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Guido Guinizzelli.

Guido Guinizzelli nasce a Bologna tra il 1230 e il 1240 e, secondo i dati in nostro possesso, muore
a Monselice nel 1276. Sulla sua identità si hanno notizie scarse e discordanti: la più attendibile lo
identifica in un giudice o giurisperito, figlio di un’esponente della famiglia Ghisilieri, di simpatie
ghibelline, e di conseguenza profondamente inserito nella vicende politiche del suo tempo.
Infatti Guinizzelli sarebbe ricordato in atti notarili del 1266 come appartenente alla fazione
ghibellina dei Lambertazzi: secondo questa ricostruzione, l’affermazione a Bologna del potere
guelfo lo avrebbe portato all’esilio a Monselice, dove sarebbe morto due anni dopo.

Della sua opera ci sono rimasti ventitre componimenti - di cui cinque canzoni e quindici sonetti -
e due frammenti. Non è possibile delinearne una cronologia o un’evoluzione poetica interna,
infatti, benché siano identificabili una fase guittoniana e un’altra dalle tematiche prettamente
stilnovistiche, in entrambi i casi non si può giungere a una datazione precisa dei testi
guinizzelliani. La sua poesia, che mescola spunti innovativi ed elementi più tradizionali.

Nell’opera di Guinizzelli, le due differenti anime - quella stilnovistica e quella più guittoniana -
fanno del poeta un’importante figura “di passaggio” tra la produzione dei siculo-toscani e quelle
degli stilnovisti, che individueranno in lui, insieme con Guido Cavalcanti, un punto di riferimento
per l’elaborazione della nuova poetica d’amore. Guinizzelli stesso è consapevole della frattura
che lo separa da Guittone per le caratteristiche della sua poesia, ma non manca di rendergli
omaggio in un sonetto in cui si rivolge a lui con l’appellativo “Caro padre meo”; al tempo stesso,
da lui arriva uno dei “manifesti” programmatici dello Stilnovo.

Nella poesia di Guinizzelli ritroviamo così alcuni punti cardinali della poetica stilnovistica:

- la figura della donna, il cui sguardo e “saluto” causano l’improvviso innamoramento da parte
del poeta, che spesso si manifesta come un prodigio naturale (come in Io voglio del ver la mia
donna laudare) o come una vera e propria creatura celeste (quella che sarà poi la donna-angelo,
tramite per gli stilnovisti tra il mondo terreno e quello celeste).

- la stretta connessione tra la facoltà d’amare e il possesso di un cuore “gentile”, non per rango
sociale ma per intrinseche virtù naturali, contrapposte a quelle nature volgari incompatibili con i
sentimenti umani più elevati.

- la sensazione di annichilimento e distruzione interiore che prova l’uomo colpito dallo sguardo
femminile e privato di tutte le sue facoltà vitali (come, ad esempio, in Lo vostro bel saluto e ‘l
gentil sguardo).

- la presenza di alcuni topos, come il legame tra Amore e Morte.

- sul piano stilistico, una poesia più piana e dolce rispetto a quella aspra e dura della poesia
guittoniana, in accordo con la tematica lirico-amorosa dei suoi testi.

- la presenza, in riferimento alla figura femminile e all’esperienza dell’innamoramento, di stilemi


biblici, ovvero di prelievi sintattici e lessicali dal testo sacro per sottolineare la pregnanza del
tema amoroso.

- la presenza, più o meno fitta, di riflessioni di stampo aristotelico-averroistico, soprattutto


nell’opera di Cavalcanti.
Benché Guido Guinizzelli sia vissuto in periodo storico appena antecedente, la sua opera si
inserisce in pieno nel contesto dello Stilnovo del cui linguaggio poetico è, anzi, considerato padre
e precursone dallo stesso Dante Alighieri, che ne ribadisce il ruolo sia nella Divina Commedia, sia
nella Vita Nova.

Guido Cavalcant
Guido Cavalcanti nasce nel 1258 circa a Firenze in una famiglia guelfa molto potente. Di carattere
solitario, dedito alla ricerca poetica e allo studio, Guido Cavalcanti è tuttavia inserito nella vita
politica della sua città, al punto da venir promesso a Beatrice, la figlia di Farinata degli Uberti, per
favorire la pacificazione tra Guelfi e Ghibellini. Successivamente viene esonerato dalle cariche
pubbliche. Cavalcanti partecipa in prima linea ai violenti scontri tra guelfi bianchi e neri, al punto
da rischiare di venire ucciso da Corso Donati, comandante dei Guelfi Neri, durante un
pellegrinaggio a Santiago. Nel 1300, durante il priorato di Dante, il livello degli scontri costringe
le autorità cittadine ad esiliare i capi delle due fazioni; Guido è mandato così a Sarzana, dove
probabilmente contrae la malaria. Richiamato a Firenze, Cavalcanti muore poco tempo dopo.

La sua opera poetica consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate,
trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza ciascuno.

Guido Cavalcanti, studioso, filosofo e poeta, è anche l’animatore riconosciuto e per certi aspetti il
fondatore del gruppo di poeti il cui movimento sarà poi riconosciuto come Stilnovo e che si pone
sull’onda di sviluppo della lirica d’amore che va dalla poesia provenzale alla scuola siciliana. Il
tema fondamentale della poesia è infatti una concezione d’amore che rielabora quella di
Guinizzelli, si pensi a testi quali, << Al cor gentil rempaira sempre amore>>, in direzione più
intellettuale e drammatica, con significativi punti di contatto con le inclinazioni filosofiche
dell’autore.

La poetica d’amore di Cavalcanti è innanzitutto pessimistica: Amore è una forza ostile che
coinvolge le facoltà umane e conduce inesorabilmente alla morte. Ad essere messe in luce sono
due situazioni tipiche: l’angoscia che colpisce l’innamorato e il suo annichilimento, cioè la perdita
di ogni facolta di reazione di fronte alla comparsa della donna. La poesia cavalcantiana si
concentra così, partendo dalla base filosofica dell’averroismo, sulle reazioni intime di chi è
colpito da Amore, che è inteso come un “accidente” (cioè qualcosa che fa parte di un oggetto
senza però costituirne l’essenza) determinato da influenze astrali che si sommano in maniera
nefasta alla rappresentazione interiore che l’uomo si fa della bellezza esteriore dell’amata.
Successivamente l’immagine accolta resta nell’intelletto possibile, ovvero quella sede della
nostra ragione che ospiterebbe la facoltà che ci permette di contemplare la verità al di fuori delle
passioni. L’amore quindi diventa ostacolo alla conoscenza e provoca turbamenti interiori che
culminano nell’oscuramento della ragione, da cui deriva l’impossibilità di dedicarsi all’attività
speculativa, e poi nella distruzione delle facoltà vitali dell’uomo.

Eppure, in opposizione a questa visione cupa e malinconica del sentimento amoroso, la poesia di
Cavalcanti presenta un altro aspetto di fondamentale importanza per il rapporto con lo
Stilnovismo, ovvero la lode della figura femminile. La positività dell’amore, che si contrappone
agli effetti drammatici della passione, si traduce allora in immagini e metafore che diventeranno
dei topoi per i poeti della cerchia stilnovistica: il paragone tra la bellezza dell’amata e il mondo
della Natura, il tema dell’apparizione della figura femminile nell’anima del poeta, l’affermazione
convenzionale di non poter lodare a sufficienza la creatura femminile. Se quindi Cavalcanti getta
le basi per la spiritualizzazione dell’amore degli stilnovisti, egli tuttavia non giunge mai a
teorizzare la donna-angelo (e quindi l’idea che la bellezza terrena sia tramite per la salvezza
ultraterrena, come nel caso di Beatrice nella Vita Nova). Anzi, come detto nella canzone
dottrinale Donna me prega, Amore allontana sempre l’uomo dal perfezionamento di sé.

