
«È la verità. Lo fanno per sentirsi vivi. Sono soli come cani e l’unico
contatto umano che riescono ad avere è con i commessi. Sono sicuro
che anche al pub è così» dissi per coinvolgerla. «Dai, non dirmi che
non è pieno di rompicoglioni anche lì da te.»
21
Con Sandra le cose cominciarono a peggiorare. Eravamo entrati in
quella fase in cui una mia parola bastava per farla infuriare. Non era
colpa sua. Non era colpa di nessuno. Va così e basta.
«Allora com’è che non ti vedo mai andare a lezione? O fare un esame?
O studiare? Ti svegli alle cinque del pomeriggio, giusto in tempo per
andare in quel pub e...»
22
Fu allora che conobbi una ragazza americana. Si chiamava Andrea, era
di New York. Io avevo conosciuto diverse ragazze americane in pas-
sato, ma nessuna di loro era nata e cresciuta a Manhattan, in una di
121/269
Andrea era venuta in Sicilia per motivi di studio. Era molto giovane,
ma anche matura in un certo senso. Di lei mi piaceva che a differenza
delle sue amiche aveva un minimo di cultura. Tanto per cominciare
sapeva chi erano Philip Roth o Kurt Vonnegut, per esempio. E poi sua
madre era una scrittrice. Anni prima aveva vinto il pulitzer per certi
editoriali che aveva scritto per il “New York Times”, dopodiché si era
riciclata come romanziera e aveva fatto centro al primo colpo con una
storia strappalacrime da cui avevano tratto un film con Meryl Streep.
Quella sera lavorava Sandra. «No, non mi va. Credo che me ne andrò a
casa.»
«Cosa sei» diceva lei, «uno di quei tizi timidi che odiano i posti
affollati?»
23
Andrea era perennemente attaccata al telefono perché lo usava per
scrivere messaggi a tutti, tutto il tempo. Anche mentre parlava con me
aveva gli occhi sul telefono e il pollice sulla tastiera.
Una volta riuscì a trascinarmi al pub di Sandra, che però quella sera
non lavorava, e ci sedemmo allo stesso tavolo con due sue amiche, una
rossa di capelli, l’altra bionda. La rossa era leggermente tracagnotta
ma aveva dei begli occhi. La bionda invece era un po’ troppo cam-
pagnola nel senso americano del termine. Aveva gli occhi annebbiati di
chi è cresciuto con vagonate di stronzate religiose scaricate addosso
quotidianamente. Era un peccato, perché delle tre era quella che aveva
più potenziale di tutte.
«Perché non parlate più piano?» disse la bionda, Jane. «Vi sentono
tutti.»
«Datevi una calmata voi due» disse Andrea, che credo fosse il capo
della comitiva. Le altre due infatti si zittirono all’istante e andarono in
bagno insieme.
«Sono così naïf» disse Andrea delle amiche. «Hanno un modo di com-
portarsi totalmente naïf. Anche il loro stile di vita, se ci fai caso, è
proprio... come dire?... proprio...»
«Naïf?» dissi.
«Totalmente.»
«Oh. Mio. Dio» disse la rossa quando tornarono. «Sono ubriaca come
la merda.»
«Quali ragazzine?»
Andrea restò a fissarmi con quegli occhi intensi, scuri. Aveva gli
zigomi pronunciati, la pelle liscia trattata con prodotti che dovevano
costare centinaia di dollari la boccetta. Mi sporsi a baciarla e fui in-
vestito dal suo profumo. Sicuramente un profumo da altrettante
centinaia di dollari. Tutto pareva costoso addosso ad Andrea. Ma non
era solo questo. Quando la baciavo mi sembrava di baciare tutta Man-
hattan, tutto lo Stato di New York, tutta la costa est degli Stati Uniti.
Senza staccare le labbra dalle sue aprii gli occhi e controllai ancora una
volta l’ingresso del pub. Stava uscendo qualcuno, ma non era Sandra.
Allora richiusi gli occhi.
125/269
24
Sandra disse di non volermi vedere mai più. Fui d’accordo.
Uscii altre volte con Andrea: andavamo in un pub con le sue amiche
naïf, poi finivamo in mezzo alla strada a baciarci.
«Perché?»
«Certo che puoi fidarti di me!» dissi. Ma ovviamente era la cosa più
sbagliata che potessi dire. Un tizio più sveglio avrebbe fatto una bat-
tuta, le avrebbe detto che aveva ragione a non fidarsi eccetera. Ma io
ero tutt’altro che sveglio, soprattutto se una ragazza mi piaceva.
Rientrammo nel solito pub, che quella sera scoppiava di gente. Andrea
si mise a ballare in modo sexy una canzone hip hop insieme alle sue
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25
Non riuscii mai a guadagnarmi la fiducia di Andrea. Solo un po’. E
dopo qualche settimana che uscivamo insieme lei mi chiamò e disse:
«Santo, meglio non vedersi più. Niente di personale, ok?» E così persi
la mia bella e ricca ragazza newyorkese. Avevo perso la ragazza olan-
dese, poi quella siracusana, poi quella catanese e ora la ragazza
newyorkese. Si poteva essere più incapaci? Arrivai al punto di chie-
dermi come facessero gli altri a tenersi le ragazze. Se per strada vedevo
un ragazzo e una ragazza tenersi per mano ero tentato di domandargli
come avessero fatto ad arrivare a tanto, e se potevano insegnare anche
a me qualche trucco.
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Quando Andrea poco prima di Natale tornò a New York lasciò una let-
tera per me in libreria. Scrisse che era pentita che fra noi le cose
fossero andate com’erano andate eccetera. Se capiti a New York,
questo è il mio numero. Chiamami.
26
Quel Natale in libreria fu se possibile peggiore degli altri. Di nuovo, mi
svegliavo la mattina giurando a me stesso che sarebbe stato l’ultimo
Natale che avrei passato là dentro. C’era qualcosa, nel lavorare in un
negozio sotto le feste, che mi faceva venire la nausea. Dovere dis-
tribuire merci a gente che sembrava non averne mai abbastanza era
semplicemente orribile.
«Ma sei pazzo? Sarebbe la fine.» Non avevo mai visto Flavio ridotto
così, con i capelli arruffati e gli occhiali che gli scivolavano continua-
mente sul naso. «Dobbiamo riuscire a trovare quei libri.»
«Certo, signora.»
«Ne è sicuro?»
«Sì.»
Dopo un po’ Flavio disse che forse aveva trovato una soluzione.
«Sta venendo un mio amico. Facciamo così: gli diamo la lista dei libri
che mancano e lui li va a comprare in quella libreria che c’è in corso
Garibaldi. Che ne dici?»
«Geniale.»
Il suo amico tornò un’ora dopo. Parcheggiò il SUV in seconda fila dav-
anti alla libreria e suonò il clacson un paio di volte.
«È per non fare capire all’altra libreria che erano per noi» mormorò.
«E ora?» dissi.
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Flavio abbassò ancora di più la voce. «Che vuol dire “e ora”? Sveglia,
Santo. Ora li spacchetti a uno a uno e li metti fra i libri ordinati, no?»
Presi il primo pacchetto – l’adesivo sul nastro era quello dell’altra lib-
reria – e cominciai a strappare la carta.
«Si può sapere che stai facendo?» sibilò Flavio. Il cliente che stava ser-
vendo si voltò a guardarmi.
«Sssst!»
col tagliacarte ruppi il nastro. E realizzai che quelli sarebbero stati gli
unici regali che avrei scartato per Natale.
Capitolo quarto
1
Ero seduto dietro il bancone nella libreria deserta. I primi mesi
dell’anno si vedevano pochi clienti perché la gente aveva speso tutto a
Natale. Me ne stavo lì non ricordo a fare cosa, forse a leggere un libro o
più probabilmente a fissare il vuoto come una statua di cera, quando
squillò il telefono.
«Stasera?»
«Perché no?»
«D’accordo, a dopo.»
Alle otto chiusi e mi misi ad aspettare sul marciapiede davanti alla lib-
reria. Ero curioso. Poi, quando arrivò, scoprii chi era Paola. Era una
delle clienti più assidue della libreria, forse la prima che avessi servito
io stesso. Era quella del Silenzio / Silenzi degli innocenti. Fui sorpreso
che mi avesse chiamato; in libreria avevamo scambiato pochissime
chiacchiere in quegli anni. Di Paola sapevo soltanto che non era sicili-
ana ma del Lazio, e che lavorava per una multinazionale. Ordinava
vagonate di libri ogni mese. Era alta e magra, e aveva un bel sorriso.
Quella sera vedemmo un film di Woody Allen che non era un granché,
poi facemmo una passeggiata e alla fine ognuno andò per la sua
strada.
2
Continuammo così per un pezzo, e dopo un po’ che ci vedevamo decisi
che mi piaceva. Paola viveva da sola in centro, non lontano dalla lib-
reria. M’invitava spesso a casa sua per bere un tè, oppure andavamo al
cinema, o semplicemente in giro. Il primo bacio era nell’aria ma tar-
dava ad arrivare, anche perché la ragazza era timida e stava sulle sue.