La concezione cavalcantiana di Amore è strettamente correlata ai suoi interessi filosofici; il poeta


è infatti un esponente dell’averroismo, ovvero una forma radicale di aristotelismo all’interno
della Scolastica medievale che si rifà alle opere del filosofo arabo Averrè. Il conflitto che Amore
genera nel corpo e nella mente dell’uomo e che alla fine lascia il poeta privo delle proprie
funzioni vitali è ricollegata alla teoria degli spiriti o spiritelli, alla base della fisiologia medievale.
La teoria presuppone l’esistenza nel corpo umano di entità costituite di materia alquanto sottile
e responsabili, a diversi livelli, delle nostre facoltà vitali.

Su questa base scientifica, Cavalcanti elabora la propria metafora poetica, animando e mettendo
in scena le azioni e le reazioni degli spiritelli, e descrivendone la drammatica sconfitta di fronte
alla forza inarrestabile di Amore.

Dante Alighieri
Dante Alighieri nasce nel 1265 a Firenze. Il padre Alighiero, appartenente alla piccola nobiltà
guelfa, svolge attività commerciali e vive nel culto del progenitore Cacciaguida, cavaliere
imperiale morto nella Seconda Crociata (che verrà ricordato da Dante nel XV canto del Paradiso).
In età ancora infantile i genitori istituiscono per Dante un contratto di matrimonio con Gemma
Donati, che egli porterà a compimento all'età di vent'anni. Tra i suoi maestri: Brunetto Latini
(inserito da Dante nel XV canto dell'Inferno, dedicato al girone dei sodomiti) e Guido Cavalcanti.
Verso la fine degli anni Ottanta del XIII secolo Dante incontra Bice Portinari, giovane che morirà
precocemente nel 1290. Risalgono a questo periodo le prime rime sparse, mai organizzate dal
poeta in un canzoniere coerente e completo. Le più innovative saranno, però, le cosiddette "rime
petrose", composte intorno al 1296. In questi anni Dante compie studi filosofici a Bologna,
partecipa alla battaglia contro gli aretini ed entra nella "Corporazione dei medici e degli speziali".

Tra il 1292-93 probabilmente raccoglie alcune sue rime in un'organismo prosimetrico intitolato
"La Vita Nova". Entra a far parte della fazione dei guelfi Bianchi partecipando alla dolorosa
decisione dell'esilio di Cavalcanti. Nel 1301 viene mandato in ambasciata da papa Bonifacio VIII,
ed è probabilmente per questo motivo che non si trova a Firenze quando la fazione,
precedentemente perdente, dei Neri prende il controllo della città, guidata dalle truppe di Re
Carlo di Valois. Nel 1302 Dante viene, perciò, condannato all'esilio e poi a morte, costretto a non
rivedere mai più la sua città. Nei primi anni del nuovo secolo, il poeta comincia a comporre Il
Convivio e il De Vulgari Eloquentia, opere che lascerà incompiute per occuparsi della sua
Commedia, poema narrativo in volgare. Durante questo periodo, Dante viaggia in diverse
regioni. L'arrivo in Italia di Enrico VII ispira forse a Dante il trattato politico Monarchia, la cui
datazione è tuttavia incerta. Dante lascia Verona per dirigersi a Ravenna, ultima sede del suo
esilio, dove è ospite. Qui scrive l'epistola in latino a Cangrande della Scala in cui spiega la
struttura della Divina Commedia e la ricchezza e la varietà di sensi in cui può essere intesa la
lettera stessa del poema. Nel 1321 Dante muore e le sue spoglie vengono tumulate nella chiesa
di S. Francesco a Ravenna e non torneranno mai a Firenze, anche quando nei secoli la sua città
natale le reclamerà.

"La Vita Nova"


Composta con ogni probabilità tra il 1292 e il 1293, la Vita Nova vedrà la prima pubblicazione
soltanto nel 1576. E' un organismo prosimetrico (alternanza di versi e prosa), come molte opere
dottrinarie e filosofiche del Medioevo. L'opera può essere considerata una sorta di antologia
della prima produzione lirica di Dante, a tema soprattutto amoroso e ispirata dal personaggio di
Beatrice, giovane morta prematuramente. L'elemento di novità è il fatto che sia il poeta a
commentare e spiegare i suoi stessi versi. La Vita Nova si compone di due parti: la prima è
dedicata all'esaltazione e alla gioia per l'amata in vita, mentre la seconda tratta la consolazione
per la sua morte; questa struttura bipartita verrà ripresa da Petrarca nel Canzoniere, nella
suddivisione "In vita di Madonna Laura" e "In morte di Madonna Laura". Essa fonda, anche per
l'uso del volgare, l'autobiografismo moderno.

Il titolo dell'opera allude allo scambio reciproco tra letteratura e vita: l'una rinnova l'altra e
viceversa. Nelle prose, sogni e visioni si accompagnano alle spiegazioni degli episodi e dei versi:
memorabile è quello in cui appare Amore, che invita Beatrice a cibarsi del cuore del poeta (topos
della poesia provenzale). L'ambientazione avrà moltissima fortuna in ambito decadente e
simbolista, i cui autori si ispirarono quasi più alla Vita Nova che alla Divina Commedia per fare
loro il culto di Dante. Ci sono inoltre diversi riferimenti alla poesia di Cavalcanti, ad esempio nella
personalizzazione dello spirito dell'amata o nelle immagini più cupe e dolorose. Verosimilmente
aggiunta in un secondo momento, nell'ultima parte della Vita Nova si profetizza una "mirabile
visione", in cui di Beatrice sarà detto quello che mai non fu detto ad alcuna: è la visione che verrà
raccontata nel successivo capolavoro di Dante, la Commedia.

"La Commedia"
La Commedia (l’attributo “divina” è posteriore, e compare per la prima volta nel Trattatello in
"Laude di Dante" di Boccaccio, radicandosi poi nella tradizione) è, senza alcun dubbio, l’opera
maggiore di Dante Alighieri, e una delle più celebri e rilevanti dell’intera tradizione letteraria
mondiale. Il poema descrive un lungo viaggio ultraterreno, quello che Dante stesso avrebbe
compiuto in occasione della Pasqua del 1300, all’età di trentacinque anni. Ritrovatosi in una
“selva oscura”, simbolo di un difficile periodo di traviamento personale, l’autore viene soccorso
dal poeta latino Virgilio, che sarà sua guida in una discesa lungo i gironi infernali, di cui Dante
contemplerà tutti gli orrori. Il viaggio di redenzione del poeta, sempre accompagnato dal
maestro fidato, proseguirà poi sul monte del Purgatorio, là dove si purificano le anime in attesa
di salire in Paradiso. Qui Dante, a compimento del personale percorso di ascesi, sarà guidato da
Beatrice e, nella parte finale, l’Empireo, dal mistico S. Bernardo fino alla ineffabile
contemplazione di Dio, che nemmeno la sua poesia può significare per mezzo di parole.

La struttura complessa del mondo ultraterreno si riflette nella accurata architettura del poema,
diviso in tre cantiche, coincidenti con i tre regni Inferno, Purgatorio, Paradiso, e suddivise a loro
volta in 33 canti, nell’Inferno, s’aggiunge un canto proemiale, che ci introduce alla "selva oscura"
e all'esperienza del viaggi, scanditi al loro interno dalla terzina dantesca. La terzina di
endecasillabi (secondo lo schema a rime incatenate ABA BCB CDC...) assicura sviluppo narrativo a
tutte le tematiche fondamentali che Dante tocca nel suo viaggio: l’esperienza personale e quella
collettiva, l’incontro con i personaggi ultraterreni, l’unione di mondo reale e mondo
trascendente, la salvezza dal peccato grazie alla guida della ragione mossa in aiuto dell’umanità
attraverso l’intervento della teologia e della fede.

Assolutamente determinante per lo scrittore e per la sua visione del mondo è che la Commedia
non vuole affatto raccontare solo un viaggio individuale; anzi, la vicenda del singolo non è che la
"figura" della salvezza collettiva di tutta l'umanità, alla luce del messaggio di redenzione di Cristo.
Rilevante è - in continuità con le idee del Convivio - la scelta del volgare fiorentino per un tema
così impegnativo; e proprio qui Dante dispiega tutte le sue doti di grandissimo scrittore. Lo stile
varia considerevolmente, adeguandosi volta per volta al tema trattato. Le scelte di Dante sono
allora orientate nettamente verso il plurilinguismo, piegando lo strumento alle esigenze
espressive di ogni singola occasione, passando con notevole libertà dai registri più colloquiali a
quelli più aulici e sublimi, e creando - quando necessario - neologismi ad hoc. Il poema dantesco,
in considerazione della sua complessità e della sua influenza determinante, è allora uno dei testi-
cardine per l’intera cultura medievale, che Dante porta, nella sua opera maggiore, al pieno e
completo svolgimento.

"Il Convivio"
Il Convivio, opera dottrinaria che il poeta immaginava suddivisa in quattordici trattati filosofici,
ma la cui stesura si fermò al quarto. Il titolo dell'opera metaforizza la "vivanda" delle canzoni,
accompagnata dal "pane" dei trattati che commentano le canzoni stesse. Nel trattato
introduttivo, Dante spiega le ragioni che lo hanno portato ad utilizzare il volgare invece del latino
da lui stesso definito "perpetuo e non corruttibile", una scelta tutt'altro che scontata per una
trattazione - nelle intenzioni dell'autore - così alta e onnicomprensiva; la motivazione principale
è, per il poeta, la "liberalitate" nei confronti dei lettori.

"Il De Vulgari Eloquenta"


Il De Vulgari Eloquentia è un'opera filosofica e dottrinaria elaborata da Dante negli stessi anni
della stesura del Convivio (1303-1304). Se, tuttavia, quest'ultimo era concepito nelle intenzioni
dell'autore come una sistemazione generale del sapere del suo tempo, il De Vulgari è, invece,
dedicato a un tema particolare: quello della lingua, e quindi delle strutture retoriche e della
letteratura.

Si può dire che con questo libro, Dante cominci la storia della letteratura italiana, di cui egli
racconta le vicende su un piano geografico, più che storico. Protagonista dell'opera è la lingua
volgare, che viene definita dall'autore:

1) cardinale, perchè deve essere comune tra tutti gli abitanti della penisola;

2) aulico, perchè sia parlato anche nella corti più nobili;

3) curiale, perchè le sue regole devono essere fissate dalla "Curia", cioè l'insieme dei saggi e dei
sapienti d'Italia.

Proprio per giustificare l'adozione del volgare e far sì che questa scelta venisse compresa dai suoi
interlocutori, Dante scrive il suo trattato in latino, seguendo le regole più severe della trattatistica
del suo tempo, in particolare quella retorica.

L'opera avrebbe dovuto comporsi, da quanto si capisce, di quattro libri; Dante si fermò, tuttavia,
al quattordicesimo capitolo del secondo libro, probabilmente per cominciare la stesura della sua
opera maggiore: la Divina Commedia, esempio non più teorico della forza stilistica del volgare.

Nel decimo capitolo del primo libro, Dante scrive una vera e propria cartina linguistica dell'Italia,
che parte da Sud ed arriva a Nord. Nel sedicesimo, la nuova lingua viene metaforizzata
nell'immagine della caccia a una pantera, il cui profumo si fa sentire ovunque ma che non si
trova in nessun luogo.

Francesco Petrarca
Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304. Il padre, notaio fiorentino, si trovava in esilio ad
Arezzo, e faceva parte della fazione dei guelfi bianchi, come Dante Alighieri. La famiglia di
Petrarca segue poi il papa ad Avignone, dove era stata trasferita la sede pontificia. Muore la
madre del poeta, ciò spinge il poeta a comporre il suo primo componimento, un'elegia in latino.
La corte avignonese si presenta come un ambiente cosmopolita e moderno, che forma il giovane
Francesco.

Nel 1327, come data Petrarca stesso, avviene l'incontro con Laura, l'evento più importante della
sua vita. La donna probabilmente è Laura de Noves, donna sposata con un aristocratico. Petrarca
assume lo stato di chierico, dandosi alla carriera ecclesiastica. Il poeta affronta diversi viaggi, in
particolare Parigi e Roma, città importante per l'elaborazione del mito della classicità da parte di
Petrarca. Nel 1337 nasce il figlio Giovanni e decide di comprare una casa in Provenza, che
diventerà l'epicentro del suo mondo poetico. Lla sua crescente fama di letterato e umanista lo
porta a un gesto innovativo per l'epoca: si sottopone a un certame poetico, che gli viene fatto dal
re di Napoli, Roberto D'Angiò, che vaglia la sua preparazione umanistica e poetica e lo incorona
con l'alloro sul Campidoglio.

Tra il 1347 e il 1353 compone un'opera in prosa in latino, il Secretum. Si tratta di un dialogo
immaginario tra il poeta e Sant'Agostino, in cui vengono affrontate questioni personali e intime
del poeta, una sorta di autoesame di coscienza, di "inchiesta psicologica su se stessi".

Continua i suoi studi di carattere filologico e i suoi viaggi per monasteri e biblioteche alla ricerca
di manoscritti rari di autori classici, sua è infatti la scoperta di alcune epistole di Cicerone. Il suo
metodo di ricerca, il suo studio degli autori antichi e la sua passione per la classicità rendono
Petrarca un precursore dell'Umanesimo.

Dal punto di vista politico Petrarca è un uomo che resta all'ombra del potere per tutta la vita.
Svolge il suo ruolo all'interno della corte pontificia. Nel 1348 in Europa scoppia la peste nera.
Durante la peste, tra i conoscenti di Petrarca, muore anche Laura, la donna amata del poeta.
Negli anni successivi alla peste Petrarca entra in contatto con nuovi ambienti intellettuali e
culturali, a Firenze conosce Boccaccio. L'ambiente della corte pontificia appare al poeta sempre
più soffocante e si stabilisce in Italia, a Milano alla corte dei Visconti, da cui si allontana.
Ricomincia un nuovo periodo di peregrinazioni in Veneto e Petrarca si stabilisce a Padova,

Nel 1374 Petrarca muore per un attacco di febbre, mentre sta completando l'opera in volgare a
cui ha dedicato la vita intera, il Canzoniere.