«Credo di sì.»
«Perché no?»
Mi chiesi cosa avrebbe detto se avesse visto casa mia, ancora vuota a
parte il letto-pallet e il cucinino da campeggio. E intanto cercavo di
scoprire quale fosse il momento giusto per baciarla. Per me era già ab-
bastanza complicato con le ragazze intraprendenti, quelle che ti fanno
capire che hanno voglia di essere baciate; figuriamoci con una ragazza
che sembrava avere sotterrato qualunque ambizione sessuale sotto
centinaia di romanzi che incombevano su di noi dagli scaffali di una
libreria bianca.
«Oh, niente. Guardavo più che altro come sono sistemati. Li hai divisi
per casa editrice, eh?»
«Mmmh.»
«Che c’è?»
«Non lo so... Così mi ricorda la libreria dove lavoro, con le coste uguali
una accanto all’altra. Io li dividerei per autore. Tutto quest’ordine non
è il massimo. Sembra la libreria di Rainman.»
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«Rainman?»
«Senza offesa.»
«Ok» dissi. «Come non detto. Facciamo finta che non è successo
niente.»
«Secondo te? Volevo baciarti. Ma è stata una pessima idea. Senti, las-
ciamo perdere. Ti chiedo scusa.»
«Davvero?»
Allungai le mani per accarezzare varie parti del suo corpo, ma lei in
maniera sistematica, senza smettere di baciami, mi afferrava per i
polsi e si levava le mie zampe di dosso.
3
Ci vollero non so quanti tè perché Paola si sciogliesse. Il suo letto era
al piano di sopra, non l’avevo ancora visto. Un giorno mi portò a dargli
un’occhiata e senza che ce ne accorgessimo eravamo mezzi nudi sul
materasso. Ci baciammo, poi staccai le mie labbra dalle sue e
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«No?»
4
Un giorno a scuola entrai in classe e dissi: «oggi vi spiegherò l’altern-
anza delle stagioni.»
«Professore» sentii qualcuno dire alle mie spalle. Mi voltai. Era il pro-
prietario della scuola. Quello che non voleva scucire un euro anche se
lui prendeva soldi sia dallo Stato che dalle famiglie degli studenti. Era
un ometto in giacca e cravatta dalla testa rettangolare. Il classico sicili-
ano convinto che l’unico modo per tirare avanti nella vita sia fregare
gli altri. Con me ci stava riuscendo benissimo, così come ci stava rius-
cendo Flavio. Col tempo mi ero convinto che fosse colpa del mio co-
dice genetico. Ero programmato per farmi fottere. Non potevo farci ni-
ente. «Dove sta andando?»
«Professore» disse lui per la terza volta. Lo diceva con lo stesso tono di
voce e l’espressione del viso con cui avrebbe detto “testa di cazzo”. «La
prego solo di non prendermi in giro, d’accordo? A partire da oggi
voglio che i ragazzi al ritorno da queste vostre gite “d’istruzione”» –
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«Certo.»
«Come “giù che aspettano”? Vuole dire che I RAGAZZI SONO FUORI
DALLA SCUOLA SENZA ACCOMPAGNAMENTO? MA LEI È UN...»
Senza ascoltare il resto corsi giù per le scale e raggiunsi i ragazzi. Per
fortuna nessuno di loro si era fatto mettere sotto da una macchina.
Restò tutto come prima, solo che da quel giorno alla fine delle nostre
gite chiudevo il giornale, facevo avvicinare i ragazzi e gli dettavo qual-
cosa da scrivere sui loro quaderni come relazione.
5
Poi le cose con Paola si sbloccarono. Successe tutto all'improvviso,
come in sogno.
6
La domenica successiva in libreria stavo ancora provando quella
sensazione. Come se mi fossi appena svegliato da un bel sogno di cui
ricordavo solo l’atmosfera. Mi sentivo rilassato e appagato. E questo
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Quella della domenica era gente vestita a festa, profumata, appena us-
cita dalla messa o diretta a messa, che appena vedeva un negozio
aperto doveva fiondarcisi dentro a tutti i costi. A colpirmi erano
soprattutto quelli della mia età, persone frustrate che si erano create
una famiglia perché pensavano di non avere altra scelta. Le donne
spingevano un passeggino dentro cui piangeva un bambino. A seguire
c’erano gli uomini, tizi sui trenta, quarant’anni, che non capivano
come si erano fatti fottere in quel modo. Li avevano privati della vita e
non se ne capacitavano. Si guardavano attorno spaventati o, peggio,
rassegnati. Quasi non parlavano con le mogli. E se lo facevano non le
guardavano in faccia. Tutti e due parlavano esclusivamente con i figli,
soprattutto le madri. Sceglievano un libro per il pargolo, poi il marito
veniva alla cassa a pagare. Ecco a cosa erano ridotti: a portafogli
ambulanti.
7
La domenica era anche il giorno degli autori locali. Entravano in lib-
reria con i loro libri sottobraccio e dicevano: «potete esporre qualche
copia del mio libro?»
I libri degli autori locali erano stampati male, tutti storti, con una
grafica di copertina che faceva pena. Usavano caratteri particolari, il-
leggibili, pensando forse che così avrebbero attirato l’attenzione del
lettore. La loro era una prosa pomposa e infarcita di aggettivi che
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metteva la nausea alla seconda pagina. Gli autori però erano convinti
di essere dei geni. Pubblicavano a loro spese, ma si credevano tutti il
massimo. Anzi, più i loro libri erano brutti, più pensavano di avere
scritto un capolavoro. Gli altri erano dei raccomandati che avevano
pubblicato con grandi case editrici solo perché amici degli amici, o
perché avevano scritto stupidaggini che erano buoni a scrivere tutti.
Anche loro, a sentirli parlare, avrebbero potuto scrivere un giallo che
avrebbe venduto milioni di copie. E che ci voleva? Se non lo facevano
era solo perché non ci tenevano.
Poi mi lasciavano una bolla di consegna scritta a mano sul retro di uno
scontrino. Non si capiva niente.
Non era finita. Non finiva mai lì. Gli autori locali erano per la maggior
parte pensionati senza niente da fare, e così ogni domenica pomerig-
gio, sbarbati di fresco e irrorati di dopobarba, passavano in libreria a
vedere come andavano le vendite.
sapeva che era esposto il suo libro. Controllava quante copie ne aveva-
mo vendute – di solito nemmeno una – e poi se ne andava, ma solt-
anto dopo avermi guardato con odio puro.
«Ma così non venderà mai una copia! Come fa ad arrivare a Roma o al
Premio Strega se non lo esponete come si deve?»
«Senta, è esposto su uno scaffale insieme agli altri autori locali. Più di
questo non possiamo fare.»
Una strana maledizione faceva in modo che quando capitavano tizi del
genere non entrasse mai nessuno a interromperli. Sembrava che la
gente entrasse solo quando facevo merenda, dovevo andare in bagno,
o telefonavo a qualcuno.
«La prossima volta che un cliente le chiede un consiglio perché non gli
dà il mio libro? È bello! Non lo dico perché l’ho scritto io.»
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«E allora? L’ho regalato a tutti i miei amici. Ce ne fosse stato uno che
me l’ha restituito.»
Controllai al computer.
«Come vuoi.»
«Veramente non...»
«Ninni...?»
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«Senta» dissi, «che cosa vuole fare? Vendere i suoi libri a tutti quelli
che entrano?»
8
In quel periodo dormivo quasi sempre a casa di Paola. La mattina lei
usciva alle cinque per andare in piscina e farsi le sue cento vasche quo-
tidiane prima di timbrare il cartellino al lavoro. Io mi svegliavo verso
le dieci, mi grattavo le ascelle e scendevo in cucina, dove trovavo la
caffettiera già pronta accanto a un biglietto: il caffè è pronto! Buon-
giorno! P.
9
A giugno tenni gli esami di abilitazione che servivano a far fare il salto
dal secondo al quinto superiore a degli ignoranti che sapevano a mal-
apena leggere. Quegli esami erano una farsa. Dovevamo fare ai ragazzi
giusto un paio di domande e poi mettergli la sufficienza.
«La fotoclo...?»
«Una cellula?»
«Come la definiresti?»
«...»
«Aaaaa...»
«Ac...?»
10
Flavio non mi pagava le ferie. Lui però le ferie se le prendeva eccome.
E pagate, per giunta, visto che quando partiva ci teneva me in libreria.
«Sì.»
«Ad agosto.»
«Tu non capisci. È facile parlare così per una che lavora cinquanta ore
a settimana. Io sono abituato a lavorarne dodici, già due giorni di fila
per me sono uno stress insostenibile. Figuriamoci due settimane.»
«Esagerato.»
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«Non avrò più una vita. Vivrò per quel posto. È sempre stato così,
quando gli altri si divertono e vanno in vacanza, io lavoro.»
«Sì, ma non ho capito perché il mondo deve dividersi fra quelli che la-
vorano quando gli altri sono in vacanza e viceversa. Non è giusto.»
11
Prima che mi rendessi conto di quello che stava succedendo arrivò
agosto, e io fui murato vivo in quella libreria per due settimane, brac-
cato dai turisti.
«Come, scusi?»
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«Una chiede di essere servita come si deve, non... così.» L’arpia m’in-
dicò. Ero ancora spalmato sul bancone come uno dei miei alunni
quando dormivano in classe.
«Prego?»
«Io... Io....» disse, «non sono mai stata trattata così in vita mia.»
Ne avevo abbastanza, tanto non c’era verso. Senza dire altro ripresi in
mano La linea d’ombra e mi misi a leggerlo come se il negozio fosse
stato deserto.
Ma non alzai gli occhi dal libro. Finsi di essere immerso nella lettura.
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12
Poi in libreria venne a trovarmi Peter, un hippie americano che da
qualche anno viveva a Siracusa. Insieme a lui c’era una ragazza carina
con i capelli a caschetto e un paio di occhiali da vista.
«Bello» dissi.
«Sai» disse Peter, «ho pensato di farle conoscere un po’ di gente del
posto.»
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Parlammo del più e del meno per qualche minuto, poi se ne andarono.
«Lexington.»
«La conosci?»
13
Mary cominciò a venire al mare con me. Aveva il vizio di mettersi in
topless. Il suo seno non era grande, ma in compenso aveva i capezzoli
perennemente rizzati e in fuori. Io mi sentivo a disagio non tanto per
gli sguardi dei pervertiti che ci circondavano, quanto perché non ero
sicuro che Paola avrebbe approvato.
«È sempre uguale» disse. «Io gli faccio un pompino, poi lui me la lecca
per un po’, poi lo facciamo normale, poi io sopra, poi da dietro, lui
viene e amen. Se sono fortunata, poi fa venire anche me, altrimenti mi
tocca tirare fuori il proiettile d’argento.»
«Non saprei.»
«Va bene.»
«Mh mh.»
«Ok.»
«No?»
«È perché lo stai provando nel punto sbagliato. Provalo nel mezzo. Vi-
eni, avvicinati.»
Mi avvicinai, ma di poco.
Prima che riuscissi a rispondere qualunque cosa, lei aprì il cassetto del
comodino e tirò fuori quell’affare. Sembrava un ovetto Kinder, ma di
plastica bianca. Un filo lo collegava a un interrutore. Mi sembrò
sporchissimo.
«Ti piace?»
«Eh.»
«Sì.»
14
Qualche giorno dopo la incontrai di nuovo.
«Sì, ho una strana infezione alla vagina. Una specie di fungo. Strano,
sto sempre attenta all’igiene intima. Dev'essere qualcosa di congenito.
Mi capita piuttosto spesso, a intervalli regolari.»
15
Andai a cena dai miei. Da quando abitavo da solo cenavamo rara-
mente insieme. Quando succedeva, mia madre cucinava fra le cinque e
le dieci portate, convinta che per conto mio osservassi un digiuno
monastico.
«Quale ragazza?»
«Quella con cui ti vedi. Ogni volta che ti chiamo mi dici che devi uscire
con una ragazza.»
«Seeee» dissi. Ripensai all’unica volta che avevo invitato a cena dai
miei una ragazza. Era stato un disastro. Mio padre non le aveva rivolto
la parola e aveva tenuto gli occhi fissi sul televisore acceso; mia madre
aveva fatto un migliaio di gaffe. La persi quel giorno, quella ragazza.
Da allora mi ero ripromesso che non avrei ripetuto l’esperienza con
nessuna.
*
162/269
Eravamo seduti sul suo divano. Faceva ancora caldo, eravamo mezzi
nudi e bevevamo vino bianco freddo. Le cose cominciavano a non an-
dare per il verso giusto sul fronte sessuale. Ogni volta che allungavo le
mani dovevo sperare nella buona sorte. Ma quel giorno mi disse bene.
Aveva delle belle gambe, Paola. Liscie, per via che andava spesso
dall’estetista, e sode, grazie a tutte quelle vasche che faceva in piscina
ogni mattina. Di solito quando gliele accarezzavo lei attaccava a
scuotere la testa e a fare «tz tz tz», ma certe volte, come quella, socchi-
udeva gli occhi e mi lasciava fare. In un certo senso così era anche più
bello. Mi sembrava di fare qualcosa di male, il che per il sesso è una
manna. D’altronde non è un mistero che i cattolici da quel punto di
vista hanno capito tutto della vita.
16
Un commesso è come un animale in gabbia, come un pesce in un
acquario. Non c’è via d’uscita. Sei costretto a stare lì fino alla chiusura.
Non puoi appendere il cartellino “torno subito” e andare a farti un giro
quando le cose girano male. Non puoi fuggire.
«Perché io ritengo che l’arte dovrebbe nutrire l’io nascosto nel pro-
fondo delle budella dell’uomo. Non male questa, vero? L’ho scritta
stanotte. Prima o poi voglio farti leggere le mie massime. A proposito,
tu non sei mai venuto nel mio studio. Quand’è che vieni?»
Sospettavo che il professore fosse gay. Non era mai stato sposato, e
ogni tanto allungava le mani a palparmi il culo. Temevo che se fossi
andato nel suo studio sarebbe successo qualcosa di imbarazzante per
entrambi, quindi inventavo sempre scuse per non farlo.
«Seeee» disse lui. «Ma se non fai un cazzo dalla mattina alla sera.» Mi
diede una pacca sul sedere, poi con le mani sui fianchi si mise a
guardare i libri d’arte. «È arrivato qualcosa di nuovo da queste parti?»
17
Avevo una teoria. Ero convinto che tutte le persone morte fino ad al-
lora – tutte, dalla preistoria ai giorni nostri – avessero avuto negli ul-
timi istanti di vita lo stesso identico pensiero. Qualcosa del tipo: “se
sapevo che finiva così non mi sarei preoccupato più di tanto.” Ne ero
certo. Per questo non mi preoccupavo mai di niente, soprattutto del
futuro.
18
Qualche settimana dopo incontrai Mario, uno degli altri insegnanti.
Mario era sui quaranta e insegnava da più di dieci anni. Prima al nord
Italia, in Lombardia, poi nella mia stessa scuola privata.
«Che fine hai fatto?» mi chiese con quella sua voce strascicata. Mario
aveva la nebbia davanti agli occhi e paaarlaaaava leeentameeente. Era
imbottito di psicofarmaci. Gli uscivano dalle orecchie.
«Capito... E poi?»
«Poi basta.»
«Sì.»
Vidi l’angoscia squarciare per un istante la nebbia che gli copriva gli
occhi. Poi mi guardò in un modo che non mi piaceva: come se fossi
spacciato; come se si aspettasse di trovarmi a un angolo di strada, da lì
a qualche anno, a fare l’elemosina. Lo salutai, e sperai di non incon-
trarlo più.
19
Chissà perché nessuno prendeva sul serio quel lavoro in libreria. Non
lo consideravano nemmeno un lavoro. Venivo pagato in cambio del
mio tempo, ma per qualche strano motivo questo non bastava per con-
siderarlo un impiego.
Ogni tanto in libreria capitava qualcuno che non vedevo dai tempi del
liceo.
«Sì.»
20
Dopo un po’ che ci frequentavamo, scoprii che Paola non aveva amiche
della sua età. Conosceva soltanto donne vecchie. Zitelle sopra la cin-
quantina inacidite dalla mancanza cronica di sesso che si lamentavano
di tutto. Fumavano e si truccavano troppo, e quando le incontravi
stavano sempre andando a fare la spesa, oppure c’erano appena state.
Con loro Paola si trasformava, si sentiva a proprio agio. In mezzo ai
suoi coetanei era timida e impacciata, ma appena la mettevi in mezzo a
qualche vecchia s’illuminava e diventava espansiva.
«Non posso farci niente se quelli della mia età mi annoiano, va bene?»
disse lei. «E poi scusa, parli tu. Non ti vedo passare tanto tempo con i
tuoi coetanei. Ma che dico, non ti vedo passare tanto tempo con
nessuno.»
170/269
21
Nel frattempo Flavio mi fece firmare un nuovo contratto. Un contratto
a tempo indeterminato.
«Contento?» disse.
«Cambia qualcosa?»
«Mmmh, no. Rimane tutto come prima. Solo che non dobbiamo più
rinnovarlo ogni anno.»
«Ah.»
22
Il piano mi sembrava semplice: intanto avrei cominciato a dormire a
casa mia, poi avrei smesso del tutto di fermarmi a casa di Paola per la
notte. In questo modo avrei eliminato completamente il sesso dalla
nostra storia e a quel punto era fatta. Pensavo che il sesso fosse una
componente fondamentale di una storia, e che tolto quello le storie
evaporassero come neve al sole. In modo spontaneo, senza drammi né
lacrime.
«Fa lo stesso.»
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«Credo di sì.»
«Voglio dire, te ne sarai accorto anche tu, no? Le cose non vanno.»