"Il Canzoniere"
La fama di Francesco Petrarca è indissolubilmente legata al successo del suo Canzoniere, quei
Rerum vulgarium fragmenta (frammenti di cose in volgare, ma anche ‘popolari’, ‘di poco conto’)
che, non a caso, l’autore definisce catullianamente “nugae”: ‘cosette di poco valore’, ‘bagatelle’.
Contraddittoria l’indicazione che ci dà Petrarca. Da una parte, la scelta del volgare, che per un
autore di grande cultura potrebbe sembrare quasi una ‘seconda scelta’, e un titolo, in latino, che
indica un giudizio di valore se non basso, almeno ‘secondario’ dei componimenti. Dall’altra, il
lavoro instancabile di decenni, testimoniato dai tantissimi autografi che ci mostrano
ripensamenti, correzioni, modifiche, intorno a un’opera alla quale l’autore non sembra voler
affidare la sua fama presso i posteri (che per lui fu sempre un obiettivo manifesto), e che, invece,
rappresenta proprio la sua produzione di maggior successo e più innovativa.

Il Canzoniere è una raccolta di 366 componimenti lirici: 317 sonetti, più canzoni, ballate, sestine.
Evidente l’allusione ai giorni dell’anno, più un componimento proemiale, di tipo programmatico,
in cui Petrarca chiarisce i motivi del suo scrivere quest’opera, rivolgendosi direttamente al lettore
<<Voi c’ascoltate in rime sparse il suono>>.

Personaggio cardine dell’opera è senza dubbio Laura, la donna amata, figura idealizzata e
fortemente simbolica già a partire dal nome, nonché dalle circostanze in cui avvenne il primo
incontro, il venerdì di Pasqua in una chiesa di Avignone. Il Canzoniere è diviso in due sezioni:
“Rime in vita” e “Rime in morte di madonna Laura”. In apparenza, la Laura di Petrarca ha una
stretta parentela con le donne degli stilnovisti; di là dalla stereotipata descrizione (sempre allusa
e suggerita, mai concretamente denotata, che ovviamente ci restituisce un angelo biondo, dalla
pelle chiarissima e dagli occhi azzurri, con denti di perla e labbra di rubino) essa appare come
una sorta di essere superiore, quasi metafisico, venuta, avrebbe detto Dante “da cielo in terra a
miracol mostrare”.

Il dramma interiore di Petrarca, però, consiste proprio nell’inadeguatezza di questa immagine;


laddove Beatrice ancora rappresenta quel catalizzatore di pensieri di santità che portano a
chinare gli occhi e a innalzare la lode di Dio, Laura non può più essere percepita come un essere
metafisico, ma assume prepotentemente connotati di umanità e di sensualità.

Siamo ancora ben lontani, tuttavia, da quel distacco dalla concezione teocentrica che, di qui a
pochi anni, consentirà all’uomo umanista e rinascimentale di guardare all’amore terreno con
sana e diversa leggerezza. Petrarca non è in grado, nella sua posizione di uomo medioevale, di
accettare quella visione che sente come irrevocabilmente terrena dell’amore e che costituirà –
assieme alla ricerca per la gloria terrena, quelle che nel Secretum chiama “le catene di
diamante” – il dramma di una vita.

A testimonianza di un tormento interiore anche un’altra osservazione, legata alla struttura


dell’opera: se da una parte il Canzoniere rappresenta senza dubbio un liber organico, a
costruzione quasi ‘gotica’; dall’altra, il soggettivismo imperante ce lo fa leggere anche come un
insieme di liriche che seguono soltanto l’andamento di un animo sofferente: in questo senso si
tratta di un’opera che ha già ampiamente superato il Medioevo nella direzione dell’Umanesimo.

Benché la presenza di Laura sia, infatti, certamente prevalente, il vero protagonista dell’opera è il
poeta stesso; e in questo consiste l’importante evoluzione rispetto alla lirica tanto dei trovatori
quanto dei Siciliani; non più una domina protagonista, magari lontana e inconsapevole – tuttavia
ugualmente dominatrice – ma il proprio animo tormentato, secondo il meccanismo poetico già
presente nell’elegia greca e latina. Tanto che Petrarca nel sonetto proemiale si rivolge ai suoi
lettori chiedendo comprensione per sé in nome del proprio tormento, che egli sa di poter
condividere con altri uomini. L’animo tormentato è dunque il protagonista reale: esso viene
studiato in ogni minima piega, accompagnato nelle reazioni più contraddittorie, analizzato con
cura meticolosa.

Dopo la morte di Laura (che l’autore colloca nel 1348), il mondo del poeta sembra diventare più
ristretto e chiuso, oltre che più triste e proiettato verso un desiderio di purificazione in chiave
ultraterrena; permane il ricordo di lei, accanto al quale sono ancora presenti le altre tematiche
affrontate liricamente da Petrarca: la situazione politica degli Stati italiani, con particolare
riferimento alla questione della Curia papale, e un sentimento di cosmopolitismo inquieto
accompagnato da una forte nostalgia nei confronti dei luoghi che man mano rappresentano la
propria patria.

Molto interessante la scelta linguistica, soprattutto se contestualizzata nel momento storico e se


comparata a quella di Dante, da questi teorizzata nel De vulgari eloquentia e messa in pratica
finalmente nella Commedia.

Per Dante il volgare è una scelta senza appello, che prevede la creazione di un idioma che sia
aulico, curiale, illustre e cardinale, ma che contemporaneamente sappia spaziare in un
amplissimo ventaglio di registri e di scelte lessicali; per Petrarca, al contrario, il volgare deve
tendere a riprodurre la perfezione lessicale e strutturale del latino. La letteratura latina, infatti,
ha raggiunto una perfezione che ormai non si può che imitare; il volgare, d’altro canto invece,
può elevarsi al livello di lingua letteraria.

Giovanni Boccaccio
Giovanni Boccaccio nasce in Toscana nel 1313. Frutto di una relazione illegittima tra il padre, il
mercante Boccaccino e una donna di estrazione sociale inferiore, viene riconosciuto e cresciuto
dal genitore a Firenze. Nel 1327 parte giovanissimo per Napoli per imparare il mestiere
mercantile e bancario, seguendo il desiderio paterno di vederlo sistemato in una professione
stabile e fruttuosa. La realtà napoletana si rivela però molto diversa rispetto alle aspettative,
traducendosi in anni di svaghi e spensieratezze presso i raffinati ambienti della corte angioina.
Qui, grazie agli stimoli della vivace vita culturale che anima la nobiltà napoletana, Boccaccio
inizia ad interessarsi ai classici latini e ai grandi capolavori in volgare, Dante su tutti. Così, dopo
un periodo di formazione da autodidatta, Boccaccio compone la Caccia di Diana (1333-1334), un
poemetto in terzine in lode di alcune nobildonne napoletane. È poi la volta del Filostrato 1335,
poema in ottave che narra le vicende amorose di Troilo, figlio del re troiano Priamo. Il Filocolo
(1336-1337) è invece un romanzo in prosa già più maturo, dedicato a descrivere l’amore
tormentato di Florio e Biancofiore. Un altro poema d’amore, questa volta di sapore epico (tanto
che l'autore recupera la divisione in dodici libri tipica dell'Eneide), è il Teseida delle nozze
d’Emilia, composto tra il 1339 e il 1340. Caratteristica comune a tutte queste opere (e poi
centrale in quasi tutta la produzione boccaccesca) è il sentimento amoroso, non di rado di natura
autobiografica. Boccaccio, ad esempio, maschera spesso dietro il nome di Fiammetta una certa
Maria d'Aquino, presunta figlia di Roberto d'Angiò e musa d'amore per il giovane scrittore.