«Ciao.»
Capitolo quinto
1
Poi come per magia si rifece viva Lise.
Dopo più di tre anni mi scrisse una lettera in cui chiedeva come stavo e
riassumeva tutto quello che le era successo nel frattempo (per fortuna
tralasciò le questioni sentimentali). Le risposi qualche giorno dopo.
Provai anch’io a riassumere la mia vita, ma mi resi conto che era suc-
cesso ben poco. Quasi quattro anni ed ero rimasto fermo dov’ero.
Quattro anni da apprendista libraio. Fu una sensazione orrenda.
Ci pensai su. L’ideale sarebbe stato un posto dove non facesse troppo
freddo in inverno e a raggiungerlo in aereo non si spendeva un cap-
itale. La Spagna poteva andare bene. Lo scrissi a Lise, e prima che mi
rendessi conto di quello che stava succedendo avevo appuntamento
con lei, con la mia bella ragazzona olandese, a Madrid per metà
febbraio. Non riuscivo a crederci. Anche se mancavano ancora un paio
di mesi, cominciai subito a sentirmi nervoso. Dove avremmo
174/269
2
Ma prima avrei dovuto affrontare un altro Natale in libreria. E anche
se ero di buon umore per la faccenda di Lise, fu lo stesso dura, forse
perché continuavo a pensare alle ferie e alle malattie che Flavio non mi
pagava. In più la gente era la stessa vecchia, intrattabile gente di
sempre.
«Quale?»
Squillò il telefono.
«Pronto?»
«Chi?»
«Susanna.»
«No.»
Presi i libri dagli scaffali. Erano i soliti libri che compravano tutti. Mai
nessuno che ti prendesse alla sprovvista e si facesse impacchettare,
che ne so, qualcosa di Philip Roth. E io lavoravo sottopagato per gente
del genere. Com’era possibile? Pensai alla bella Lise che avrei rivisto in
Spagna e mi calmai. Feci i pacchi e li infilai in un sacchetto. Poi andai
a cercare il negozio di Susanna. Almeno, pensai, avrei preso un po’
d’aria e fatto una passeggiata. Pagata, stranamente.
176/269
«Sapete se c’è un negozio di articoli per bambini qui vicino?» dissi con
la voce che mi tremava per il freddo.
«Susanna?» dissi.
«Sei Santo, quello della libreria?» disse una signora coi capelli bianchi.
«Sì. Ecco i libri.» Poggiai il sacchetto su una sedia e corsi vicino a una
stufa elettrica che c’era in un angolo.
«Sì, ma così rischio di darli alla persona sbagliata. Che faccio? Poi gli
dico di scambiarsi i regali?»
3
Subito dopo Natale incontrai una mia amica. Si chiamava Marta.
«Lo so.»
«Va bene.»
Casa mia era ancora senza mobilio, ma nel frattempo avevo comprato
un letto e un divano, quindi pensavo potesse accogliere degli ospiti.
Avevo deciso che non avrei preso molti mobili. Mi consideravo di pas-
saggio in quella casa, in quella città, forse anche in questa nazione, e
volevo tenermi pronto ad andarmene in qualsiasi momento senza
dovermi preoccupare di smaltire la roba accumulata fino ad allora.
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Marta si presentò alle nove di sera. Quando l’andai a prendere fuori fui
guidato nel buio dal rumore dei suoi tacchi sull’asfalto. A me i tacchi
non erano mai piaciuti e Marta ne portava di altissimi. Riusciva a cam-
minarci solo facendo passi corti e frequenti. Una sorta di tip tap ral-
lentato. Non sopportavo neanche le ragazze truccate, piene di gioielli o
troppo profumate, e Marta era tutto questo. Non appena la vidi mi
pentii di avere organizzato la serata. Non mi stava neanche tanto sim-
patica, ma almeno era carina e allegra.
«Quale ragazza?»
«Quella alta e magra. Quella che sembrava tua sorella. Com’è che si
chiamava?»
Risi. Era una risata un po’ triste, devo ammetterlo. «Perché, quale
sarebbe il mio tipo?»
Gliene tastai una. Aveva ragione. Quella era la coppa imbottita del reg-
gipetto. Feci un po’ più di pressione, ma niente. In compenso sentii
crescere un’erezione nei pantaloni. O almeno credo, accidenti.
Pensai alle pareti sottili di casa mia e a come sentissi tutto quello che
dicevano i vicini accanto e di sopra.
«Evvai.»
Mi alzai e misi un preservativo. Poi tornai sopra di lei. Feci per penet-
rarla, ma non ci riuscii. Qualcosa me lo impediva.
«Eh? Perché?»
Le squillò il telefono. Era una sua amica che stava passando a pren-
derla. Ci rivestimmo e tornammo in soggiorno. Finsi di essere calmo e
padrone di me. Improvvisai un paio di battute scadenti, sbocconcellai
il cibo che era avanzato e sorseggiai un altro po’ di birra.
Non dovevo perdere la calma. Forse era vero, quella era una cosa che
capitava a chiunque prima o poi. L’importante era non pensarci, e il
giorno dopo sarebbe tornato tutto come prima.
Sicuro.
Matematico.
4
Non dormii per quattro notti di fila. Ogni tanto mi assopivo, ma
durava poco. Subito dopo mi svegliavo di scatto e controllavo se avessi
almeno un’erezione notturna. Macché, niente. Il pene giaceva inerte
nelle mutande. Di notte di solito avevo un’erezione continua, se
dovevo andare in bagno era un problema centrare il water, o almeno
così mi sembrava di ricordare. Adesso quel coso era ridotto a una flac-
cida, inutile appendice vestigiale.
5
Andai a trovare Marta al lavoro, in un’agenzia finanziaria. Dovevo
avere un aspetto orrendo perché quando mi vide disse: «ohi, Santo,
tutto bene?»
«Perché?»
Marta accese una sigaretta. «Senti, sarò sincera. Non è bello essere la
prima volta di qualcuno, soprattutto in quel senso. Ma se vuoi fare una
prova del nove, chiamiamola così, e toglierti il pensiero, io sono
disponibile.»
«Merda.»
*
185/269
Organizzai la cosa per qualche giorno dopo. Marta arrivò di nuovo in-
torno alle nove, con i tacchi e tutto. Facemmo i disinvolti, come se non
sapessimo perché ci trovavamo lì. Chiacchierammo del più e del meno.
Mangiammo qualcosa di leggero, ma di bere non se ne parlava. Presi
solo dell’acqua.
Alla fine raggiunsi l’orgasmo, ma era chiaro che qualcosa non andava.
«Tutto a posto?» dissi con voce rotta. «Ma se appena mi muovevo era
la fine.» Mi veniva da piangere. Una parola cominciò ad affacciarmisi
in mente a intervalli regolari. Era questo che voleva dire essere impot-
ente? Potevo dire addio al sesso? Ero già così vecchio?
«Senti, è andato tutto bene. Sei venuto, beato te. Meglio di questo che
vuoi?»
6
A casa non avevo il frigorifero, figuriamoci internet. Così quando ero
di turno in libreria passavo il tempo a cercare di capire che cosa mi
stesse succedendo. Sbrigavo al volo i clienti e caricavo i nuovi libri il
più velocemente possibile, poi tornavo al computer e cercavo “impot-
enza + cause”, “non mi si alza più” e via dicendo.
Internet era piena di gente che non aveva un’erezione da anni. Gente
che non ne aveva mai avuta una. Gente che le erezioni ce le aveva, ma
sparivano appena provava a penetrare la partner.
La mia vita era finita. Ne avevo avuta una, in passato; una vita in cui
un’erezione era data per scontata e avveniva il cento per cento delle
volte in presenza di una ragazza. Ma adesso era finita. Era cominciata
la mia seconda vita. Quella in cui un’erezione è l’eccezione alla regola,
un evento raro quanto l’avvistamento di un animale in via
d'estinzione.
«Il pene.»
188/269
«Purtroppo sì.»
«È una parola.»
Ero talmente disperato che feci come disse. Non avevo niente da per-
dere, male non mi avrebbe fatto. Comprai la “Settimana enigmistica”
all’edicola della stazione. Poi andai a casa, mi sdraiai sul letto e la feci
tutta, anche i cruciverba più difficili. Ma non servì a molto. Ogni tanto
mi portavo una mano al pene e notavo che era flaccido, tanto per
cambiare.
7
Il mio medico era una bella donna sui quarantacinque anni. In sala
d’aspetto mi preparai il discorso da farle mentre sfogliavo una rivista
che trovai su un tavolino. Era piena di belle ragazze della TV in cos-
tume da bagno. Guardai quei corpi perfetti e abbronzati ma non mi
dicevano niente, probabilmente perché pensavo che arrivato al
dunque non avrei potuto farci granché. O forse era il contrario: non ci
avrei fatto un granché perché non mi dicevano niente?
«È stato precoce.»
«Mi lasci finire. Il fatto è che non è successo niente, se capisce cosa
intendo.»
Lei si appoggiò allo schienale della poltrona con uno strano sorriso
beffardo stampato in faccia. Era ancora una bella donna, e all’improv-
viso mi venne il dubbio che forse avrebbe risolto la cosa come fanno
nei film porno. Si sarebbe spogliata, mi avrebbe spinto sul lettino e
avrebbe dimostrato al mondo intero (o almeno a me) che stavo benis-
simo. Perché nella vita reale queste cose non succedono mai?
«Non legga quello che ho scritto come sospetta diagnosi. Bisogna pur
metterci qualcosa.»
8
Prenotai la visita dall’andrologo e il giorno stabilito mi presentai alla
mutua. Ero in anticipo di un quarto d’ora, così ammazzai il tempo fa-
cendo due volte il giro dell’edificio a piedi e ripetendo a mente quello
che avrei detto al medico. Non volevo tralasciare nulla. Non volevo che
191/269
Anzi, no, la colpa è della libreria. Per fare i pacchi regalo usiamo un
macchinario che taglia la carta plastificata, e ogni volta da quell’affare
si alza un filo di fumo puzzolente e sicuramente tossico. Qualche
polimero velenoso. Su internet avevo letto che l’esposizione ad agenti
inquinanti può provocare impotenza.
9
«Santo D’Amico?» disse l’infermiere.
«Sono io.»
«Prego.»
«Oh.»
Gli spiegai nel modo più chiaro possibile quello che era successo. Non
tralasciai nessun particolare, neanche i più imbarazzanti. Lui annuiva
nei punti giusti, oppure prendeva un appunto, e qualche volta mi
faceva delle domande. Usava sempre la prima persona plurale.
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«Esatto» dissi. Non mi era mai capitato di parlare di certe cose con un
adulto.
«Ho capito.»
«Sindrome da spettatore?»
«Perché?»
Quando ero già sulla porta il dottore disse: «ah, D’Amico, un’altra
cosa. Per ora evitiamo di avere rapporti sessuali, d’accordo? Nuove de-
lusioni non farebbero altro che peggiorare la situazione.»
10
Al laboratorio analisi doveva esserci stato un cambio di gestione, per-
ché spuntò fuori che lì dentro erano tutte donne. Parlai nell’ordine con
una segretaria, un paio di infermiere e una dottoressa. Fu lei a farmi il
prelievo. Mi chiese se ero a digiuno, poi mi disse di sedermi e di soll-
evare la manica della felpa. Mentre prelevava il sangue non riuscii a
guardarla in faccia. Anche lei era molto bella. Il mondo era pieno di
belle donne, e io potevo solo parlarci o farmi prelevare il sangue. In
quei giorni, in libreria pensai a chi, in letteratura, era successo quello
che stava succedendo a me. C’era il protagonista di Fiesta, il romanzo
di Hemingway, anche lui impotente. C’erano Arturo Bandini e il suo
“desiderio senza passione” in Chiedi alla polvere. E c’era Kafka, che
con Milena aveva fatto cilecca almeno una volta, come si capiva dalle
loro lettere. Se non altro ero in buona compagnia.
195/269
11
Paziente n. 191 del 17/01/11
Sesso: M
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Gli ormoni erano a posto.
«Bene, bene» disse. «Mi sembra che possiamo escludere i fattori or-
ganici. Il nostro è un classico caso di natura psicogena.»
«Una al giorno?»
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13
E così eccomi, a poco più di trent’anni, ad avere già a che fare con le
pillole per farlo rizzare.
Quando Marta suonò il citofono presi una pillola e la mandai giù con
un bicchiere d’acqua. Poi andai ad aprire.
«I mobili servono solo a chi ha così tanta roba che non sa dove
metterla.»
«Da un po’.»
«Sì, perché?»
«Ssst, fai piano però» dissi, preoccupato per i figli dei cinesi che
abitavano sopra di me.
«Visto? Che ti avevo detto? Capita a tutti una volta nella vita.»
14
Chiamai l’andrologo e gli raccontai com’era andata.
201/269
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Per andare in Spagna da Lise chiesi a Flavio il fine settimana libero.
«E allora?»
Era la prima volta che affrontavo con lui il problema delle ferie non
pagate. Era uno dei vantaggi dei casini che stavo affrontando col sesso:
non m’importava quasi più di niente, anche perché non avevo niente
da perdere.
«E questo che cosa vorrebbe dire?» chiese Flavio riducendo gli occhi a
due fessure.
16
Il venerdì mattina feci al volo la valigia, mi assicurai una decina di
volte che ci avessi infilato dentro le pillole e andai alla stazione degli
autobus.
«Sì, perché?»
Ciao Santo,
A presto,
Lise.
Era più in carne rispetto all’ultima volta che l’avevo vista. I capelli
biondi, che anni prima le arrivavano alle spalle, adesso le coprivano
metà schiena. Sembrava perfino più alta di quanto ricordassi. Ed era
sempre bellissima. Mentre la vedevo avvicinarsi non potei fare a meno
di chiedermi che ci facesse uno come me con una ragazza così bella.
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Sull’autobus che avrebbe dovuto portarci in centro, Lise tirò fuori una
cartina e cercò di capire dove avremmo dovuto scendere. Quando in-
dicò un punto della mappa mi accorsi che le tremava la mano. Pover-
ina, doveva essere più nervosa di me. Questo un po’ mi tranquillizzò.
17
Alle otto e mezza andai a prendere Lise. Lei scese, fresca come una
rosa, e insieme andammo in cerca di un posto dove cenare. Ce l’avevo
ancora un po’ con lei per la faccenda delle camere separate e del suo
bisogno di spazio, ma mi sembrava comunque incredibile che cam-
minassimo uno accanto all’altra, di sera, in Spagna.
«Oh, no, non lo dico per quello. Figurati, è acqua passata ormai. Però
in un certo senso è stato bello. Era la prima volta che parlavo con mia
madre di certe cose.»
«Sì, be’, mi vedeva girare per casa con quella faccia da funerale. Ho
dovuto dirle qual era il problema.»
«La verità: che la ragazza con cui mi vedevo in Olanda non ne voleva
più sapere di me.»
«E lei?»
«No, perché?»
«È assurdo» dissi. «Pensavo che non ti avrei rivista mai più, e invece
eccoci qua di nuovo insieme.»
«No, no, hai bisogno dei tuoi spazi eccetera» farfugliai e tornai al mio
albergo.
Fuori faceva molto freddo. Pensavo che la Spagna fosse calda come la
Sicilia, non mi ero portato vestiti pesanti. Tremai come un ossesso per
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18
I successivi due giorni passarono in fretta. Ce ne andammo in giro per
Madrid parlando e ridendo di qualunque cosa.
«Un po’.»
«E cos’è successo?»
«È finita.»
«No, no. Io ero innamorata. Ma lui ha detto che non era pronto per
una storia importante e bla bla bla. Lo sai come vanno queste cose.»
«Oooh, Santo!»
quattro anni prima, quando non riuscivo a fare un metro senza sentire
il bisogno di pomiciare un po’.
«Bene.»
Si mise a ridere.
«Cosa?» dissi.
«Certo.»
La sera dopo decisi di non prendere la pillola. Avevo il dubbio che as-
sumerla tre giorni di fila non fosse una buona idea. Con Lise andammo
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Non le risposi.
19
Ricominciai a chiamare Marta a scopo terapeutico. Ci vedemmo un al-
tro paio di volte. La terza volta che le telefonai mi disse che non
poteva.
Presi a chiedermi che cosa sarebbe successo alla fine della terapia. I
due mesi stavano finendo ma io mi sentivo sessualmente inutile come
prima.
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Decisi di andare da un consulente del lavoro e chiarire una volta per
tutte come funzionava con le ferie e le malattie. Un ragazzo che cono-
scevo mi consigliò quello di un sindacato che c’era vicino a casa mia.
Entrai nella sede e dissi a un tizio: «mi scusi, volevo parlare con il con-
sulente del lavoro.»
Mi alzai in piedi.
«Ecco, volevo solo sapere se è vero che non mi spetta niente di tutto
questo perché lavoro part-time.»
«È il mio contratto.»
«Fammi vedere.»
21
Cominciai ad andare al lavoro giurando a me stesso che alla fine della
giornata mi sarei licenziato. Avrei scritto una lettera di dimissioni e
l’avrei lasciata sul bancone in modo che Flavio il giorno dopo l’avesse
trovata. Ma alla fine della giornata di solito ero troppo stanco per
scrivere una lettera di dimissioni. Allora decidevo che da un giorno
all’altro avrei ripetuto a Flavio quello che mi aveva detto la consulente
del lavoro. Magari senza strillare come aveva fatto lei. Da persona
civile a persona civile. Ci saremmo messi a quattr’occhi e gli avrei
detto come stavano le cose. Domani, dopodomani al massimo lo fac-
cio. Entro l’estate, via.
22
Allo scadere dei due mesi chiamai l’andrologo.
«La chiamo perché oggi scadevano i due mesi della terapia. Ora dovrei
interrompere l’assunzione della pillola, giusto?» In realtà non ne pren-
devo una da settimane, dall’ultima volta cioè che ero stato con Marta,
ma non glielo dissi.