Nel 1340 Boccaccio, a causa di problemi economici che affliggono il padre, deve rientrare a
Firenze, lasciando l'amata Napoli. Qui la vita si rivela subito molto diversa dai continui svaghi
partenopei, e Boccaccio, spinto anche dalle ristrettezze finanziarie, si concentra sulla propria
produzione letteraria: tra il 1341 e il 1342 scrive un prosimetro, la Comedia delle ninfe fiorentine,
e conclude nel 1343 un voluminoso poema allegorico-didattico, intitolato l'Amorosa visione. Tra
il 1343 e il 1344 si dedica ad un componimento in cui domina nuovamente il ricordo di Napoli,
l'Elegia di Madonna Fiammetta, una specie di lunga lettera in nove capitoli, in cui la protagonista
femminile, allontanandosi dalla tradizione letteraria dell’epoca, racconta le proprie sofferenze
d'amore, occupando un ruolo decisamente attivo ed originale per il tempo. Agli anni 1344-1346
risale pure il Ninfale Fiesolano, poemetto in ottave sull'amore di Africo e Mensola con cui
Boccaccio vuole celebrare, attraverso il mito, la Firenze del tempo antico.

Dopo la peste del 1348, inizia il suo capolavoro, il Decameron, che concluderà nel 1351: l'opera,
una raccolta di cento novelle raccontate da dieci giovani narratori in dieci giorni, non è solo il
testo più celebre dello scrittore fiorentino, ma una vera e propria sintesi di tutto il mondo
comunale e mercantile del tempo, e uno dei libri più importanti per l'intera narrativa
occidentale.

Dopo questa magistrale prova, Boccaccio modifica, almeno in parte, i propri interessi di scrittura:
successivo al Decameron, oltre ad opere di carattere erudito, è infatti il Corbaccio (1354-1356),
un’aspra invettiva contro il genere femminile, che muta profondamente l’atteggiamento
dell'autore rispetto alla tematica amorosa. L'ultimo periodo di vita, caratterizzato anche da
difficoltà economiche e personali, è insomma per Boccaccio quello della meditazione
esistenziale ed intellettuale: alla riscoperta dei classici corrisponde il sempre vivo interesse per
Dante, cui Boccaccio dedica un Trattatello in laude del 1365, e una serie di pubbliche letture
della Commedia a Firenze. Lo scrittore, ormai anziano e malato, si spegne a Certaldo nel 1375.

"Decameron" - Parte Monografica

Angelo Poliziano
Angelo Poliziano (o meglio, Angelo Ambrogini prima che l’autore scegliesse il suo pseudonimo
umanista, ispirandosi al “mons Politianus”, l’attuale Montepulciano, dov’egli nasce nel 1454) è
uno dei principali esponenti dell’Umanesimo quattrocentesco. La sua ricca e dottissima
formazione ha però origine da una circostanza tragica: il padre, giurista, viene ucciso per
vendetta quando Poliziano ha circa dieci anni, così che il futuro autore delle Stanze per la giostra
è costretto a trasferirsi a Firenze. Qui Angelo, frequentando le lezioni di maestri come Marsilio
Ficino, matura presto forti interessi per le e in particolare per le problematiche filologiche, al
centro del nuovo atteggiamento “umanistico” verso i libri e la cultura in generale. Nel 1473, la
“promozione” presso lo stimolante ambiente della corte medicea e l’accesso alla ricchissima
biblioteca di Lorenzo costituiscono l’innesco per l’attività letteraria vera e propria; a ciò
s’aggiunge l’assegnazione da parte di Lorenzo medesimo della carica ecclesiastica di priore (e poi
sacerdote) che gli garantisce anche una certa stabilità economica. Cancelliere del Magnifico e poi
precettore dei figli Piero e Giovanni, Poliziano cura la compilazione della celebre Raccolta
Aragonese un’antologia di testi poetici in volgare inviati nel 1477 da Lorenzo a Federico
d’Aragona, per sancire il primato cultural-letterario della Firenze delle “tre corone” e redige pure
l’epistola d’introduzione. Ma la riflessione teorica sui modi e le forme della poesia della
tradizione si intreccia con la propria produzione personale: dal 1475, infatti, Poliziano lavora alle
Stanze per la giostra, poemetto encomiastico in ottave (poi incompiuto) per celebrare la pace del
1474 tra Milano, Venezia e Firenze; e nel frattempo, continua la stesura delle Rime.

Eppure, gli eventi politici alterano questa situazione idillica: la congiura dei Pazzi del 1478 in cui
Giuliano de’ Medici perde la vita e la sotterranea ostilità verso il Poliziano da parte della moglie
di Lorenzo inducono l’autore ad abbandonare la corte, iniziando un “tour” tra varie città italiane.
Dopo Bologna, Padova, Verona e Venezia Poliziano approda verso il presso i Gonzaga di Mantova,
anche se presto riesce a rientrare nella città toscana, ottenendo anche la cattedra di Eloquenza
latina presso lo Studio mediceo. Poliziano può così dar libero campo agli interessi umanistici,
soprattutto sulle lingue classiche, ma aprendosi anche a filosofia e discipline giuridiche. Frutto di
quest’ultima fase della formazione sono i Miscellanea (“Cose varie”), duecento capitoli di prose
dotte, che sviluppano in ogni direzione gli interessi filologici e la curiosità intellettuale
dell’autore. Le Epistolae, in latino, si affiancano alle Sylvae, in esametri latini, che raccolgono le
prolusioni accademiche del Poliziano sugli autori classici prediletti. La morte di Lorenzo de’
Medici (1492) e la calata in Italia di Carlo VIII nel 1494 sono gli eventi che funestano gli ultimi
anni dell’intellettuale, che si spegne nel settembre di quell’anno. L’ultimo tributo alla figura
dell’umanista sarà la pubblicazione dell’Omnia opera nel 1498.

"Stanze per la giostra"


Le Stanze per la giostra di Angelo Poliziano sono un poemetto in ottave, diviso in due libri, a
scopo elogiativo; celebrano infatti la vittoria di Giuliano de’ Medici in una "giostra" (un duello a
cavallo, in cui bisogna disarcionare l’avversario) tenutasi in Piazza Santa Croce a Firenze, per
celebrare un importante trattato di pace. Il poeta non si limita a comporre un’opera
encomiastica, ma crea un vero e proprio poema allegorico, in cui inserire le sue concezioni
filosofiche - Poliziano, infatti, fu un seguace del neoplatonismo di Marsilio Ficino. L’opera,
tuttavia, rimane incompiuta a causa della morte di Giuliano, ucciso nel 1478 nella congiura ordita
dalla famiglia de’ Pazzi. La vicenda favolosa segue il percorso di un giovane dedito alla caccia e
dispregiatore dell’amore, Iulio, figura che incarna Giuliano e che è ispirata da personaggi della
classicità, quali Ippolito, protagonista dell’omonima tragedia di Euripide e della tragedia Fedra di
Seneca. Cupido, desideroso di vendetta per il disprezzo che prova Iulio verso di lui, ordisce un
piano per fare innamorare il giovane. Durante una battuta di caccia in una mattina di primavera,
compare al protagonista una cerva bianca, creata per magia dal dio, che egli insegue fino a un
prato fiorito, dove l’animale scompare. Al suo posto il giovane scorge una donna, Simonetta, di
cui si innamora. In questi versi Poliziano esprime il vivo entusiasmo e la partecipazione alle
vicende, attraverso l’uso di esclamazioni, tipiche della poesia popolare e calata qui in un contesto
"colto". Cupido, dopo aver fatto innamorare Iulio, torna a Cipro, mitico regno della madre
Venere, a cui racconta l’accaduto. Il poeta descrive minuziosamente l’isola, che assume i
connotati del tradizionale locus amoenus della classicità; l’intera descrizione, ricca di influenze
letterarie della poesia greco-latina e della tradizione letteraria italiana (come Dante e Petrarca) si
chiude su questo paesaggio perfetto e meraviglioso il primo libro delle Stanze. Il secondo libro,
incompiuto, si apre con la lode a Lorenzo il Magnifico e alla famiglia de’ Medici, come un
secondo proemio all’intero dell’opera. Venere stabilisce che Iulio deve riuscire a far innamorare
di sé la giovane Simonetta. Manda, quindi, al protagonista un sogno premonitore, che ha valore
quasi iniziatico per il giovane. Nel visione onirica Iulio vede l’amata legare Cupido a un ulivo,
pianta sacra di Minerva e simbolo della castità; compare la Gloria, che dà le armi di Minerva a
Iulio. Si assiste poi alla morte di Simonetta, che ricorda quella di Beatrice nella Vita nuova di
Dante, e alla sua resurrezione. Una volta sveglio, Iulio decide di mettersi alla prova nel prossimo
torneo. Qui il poemetto si interrompe. Diverse sono le interpretazioni date a questo poemetto
encomiastico: una parte della critica vede la vicenda come allegoria del percorso neoplatonico
dell’anima, dall’inseguimento della bellezza sensibile fino a raggiungere, passando dalla bellezza
spirituale a quella angelica, la Bellezza divina. La cerva, Simonetta e Venera incarnano quindi i
diversi stadi della bellezza. Diversi sono anche i modelli letterari e le fonti presenti all’interno del
poema e sintomo dell’alta cultura umanistica di Poliziano. L’opera, profondamente penetrata del
clima letterario della corte medicea, si costruisce allora come un mosaico, in cui il lettore colto
può rintracciare e scoprire i segni di una tradizione condivisa.