«Così così.»
«Perché?»
«Ho paura che se andassi a letto con una ragazza non succederebbe un
granché. In teoria dovrebbe succedere, ma ormai non sono sicuro di
niente. Scusa se ne parlo con te.»
«Sì?»
«Stavo pensando... Se proprio devi fare una prova, forse è il caso che la
fai con qualcuno che conosci, qualcuno di cui ti fidi.»
«Tu dici?»
«Sì.»
«Quindi» disse Paola, «se vuoi... Ecco, io sarei disponibile a fare una
prova con te in quel senso. Prendiamolo come un esperimento scienti-
fico. Senza strascichi.»
Eccone un’altra che voleva fare gli esperimenti scientifici con me.
Cominciavo a sentirmi una cavia. Forse, pensai, anche Flavio mi stava
usando per un esperimento sociologico: Quanto può resistere una
persona a lavorare a condizioni da galera senza ribellarsi?
«Infatti.»
«Buonanotte» dissi.
Per sicurezza poggiai una mano sul cavallo. Poi restai un paio di
secondi a pensare: sono guarito! Evvai, sono guarito!
Qualcuno gli aveva detto che su certi siti internet si rimorchia a qua-
lunque età, e così dall’oggi al domani il signor Micciulla, che era
divorziato, prese a spendere la pensione in libreria per cercare di at-
traccare una donna.
«Niente.»
toccava fare il giro del bancone, dargli una mano, e poi tornare dietro
la cassa. Una bella ginnastica.
«Santo?»
«Seee.»
«Potresti venire a darmi una mano?» diceva anche se alla cassa c’era
la fila.
Quelle che lui chiamava “ragazze” erano delle vecchie con i capelli
tinti, vestite come ragazzine e in pose da pin-up. Di solito scriveva a
tutte delle poesie. Non erano male, ma troppo pompose per i miei
gusti.
«Senta» mi disse quella, «torno un’altra volta, s’è fatto tardi. Ar-
rivederci.» E scappò via guardandosi alle spalle.
«Secondo lei?»
«Su “invia”.»
2
Se c’era una cosa che Flavio non sopportava di me era che, al contrario
di tutti i commessi degli altri negozi del centro, io non volevo mai la-
vorare più del solito. Mi stava benissimo farmi le mie tredici ore setti-
manali. Anche perché da Flavio lo straordinario era sottopagato.
«Santo, si può sapere come fai a vivere con quello stipendio strimin-
zito?» chiedeva mia madre.
«Guardati, hai gli stessi quattro vestiti da anni. Come fai con le
ragazze?»
«Ci frequentiamo invece» dissi. Ed era vero. Con Paola eravamo ri-
masti amici e ci vedevamo. E ogni tanto, con la scusa di controllare se
ero veramente, veramente guarito, finivamo a letto insieme. Ogni volta
spuntava fuori che stavo benissimo.
In libreria un giorno Flavio passò con una signora. Era la prima volta
che la vedevo.
La madre di Flavio era una di quelle donne sulla settantina che si ve-
stono e si conciano i capelli come ragazzine. Chissà, magari al signor
Micciulla sarebbe piaciuta. Flavio mi aveva detto che abitava dalle
parti di Milano e per questo motivo si vedevano raramente.
«Ti ho parlato di Santo, mamma. Ricordi? È quello che non vuole mai
lavorare, e si lamenta quando parto e deve fare un po’ di
straordinario.»
Ressi quello sguardo per un po’, poi dissi: «senta signora, la smetta di
guardarmi in quel modo. Neanche lei sarebbe felice di fare dello
straordinario se glielo pagassero meno del minimo sindacale e non
avesse né ferie né malattie pagate.»
Dopo un po’ Flavio disse solo: «ci vediamo, Santo.» Sua madre pareva
volesse sputarmi in un occhio. Non mi salutò nemmeno.
3
Poi in libreria cominciò a venirmi a trovare una ragazza che conoscevo
da anni. Il suo nome era Sara Michela, ma si faceva chiamare da tutti
Sami. Aveva i capelli scuri, la pelle del viso liscia, e due grandi occhi
verdi che facevano innamorare i ragazzi a prima vista. Qualche anno
prima anch’io le avevo confessato di avere una cotta per lei subito
dopo esserci andato a letto. Ma Sami mi aveva liquidato dicendo: «mi
dispiace per te», ed era tornata a Milano, dove studiava. Ci ero stato
male per qualche giorno ma poi me l’ero tolta dalla testa. Adesso si era
laureata ed era tornata a stare a Siracusa.
«Ciao Santo» sentii dire alle mie spalle un giorno mentre sistemavo al-
cuni libri sugli scaffali.
«Ciao Mazzu.» Che razza di nome era? Mi piegai sulle ginocchia per
accarezzarlo.
«No, non farlo!» disse Sami. Ma era troppo tardi. Mazzu cominciò a
girare in tondo, abbaiando, scodinzolando e sbavando come se fosse
stato sotto anfetamina. «Adesso ci vorrà un quarto d’ora prima che si
calmi.»
Col cane che la strattonava a destra e a sinistra Sami disse che era tor-
nata a vivere a Siracusa, abitava da sola e lavorava con la sua famiglia,
che aveva una ditta di vendita all’ingrosso di frutti di mare. Io la
ascoltavo facendo di sì con la testa, e intanto me la facevo sotto dalla
paura. Perché Sami era una ragazza pericolosa. Conoscevo almeno al-
tri tre ragazzi che c’erano rimasti sotto. Aveva qualcosa, una specie di
aura che ti faceva sentire speciale anche solo a parlare con lei. Era il
tipo di ragazza che fa diventare matti i ragazzi nel vero senso della
parola.
«Ok.»
«Bello.»
4
Sami non m’invitò a casa sua, ma tornò altre volte in libreria con
Mazzu. Arrivava un’ora prima dell’orario di chiusura e si fermava a
fare quattro chiacchiere.
«Per me va bene.»
«Perfetto, Sami.»
5
Miracolo, finalmente una sera mi telefonò e mi chiese se volevo andare
a casa sua con la chitarra.
«Certo che voglio venire» dissi. Mi feci una doccia e mi lavai i denti.
Poi scelsi i vestiti migliori per andarci. Non era facile perché non avevo
un vero e proprio armadio. Più che altro lasciavo i vestiti ammassati su
una sedia, a sgualcirsi e a prendere polvere.
«Come va?» disse. Era vestita con una vecchia tuta e aveva i capelli
legati ma a me piaceva lo stesso.
Casa sua somigliava a casa mia. C’erano pochi mobili, e le stanze, che
per giunta avevano i tetti altissimi, sembravano troppo vuote e desol-
ate. Una era verniciata di un arancione fosforescente che faceva venire
il mal di testa solo a guardarlo. Nel soggiorno c’erano due divani e una
poltrona, ma erano coperti di cianfrusaglie.
«Eccolo» disse Sami aprendo una porta. Il jack russell slittò sul pavi-
mento e mi corse incontro. Mi morse i jeans e cominciò a tirare come
se avesse voluto strapparmeli di dosso.
«A chi lo dici.»
Dopo un po’ tirai fuori la chitarra dalla custodia, lei prese la sua e in-
sieme cominciammo a suonare qualcosa dei Velvet Underground,
delle Violent Femmes, dei Pixies e di altri gruppi. Mi sentivo un po’
ridicolo ma stetti al gioco. Era bellissimo trovarsi da soli nella stessa
stanza con Sami. Tuttavia sapevo che quella sera non sarebbe successo
niente. Non era nell’aria. In più io mi sentivo ancora fuori forma e
psicologicamente insicuro, dopo i due mesi di sospetta disfunzione
erettile.
«Perché? Che hai combinato? Ahia!» Non era facile fare conversazione
con Mazzu che nel frattempo mi mordeva i jeans (e le caviglie) e tirava.
«Ma scusa, tu non avevi voglia di vederlo? Visto che vi vedevate così
poco.»
«Sì, ma certe volte voglio stare da sola, capisci? E non ci vedevo niente
di male a vedermi solo due volte al mese con lui. Mazzu!»
Il cane mi aveva agguantato la felpa da dietro. Tirò più forte del solito
e la strappò.
«Tranquilla, non fa niente.» Delle tre felpe che possedevo era la mia
preferita.
6
Nel frattempo corrispondevo con una studentessa di Palermo. Si
chiamava Maria Luisa. Non ricordo chi le avesse dato il mio indirizzo
email. Mi scrisse un paio di lettere in cui diceva che le piaceva l’idea
che lavorassi in una libreria, e che secondo lei dovevo essere un bel
tipo.
Le chiesi di mandarmi delle foto e lei lo fece. Aveva un bel viso e non
sembrava troppo in carne, ma dalle foto non si poteva mai dire. In
una, alle spalle di Maria Luisa si vedeva una collezione di videocas-
sette della Disney che mi depressero. Non so perché, ma pensai spesso
a quelle videocassette. Voglio dire, chi lo usava ancora un
videoregistratore?