Lorenzo De' Medici


Principe e poeta nella Firenze rinascimentale. Appartenente alla potente dinastia dei Medici,
Lorenzo fu uno dei maggiori esponenti del Rinascimento italiano. Signore di Firenze, ebbe un
ruolo di grande rilievo nella vita della sua città e dell’Italia. Fu politico, letterato e mecenate,
mercante e banchiere, e per le sue doti eccezionali fu denominato ‘il Magnifico’ . Il nonno di
Lorenzo, Cosimo, era stato il fondatore della potenza dei Medici a Firenze, dove Lorenzo nacque
nel 1449. Appena ventenne, Lorenzo era succeduto nel 1469 al padre Piero nell’esercitare, con il
fratello Giuliano, la signoria cittadina. Una grave crisi fu da lui superata allorché sopravvisse alla
congiura messa in atto nel 1478 contro i Medici, col decisivo concorso della Roma papale e della
corte di Napoli, dalla famiglia loro antagonista dei Pazzi, congiura che costò la vita a Giuliano.
Lorenzo ne uscì riuscendo a consolidare il proprio primato, che non venne più sfidato sino alla
sua morte. Egli agì in due direzioni: quella della politica interna e della politica estera. In primo
luogo accentuò il potere suo personale e poi quello delle potenti oligarchie senza il cui consenso
non avrebbe potuto governare, mostrando però l’accortezza di cercare di contemperare gli
interessi delle varie parti della società fiorentina. Ridusse l’influenza del Consiglio del popolo e
del comune e delle Arti medie e minori e accrebbe quella delle oligarchie a lui legate, che
avevano i loro maggiori centri di influenza nel Consiglio dei Settanta e nella cancelleria signorile.
In secondo luogo, impose l’egemonia di Firenze su città come Siena e Lucca e su Romagna e
Umbria, sottomettendole alla sua autorità. In politica estera Lorenzo operò in modo da unire gli
Stati italiani in un’alleanza (di cui Firenze doveva costituire ‘l’ago della bilancia’) con Milano,
Roma e Napoli, avendo lo scopo di pervenire a uno stato di equilibrio volto a preservare la pace.
Questo disegno di Lorenzo, tessuto superando varie difficoltà, dopo una prima fase di sostanziale
successo venne eroso dal contrasto degli interessi tra gli Stati regionali fino al punto di diventare
evanescente. Ma la minaccia maggiore venne infine dall’esterno, e cioè dai progetti
espansionistici prima della Francia e poi della Spagna in direzione dell’Italia. Lorenzo morì nel
1492, proprio quando il re francese Carlo VIII andava già progettando tale invasione, che divenne
una realtà nel 1494. La figura di Lorenzo assurse ben presto al livello del mito, inducendo a
opposte valutazioni. Mentre Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini videro in lui
l’incarnazione di un principe di grandi qualità politiche, Girolamo Savonarola e i suoi seguaci, che
aspiravano a una riforma politica guidata da intransigenti principi religiosi, lo denunciarono come
l’esponente di uno spirito tirannico e corrotto dalla mondanità.

Lorenzo non fu soltanto un politico di grande rilievo, ma anche un finissimo letterato e poeta.
Vissuto quando Firenze era grande capitale del Rinascimento italiano ed europeo, contribuì in
prima persona allo sviluppo dell’Umanesimo. Si adoperò per lo sviluppo della cultura e delle arti,
con un’attività di illuminato mecenatismo, di cui tra gli altri beneficiarono poeti come il Poliziano
e filosofi come Marsilio Ficino. Egli stesso si dedicò alla poesia, con un’ispirazione improntata
all’arguzia e al disincanto verso il valore delle cose umane, destinate tutte a perire. Ha lasciato
numerose opere divenute un capitolo importante della letteratura nazionale, quali i Canti
carnascialeschi, la Nencia da Barberino e le Selve d’amore.

«Due persone diverse, quasi con impossibile congiunzione congiunte»: così Machiavelli definisce
Lorenzo il Magnifico. E la diversità è manifesta anche nell’opera letteraria del principe illuminato:
poesie colte e delicate, scritti burleschi e sboccati, sacre rappresentazioni colme di devozione.
Ma unica è la lingua popolare che egli fu tra i primi a ritenere adatta alle arti e alle scienze non
meno che il latino, la lingua dei dotti.«Donne, siam, come vedete,giovanette vaghe e liete.Noi ci
andiam dando diletto,come s’usa il carnasciale:l’altrui bene hanno in dispettogl’invidiosi e le
cicale»(da Canti carnascialeschi, Canzona delle cicale).