Lei rispose soltanto due giorni dopo. Me la immaginai presa dal pan-
ico al pensiero d’incontrare uno sconosciuto. In più, anche se non lo
avevo specificato, si capiva che avrei dormito a casa sua. Scrisse che
per lei andava bene. Per dormire ci saremmo arrangiati in qualche
modo.
«Ciao Santo!» disse lei. Aveva un bel sorriso caloroso. Era anche più
alta di quanto pensassi.
«Benissimo».
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Maria Luisa mi raccontò la storia della sua vita. Non smise un solo
istante di parlare. Credo perché fosse nervosa, comunque meglio così,
a me andava di stare in silenzio.
«È fortissima!»
«Be’, è liscia.»
Chiamò il cameriere.
«Certo.»
«Ciao Sami.»
Più tardi andammo a casa di Maria Luisa. Non sapevo ancora come
avremmo risolto la faccenda di dormire per la notte. Chiacchierai un
po’ con due delle coinquiline, le specializzande in chirurgia. Erano en-
trambe in cucina a fumare sigarette su sigarette. Alla faccia delle
chirurghe, pensai. Da come si atteggiavano era evidente che si sen-
tivano superiori a Maria Luisa e questo me le fece odiare. Era un po’
come se si sentissero superiori anche a me. Sapevo che mi stavano stu-
diando e che l’indomani avrebbero parlato di me con Maria Luisa, e al-
lora cercai di sembrare il più normale possibile. Che lavorassi in una
libreria sembrava a entrambe la cosa più bella del mondo. Contente
loro.
«Forse sì.»
«No, perché?»
«Fai sentire» disse, e mi prese una mano come a controllare che fosse
calda, solo che poi continuò ad accarezzarla guardandomi negli occhi.
«Ok.»
«Non credo» disse lei. «A un certo punto ti avrei detto “grazie per es-
sere venuto a trovarmi” e sarei tornata a casa da sola.»
Il giorno dopo presi l’autobus delle due del pomeriggio. Ero indeciso
se baciare Maria Luisa sulle labbra o meno, al momento del saluto.
Alla fine decisi di sì. Mi sporsi e le diedi un bacio leggero.
7
Uscii con Sami.
«Bene.»
«Forse.»
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«Allora c’è!»
«Davvero?»
«Va bene.»
«No, non mi va» disse lei. «Sono stanca, facciamo un’altra volta.»
«Sai cosa dovremmo fare una sera di queste?» disse lei. «Dovremmo
sbronzarci insieme.»
«Ok.»
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«Seee.»
«A-ha.» Sebastiano era un tizio che le avevo visto alle calcagna un paio
di volte. Si dava delle arie da fotografo solo perché aveva una macch-
ina fotografica costosa. Aveva lunghi capelli ricci sulle spalle, mentre
quelli di sopra erano corti e radi. Avevo pensato fosse innocuo. Voglio
dire, li avrà visti anche Sami quei capelli. In più aveva un pessimo
modo di esprimersi. Ogni due o tre parole infilava sempre un “capito?”
anche se non c’era niente da capire. L’unica volta che ci avevo parlato
avevo rimediato una ventina di “capito?” in due frasi.
«Fra te e Sebastiano?»
238/269
«Di sesso.»
«Be’, ecco. Tutte le volte che a casa mia abbiamo provato a farlo, lui...»
«Sì, perché?»
«No.»
«No, cosa.»
«Come no.»
8
Era di nuovo estate. L’ennesima estate da apprendista libraio. Mir-
acolo, il signor Micciulla, il professore e gli altri pazzi mi stavano
dando un po’ di tregua. Flavio non andava mai al mare. Quando aveva
un giorno libero restava a casa e passava il tempo telefonando in
libreria.
«Sono Flavio.»
«Ciao.»
«Tutto a posto.»
«Abbastanza.»
«Ok.»
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Visto che non c’era nessuno andai in bagno a lavarmi le mani. Quando
tornai, vidi che erano entrati due ragazzi. Fra tutti i libri che avevamo,
stavano frugando proprio fra gli opuscoli d’arte. Facevano come al
solito: ne prendevano uno che cominciava per “A”, lo sfogliavano, e poi
lo ficcavano in mezzo alle “L”. Sembrava lo facessero apposta. In dieci
minuti li misero di nuovo tutti sottosopra.
Sistemò tutti i libri che secondo lui erano fuori posto (cioè sporgevano
di mezzo centimetro dallo scaffale), e poi, fingendo di pensare ad altro,
andò a dare un’occhiata agli opuscoli d’arte.
«Li avevo messi in ordine» dissi. «Solo che poi due ragazzi...»
«Scuse, sempre scuse. E non dirmi che non hai avuto tempo perché in
giro non c’è nessuno.»
Che ci facevo ancora là dentro? mi chiesi quasi ad alta voce. Vidi Fla-
vio rimettere a posto gli opuscoli d’arte, e intanto immaginai il giorno
in cui mi sarei licenziato. Da un po’ di tempo il pensiero delle dimis-
sioni era l’unico a darmi speranza. Fino a quando sapevo che me ne
sarei potuto andare, le cose sarebbero state sopportabili. Mi vedevo
uscire da quello stanzone per l’ultima volta, sollevato. Poi sarebbero
venuti tempi difficili, lo sapevo – non avrei mai trovato un altro lavoro
di dodici ore alla settimana – ma al pensiero di essermi lasciato alle
spalle i clienti e Flavio, mi sentivo rinascere. Finalmente sarei tornato
a non preoccuparmi e forse, chissà, sarei riuscito a conquistare Sami.
La settimana prima di Natale avrei trascorso i pomeriggi seduto sul
marciapiede di fronte alla libreria, e da lì avrei visto il caos che di-
ventava il negozio in quei giorni. Non avrei avuto un centesimo in
tasca, ma sarei stato felice. Felice e libero.
9
Una sera che eravamo usciti insieme riaccompagnai Sami a casa.
«Ok.»
Sami prese del vino che aveva aperto tipo due mesi prima e lo versò in
un paio di bicchieri. Poi tirò fuori la chitarra e cominciò a suonare e a
cantare. Ogni tanto si fermava, scuoteva la testa e diceva: «stronzo.»
Non so a chi si riferisse.
«Promesso.»
Lei sbadigliò.
«Sì, invece.»
10
Qualche giorno dopo Sami passò a prendermi con la macchina carica
di cibo e bevande per andare a casa di un paio di amici suoi che
abitavano in campagna. Era il suo compleanno, così le feci gli auguri e
le diedi un fagotto.
«Cos’è?»
«Un regalo.»
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Lo aprì. «Una radio! Grazie!» Non sapevo che farmene e così avevo
pensato di darla a lei. Mi aveva detto che le mancava avere una radio a
casa. In più in quel modo non avevo dovuto comprarle un regalo vero,
quindi mi era andata di lusso.
Quel giorno Sami era ancora più carina del solito. Un fermaglio le
teneva scostati i capelli da una parte del viso. Intorno agli occhi si era
truccata più del solito, notai soprattutto un ombretto fucsia sulle
palpebre che s’intonava con le calze viola, ma cercai di non farci caso.
«No, quando li abbiamo visti avevano già fatto il... il nodo, capite? E
una volta fatto il nodo è impossibile separarli.»
«Chissà se anche agli uomini può succedere una cosa del genere?»
dissi.
«Certo. La sapete quella storia, no?» disse Alessio. «Della sposa che il
giorno delle nozze ha tradito il marito col cognato? Lui gliel’ha messo
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nel... nel sedere, e poi non riuscivano più a separarsi. Hanno dovuto
chiamare l’ambulanza.»
«È vero. Io li adoro.»
Arrivati a casa mia dissi: «senti, perché non entri un secondo? Così fi-
nalmente ti faccio vedere dove abito. Dài, ti offro un goccio di vodka.»
Ci siamo, pensai.
Era tardi, le tre di notte, forse. Dentro casa lei si guardò intorno.
C’erano più mobili rispetto a quando mi ero trasferito, ma agli occhi di
un’ospite dovevano sembrare comunque pochi.
Sami prese un pezzo di carta e una matita e fece uno schizzo della
serata. Un fuoco, una chitarra, noi quattro, i cuccioli di cane. Me lo
mostrò. Sembrava lo avesse fatto un bambino di un anno.
«Bello» dissi.
Le andai dietro.
«Perché?»
Restai con la fronte poggiata alla porta per un po’, poi andai ad accas-
ciarmi sul divano. Quella casa non mi era mai sembrata così vuota.
Presi il pezzo di carta su cui Sami aveva fatto lo schizzo e restai a
guardarlo per non so quanto tempo. Poi andai a letto con i vestiti ad-
dosso, e il pezzo di carta in mano.
11
Pensavo che Sami non si sarebbe fatta sentire per un pezzo, e invece
mi chiamò il giorno dopo. Era sera. Avevo appena chiuso la libreria e
me ne stavo in giro senza fare niente. Era il primo giorno d’estate,
sembrava non dovesse mai fare buio. Stavo un po’ male per la sbronza
del giorno prima e per come erano andate le cose con Sami. In libreria,
poi, era stato il classico giorno in cui restavo a corto di monetine e
dare il resto ai clienti diventava un problema. In quei casi era tutto un
«ha un euro?» «ha cinque euro?» «ha cinquanta centesimi?» Quel
giorno avevo risolto la questione arrotondando i prezzi per difetto e
amen.
«Niente.»
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«No, no, no» disse lei. «Andiamo prima che comincia il concerto. An-
diamoci fra un quarto d’ora.»
«Tu dici?»
«Certo.»
Lei ci pensò su per qualche secondo. «Mmmh, no, dài. Magari vuole
essere lasciato in pace.»
Riprendemmo a chiacchierare del più e del meno, con Sami che ogni
tanto si voltava a guardava Peppe di Canicattì.
Finii l’acqua tonica. Era bella fresca, ci voleva. Ero abituato a bere, ma
quando esageravo o mischiavo o provavo forti emozioni, il giorno dopo
stavo male fino a sera.
«Eccoci qua» disse Sami. Mi voltai. Si era portata dietro Peppe di Can-
icattì. «Questo è Santo. Santo, Peppe.»
Peppe di Canicattì aveva una barbetta incolta e una faccia che ricor-
dava un incrocio fra un cavallo e un ratto. Stava fumando una sigaretta
fatta a mano.
«Gerto.»
«Gerto.»
Sami gli fece sentire quelle due o tre canzoni che aveva scritto.
Avevano il testo in inglese e non erano malaccio. Forse appena troppo
scontate, ma potevano andare.
Sami passò a suonare le cover che a suo tempo aveva provato anche
con me, Velvet Underground e via dicendo.
Lei gli disse: «qualche volta vuoi venire al mare con me, a suonare?»
«Si può fare» disse Peppe. Prese una lunga boccata dalla sigaretta, e
mentre esalava il fumo mi guardò con la coda dell’occhio.
«No, perché?»
«Seee.»
Dopo un po’, quando capii che il concerto stava per finire, dissi: «senti,
Sami, mi sa che me ne vado.»
«Te ne vai?»
«Sì, sono stanco. In più mi gira ancora la testa per ieri sera.»
«Muoio di sonno.»
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I giorni seguenti me ne stetti in libreria in attesa che suonasse il tele-
fono. Il giorno dopo il concerto Sami mi aveva scritto:
Peccato che sei andato via. Il concerto è stato carino! Io sono andata
a dormire circa un’ora dopo di te...
Quella era l’ultima volta che l’avevo sentita. Sapevo che in un’ora era
potuto succedere di tutto, ma cercai di non pensarci.
Un giorno le scrissi:
Risposta:
Di solito dopo due birre la sera mi dicevo che forse era meglio così.
Sami era una ragazza come tante che stavo semplicemente
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Alla terza birra mi prendeva una strana euforia al pensiero che dopo-
tutto ero stato fortunato; qualche altro scalognato avrebbe dovuto ge-
stire Sami. In bocca al lupo.
«Si può sapere che fine hai fatto? Quand’è che vieni a cena da noi?»
13
«Stai di nuovo male per una ragazza?» mi chiese mia madre.
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Quella sera uscii a bere qualcosa con certi amici miei che vivevano al
Nord e che tornavano giusto in estate e per le feste comandate. Con
loro c’era un ragazzo che non conoscevo, uno di Pisa.
«Ah, bellissimo.»
«Seee.»
«Questo è il quinto.»
Feci finta di pensarci su. «Niente» dissi. «Per ora sono contento così,
poi si vedrà.»
In quel momento alzai gli occhi e me la vidi davanti. Era con Sebasti-
ano. Quando mi vide, Sami sorrise e si avvicinò. Io le andai incontro.
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«Si può sapere che fine hai fatto?» disse dandomi una pacca sulla
pancia.
«Va bene.»
14
Il giorno dopo ero al settimo cielo. Feci colazione, poi scrissi a Sami:
Si va in spiaggia allora?
Lei ci mise una vita a rispondere. Alla fine, un’ora dopo, mi chiamò.
Addio Sami.
Capitolo settimo
1
Chiamai Flavio e dissi: «con quanti giorni di anticipo devo farti sapere
se mi licenzio?»
«Cooosa?»
Sì, c’era.
«Guarda che non è vero che ti spettano le ferie pagate. Chi te l’ha
detto?»
«E allora?» disse lui. «Ti sei sempre preso tutte le ferie che volevi, mi
sembra. O no?»
Risi. «Ascolta, questa non è mica un’asta. Non stiamo facendo a chi of-
fre di più. Voglio tutto quello che è previsto dal contratto. Niente di
meno. Se per legge mi spettano cinquanta ore di ferie, ne voglio cin-
quanta. Idem per tutto il resto.»
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«Lo sai quanto guadagnano gli altri commessi del corso? Lo sai che
prendono un quarto di quello che prendi tu? Molti non sono nemmeno
assunti.»
«Non mi...»
«Non mi...»
«Ascolta, Flavio» dissi. Ero sereno, anche perché non avevo niente da
perdere. Al massimo mi avrebbe licenziato, e allora? Non era quello
che speravo? Cinque anni da commesso di libreria bastavano e avanza-
vano, dopotutto. «Le cose stanno così. Se non sei d’accordo, sono
sicuro che Siracusa è piena di gente felice di prendere il mio posto.»
Flavio si passò una mano sui capelli e controllò l’ora. Mancavano dieci
minuti all’apertura. Davanti alla porta uno dei soliti lavativi
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controllava, con le mani a coppa sul vetro, che dentro ci fosse qual-
cuno. Nonostante fosse tutto buio provò perfino a girare la maniglia. Il
pensiero che mi stessi liberando di gente del genere mi diede nuova
energia.
«Prenditi del tempo per pensarci, ok?» dissi. «Non devi darmi una ris-
posta oggi.»
Ci siamo, pensai. Ora mi dice che non gli serve tempo e mi butta fuori
a calci in culo. Che cosa avrei fatto dopo? Non aveva importanza,
dovevo solo tirarmi fuori da lì. Quel lavoro mi stava riducendo a una
larva umana. Il problema era che non sapevo fare niente, probabil-
mente avrei finito col lavorare come commesso da qualche altra parte
dove avrei faticato sul serio. La libreria al confronto sarebbe sembrata
una passeggiata. E se stessi facendo una stupidaggine? pensai. E se
avessi davvero dovuto ringraziare Flavio per quel posto che, par-
agonato a molti altri, non si poteva nemmeno chiamarlo lavoro? Per-
ché cercavo sempre grane? Nel lavoro, con le ragazze, con le altre
persone?
«Va bene, fammici pensare» disse Flavio, e prima che riuscissi a rib-
attere qualunque cosa mi accompagnò alla porta.
2
Qualche giorno dopo ero da solo in libreria, in attesa che Flavio pas-
sasse per darmi una risposta. Ero sicuro di sapere quale sarebbe stata.
Un commesso part-time con le ferie e le malattie pagate non si era mai
sentito a Siracusa. Flavio non poteva creare un precedente.
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«Non ti licenzia» aveva detto mio padre. «Non lo trova un altro come
te.»
«Eh?»
Non riuscivo a liberarmi di quel posto. Che cosa dovevo fare di più per
farmi cacciare via? Dargli fuoco? Ero prigioniero lì dentro da cinque
anni, e probabilmente ci sarei rimasto per altri cinque. Potevo quasi
vedere in che cosa mi sarei trasformato. Una specie di ameba. Uno di
quei commessi ossequiosi che accennano un inchino quando entra un
cliente. Anzi, avevo già cominciato a diventarlo. Ultimamente sor-
ridevo ai clienti. Il prossimo passo quale sarebbe stato, avere una
ragazza fissa? Sposarmi?
«Be’, oggi Flavio non c’è» dissi. «Cosa posso fare per te?»
«Va bene.»
Rimasto da solo, guardai gli scaffali illuminati dalle luci al neon. Notai
che nel reparto dei saggi politici ed economici un libro sporgeva
rispetto agli altri. Allora feci il giro del bancone e andai a rimetterlo a
posto, proprio come avrebbe fatto un bravo commesso di libreria.
Ringraziamenti
Grazie ad Annalisa che, nonostante lavori già in due case editrici, la
sera ha trovato il tempo di curare l'editing e le bozze di questo ro-
manzo. Qualsiasi difetto abbia il testo è da imputarsi a me, alla mia
cocciutaggine e alla mia pigrizia. E grazie a Claudia, naturalmente, per
il supporto morale e tecnico.
Info e condivisione
Sull'autore
Stefano Amato è nato e vive a Siracusa. Ha pubblicato diversi racconti
e romanzi, come Le sirene di Rotterdam (Transeuropa, 2009) e Do-
mani gli uccellini canteranno (Nulla die ed., 2011). Per maggiori info e
contatti: stefanoamato.com.
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