Luigi Pulci
Poeta nato a Firenze nel 1432 è stato il protetto di Lorenzo de' Medici, passò nel 1473 al servizio
del principe Roberto di Sanseverino. Il suo capolavoro è il poema cavalleresco Morgante,
caratterizzato dal registro parodico e da audaci sperimentazioni linguistiche. Di nobile e agiata
famiglia, nel 1459 dovette, in seguito a dissesti finanziari, occuparsi come scrivano e contabile.
Esiliato da Firenze, poté tornarvi con l'aiuto di Lorenzo de' Medici. Questi gli affidò alcune
missioni diplomatiche ma sucessivamente, per cause non bene accertate, Pulci si allontanò dal
suo protettore per passare al servizio del principe Roberto di Sanseverino, che seguì in tutti i suoi
viaggi; rimase peraltro devoto a Lorenzo, al quale lo legarono per tutta la vita amicizia e
riconoscenza profonde. Proprio questi sentimenti di devozione nei confronti di Lorenzo de'
Medici sono testimonianza viva e arguta le Lettere, dalle quali la personalità del poeta, beffarda,
amara, scanzonata, vien fuori in tutta la sua suggestiva ricchezza. Se l'uomo si specchia
limpidamente in queste lettere, l'artista si rivela, nella variatissima coloritura del suo mondo
comico, soltanto nel Morgante, poema del 1461 e composto in due tempi (la prima redazione
era in 23 canti; l'edizione definitiva ne comprende 28). Nei primi 23 canti Pulci segue,
nell'orditura della vicenda e nel taglio delle scene, un cantare anonimo, il cosiddetto Orlando
laurenziano, ch'egli varia, arricchisce, sintetizza secondo il suo estro comico e il suo audace
ingegno stilistico; gli ultimi 5 canti risentono invece largamente della Spagna in rima: tutto il
poema, peraltro, nasce da una felice e personalissima elaborazione dei dati offerti dalla
tradizione canterina trecentesca. Nel Morgante le figure del vecchio mondo cavalleresco, che
Pulci riprende e riscatta, divengono nulla più che inesauribili pretesti comici, intorno ai quali il
poeta intreccia le sue fantasie ponendo al centro del suo gioco le figure di Morgante e Margutte.
E qui è appunto il nucleo vitale dell'ispirazione di Pulci che non si propone di comporre un
poema nel senso tradizionale del termine, ma vuole soltanto abbandonarsi a una felice
avventura di linguaggio e di stile, con un impegno verbale, con rarissime concessioni all'umanità
dei personaggi, con scarso interesse alla loro qualificazione poetica. Ma qui è anche il limite
dell'opera, che nei momenti felici raggiunge toni di altissima comicità, per scadere poi nella
formula o nella fredda stratificazione di motivi e di temi comici. Tra le opere minori di Pulci
vanno ricordati i sonetti con Franco, nei quali la felicità espressiva fa dimenticare la fredda
violenza della polemica, la Beca da Dicomano che canta l'amore di un rozzo montanaro, Nuto,
con un rude realismo che ritrae la mentalità alpestre.

"Il Morgante"
La struttura del poema ricalca quella dei canti popolari sul ciclo bretone e carolingio, dei quali si
recupera non tanto sullo stile, quanto sulla trama, ricca di intrecci e colpi di scena. I primi
ventitre cantari del Morgante sembrano ispirarsi a uno di questi cantari popolari, l’Orlando,
mentre gli ultimi cinque, che riguardano la Rotta di Roncisvalle, sembrano basarsi su un altro
poemetto, la Spagna. La composizione cronologicamente successiva di questi ultimi cantari è
evidente nello stile e nella lingua: dominano citazioni colte e possibili riferimenti allegorici alla
vita del Pulci - come il personaggio Marsilio identificato da molti con il neoplatonico Ficino, verso
cui il poeta è ostile.

La trama dell’opera appare variegata e frammentaria, in conseguenza dei molti episodi che la
compongono. Orlando, calunniato presso Carlo Magno da Gano, paladino malvagio e traditore, è
costretto a partire per l’Asia. Fermatosi in un convento, scopre che i monaci sono oppressi da tre
giganti. Il paladino si offre di liberare i monaci da questo tormento, e uccide infatti due dei
giganti. Il terzo, Morgante, viene convertito e trasformato nello scudiero di Orlando. Il poeta
riporta diverse avventure e incontri, come quello con Margutte, mezzo-gigante astuto e furbo,
controparte perfetta dell’ingenuo Morgante. Giungono in Oriente altri cavalieri di Carlo Magno,
di cui vengono ripercorse le imprese. Ma il malvagio Gano convince il re pagano Marsilio ad
attaccare il regno di Francia. I paladini tornano così in Occidente. Orlando, nella retroguardia,
viene sorpreso a Roncisvalle, dove i nemici avevano teso una trappola, e viene ucciso nel
combattimento, non prima di aver suonato il suo corno, che attira l’attenzione dell’esercito di
Carlo Magno, che accorre in suo aiuto, sbaragliando l’esercito pagano.

Il tono dell’intero poema appare quello tipico della tradizione comico-realistica, Pulci infatti
parodizza i canti e le tematiche cavalleresche in modo vivace e divertito, anche dal punto di vista
linguistico. il Morgante si presenta quasi in contrapposizione, per quanto riguarda toni e
obiettivi, con un altro poema contemporaneo, l’Orlando innamorato di Matteo Boiardo. Questa
disposizione dell’autore si nota anche nella struttura tematica, dove diventano centrali scene dal
gusto realistico, comico e grottesco. Ed è qui - piuttosto che nello sviluppo delle grandi vicende
eroiche dei paladini e nella forza della trama - che si nota l’abilità dell’autore nella descrizione
pittoresca e caricaturale della realtà. Dal punto di vista linguistico, questa vivacità si ritrova nella
scelta lessicale del Morgante, ricco di termini popolari e dialettali, usati appositamente per
ricreare, anche nella lingua, l’effetto comico delle vicende. Come viene evidenziato dalla critica,
Pulci sceglie con cura e attenzione un materiale linguistico opposto alla cultura “alta” (a cui
comunque appartiene l’autore), che emerge all’interno dell’opera nel gusto per la citazione e per
il riferimento colto.

Matteo Maria Boiardo


Matteo Maria Boiardo nasce nel 1441, nel territorio di Reggio Emilia, allora dominato dalla
signoria degli Estensi di Ferrara. Boiardo trascorre parte della sua infanzia, fino alla morte del
padre, a Ferrara, dove riceve un’educazione umanistica. Nel 1460, in seguito alla morte dello zio,
eredita il feudo paterno e la sua gestione. Dopo diversi incarichi presso gli Este, si trasferisce
definitivamente presso la corte come cortigiano stipendiato. In seguito Boiardo diventa
governatore di Modena, incarico che mantiene fino a quando ottiene il governatorato di Reggio,
incarico che terrà fino alla morte nel 1494.

Fin dalla giovinezza Boiardo si dedica agli studi umanistici con passione, anche grazie
all’ambiente culturale della corte estense; il signore di Ferrara, infatti, favorisce con entusiasmo
produzione letteraria e artistica e lo studio dei classici. Boiardo traduce diverse opere della
letteratura classica, come l’Asino d’oro di Apuleio, la Ciropedia di Senofonte, le Storie di Erodoto
e le opere di Cornelio Nepote. Le sue prime opere personali risalgono al 1463-1464, quando
compone in latino dei canti celebrativi degli Estensi (Carmina de laudibus Estensium) e le
egloghe allegoriche Pastoralia, in lode a Ercole d’Este e prendendo a modello le Bucoliche di
Virgilio. Il tema bucolico viene sviluppato anche nella Pastorale, raccolta di componimenti in
volgare. Compone, inoltre, un commedia teatrale, Timone, tratta da un dialogo di Luciano di
Samosata. Ma le sue opere maggiori e di più successo sono sicuramente il suo Canzoniere, anche
conosciuto come Amorum libri tres, e il poema cavalleresco l’Orlando innamorato. Il Canzoniere,
dedicato ad una tale Antonia Capraro, comprende 180 componimenti, strutturati su tre libri: il
primo dedicato alla gioia d’amore, il secondo al tradimento e il terzo all’elevazione spirituale. I
testi sono sonetti, canzoni e ballate. Il poema cavalleresco, l'Orlando innamorato, viene iniziato
da Boiardo nel 1476 e la prima parte viene stampata nel 1483, anche se l’intera opera non fu mai
completata, a causa della morte dell’autore. Questo poema è ispirato dai due grandi cicli della
poesia cavalleresca medievale, il ciclo carolingio e il ciclo bretone; già nel titolo, infatti, emergono
queste due fonti: Orlando è infatti l’eroe paladino del ciclo carolingio, mentre l’aggettivo
innamorato si ricollega alle avventure amorose del ciclo bretone.

"L'Orlando Innamorato"
L’opera, secondo il progetto dell’autore, avrebbe dovuto svilupparsi in tre libri, ma solo i primi
due sono completi, della terza parte si vedrà solo qualche estratto e rimarrà incompiuta. Le
vicende dell’Orlando innamorato vengono elaborate dal Boiardo durante la sua permanenza alla
corte estense e, come dedicatario del poema, troviamo infatti Ercole I d’Este.

Già il titolo dell’opera ci indica i modelli adottati dall’autore, che sintetizza così il ciclo carolingio,
ponendo come protagonista del proprio scritto l’eroe carolingio Orlando, con quello bretone, da
cui deriva la preminenza del tema amoroso.

All’inizio del primo libro dell’Orlando innamorato ci troviamo alla corte di Carlo Magno durante i
festeggiamenti di un torneo tra cavalieri. Qui giunge la bellissima principessa Angelica,
accompagnata dal fratello. La bellezza della giovane strega induce i partecipanti alla giostra
(primo tra tutti il nostro protagonista Orlando), che acconsentono senza indugio alla proposta
della ragazza: chi riuscirà a prevalere sul fratello Argalìa in duello la otterrà in sposa, chi perderà
sarà fatto prigioniero. Argalìa è però dotato di armi magiche che gli assicurano sempre la vittoria
fino a che il buffo e imbranato Astolfo, riesce a rubargliele durante la notte, e quindi Argalìa
perisce nello scontro con il saraceno Ferraguto. Angelica però, non disposta ad onorare gli
accordi presi, scappa per non finire tra le braccia del saraceno. Alcuni cavalieri, mossi dall’amore
e dal desiderio per la giovane, decidono di seguirla. Tra questi troviamo anche Orlando e suo
cugino Ranaldo, entrambi persi d’amore per la principessa orientale. Ed ecco che Gradasso,
approfittando del fatto che il re Carlo sia momentaneamente sprovvisto di cavalieri (dato che
l’unico rimasto a difenderlo è sempre il povero Astolfo), lo attacca. Durante la fuga della
principessa e l'inseguimento di Orlando e Ranaldo, capita che Ranaldo si abbeveri ad una fonte
magica in un bosco che muta radicalmente i suoi sentimenti: Ranaldo quindi inizia ad odiare
Angelica, mentre quest'ultima, dissetatasi a quella speculare dell'amore, si innamora follemente
di Rinaldo. Strada facendo la principessa raggiunge il Catai, dove Angelica trova rifugio nel
castello di Albraca, per salvarsi dall’amore del re di Tartaria Agricane, ucciso successivamente da
Orlando in duello. Il nostro protagonista, accecato dall’amore per la giovane, si scontra anche col
cugino Ranaldo, deciso a distoglierlo dal suo desiderio per Angelica. Ma Orlando non desiste,
sfida Ranaldo e così la principessa, infatuata di lui, allontana Orlando mandandolo a combattere
contro la maga Fallerina. Così si conclude il primo libro.

La seconda parte del poema vede il regno di Francia minacciato dal re pagano Agramante.
Questo non vuole però affrontare i cristiani senza l’aiuto del valoroso guerriero Rugiero, che
viene liberato dalle mani del mago Atlante grazie all’intervento del ladro Brunello che si
appropria dell’anello magico di Angelica. Nel frattempo Ranaldo e la bella principessa si
scambiano ancora una volta i ruoli, l’uno ritornando ad amarla e l’altra iniziando ad odiarlo.
Ricomincia quindi la contesa amorosa tra Orlando e Ranaldo, che si ritrovano nuovamente a
desiderare la stessa donna. Interviene quindi il re Carlo, che promette di consegnare la ragazza a
chi dei due combatterà con maggior vigore l’esercito pagano che si appresta ad attaccare.
Passiamo così al terzo libro, rimasto incompiuto, che vede lo scontro tra i due eserciti e l’amore
tra Rugiero e Bradamante, da cui discenderanno gli estensi.

Il poema cavalleresco di Boiardo è scritto in ottave, metro narrativo e tipico della tradizione
cavalleresca. Mentre l'amore sta alla base della struttura del poema, la lingua dell'opera è assai
originale, dato che il Boiardo opta per la contaminazione di forme toscane, forme tipiche delle
parlate settentrionali ed espressioni latineggianti. Non mancano poi registri linguistici assai
variabili, da quelli più popolari a quelli aulici e petrarcheschi. Proprio per tal motivo, l'Orlando
innamorato fu poco apprezzato dai contemporanei.

Niccolò Machiavelli
Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469. La prima notizia certa su Machiavelli risale al 1498:
in una lettera esprime duri giudizi sull'operato politico di Savonarola. Nello stesso anno è
nominato secondo segretario della Cancelleria della Repubblica, incarico non particolarmente
importante, ma che gli permette di entrare nella vita politica attiva. Per le sue qualità d'ingegno,
viene inviato fuori Firenze in missioni all'estero. Si reca più volte in Francia, alla corte di Luigi XII,
è inviato presso Cesare Borgia, presso l'esercito fiorentino che assediava Pisa, presso il papa,
presso l'imperatore Massimiliano in Germania. Frutto di queste missioni diplomatiche sono varie
relazioni nelle quali elabora delle analisi politiche approfondite e acute, insieme ad alcuni
consigli che rivolge al governo di Firenze. Il suo impegno nei confronti dello stato fiorentino fu
finalizzato a dotare la città di un esercito proprio e di non avvalersi più dei mercenari, convinto
che la situazione in cui versava l'Italia, richiedesse un nuovo tipo di politica, più risoluto, in cui
occorrono "prudentia et armi". Nel 1512 espulsi i francesi, alleati della repubblica fiorentina, a
Firenze rientrano i Medici. Questo segna la fine della carriera politica di Machiavelli. Viene
confinato per un anno nella villa dell'Albergaccio, presso San Casciano. Alla scoperta di una
congiura contro i Medici, Machiavelli viene arrestato e torturato, perchè sospettato di
complicità.

Tra il 1512 e il 1525 Machiavelli compone quasi tutte le sue opere più importanti: "Discorsi sopra
la prima deca di Tito Livio", "Il Principe", "Dialoghi dell'arte della guerra", "Discorso sopra il
riformare lo stato di Firenze", nel 1520 ottiene l'incarico di scrivere la storia di Firenze, "Istorie
Fiorentine", che completa nel 1525. Viene anche utilizzato dai Medici per alcuni incarichi di poca
importanza. Negli stessi anni si colloca anche l'attività più propriamente letteraria di Machiavelli:
il poemetto satirico "L'asino d'oro", la commedia "La Mandragola", nel 1518, capolavoro del
teatro rinascimentale, e la commedia "Clizia" , nel 1525. Nel 1527 dopo la cacciata dei Medici da
Firenze, a seguito del sacco di Roma da parte delle truppe di Carlo V, Machiavelli cerca invano di
mettersi al servizio della restaurata repubblica, presso la quale sospetto per la sua condotta con i
Medici. Nello stesso anno Niccolò Machiavelli muore.

"Il Principe"
E' scritto da Machiavelli nel 1413. A partire dall’esperienza di governo e dallo studio degli autori
greci e romani (quali Livio, Senofonte e Polibio) Machiavelli teorizza un principato rinnovato
fondandosi sulla «verità effettuale della cosa» invece che «sull’immaginazione di essa». In luogo
degli assetti politici idealizzati delle teorie classiche e utopistiche, «che non si sono mai visti né
conosciuti essere in vero», la sua costruzione teorica fonda il principato su un’antropologia
realistica e pessimistica, descrivendo gli uomini come «tristi», ossia malvagi e moralmente
riprovevoli: «Degli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori
e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno». Un principe «nuovo» che voglia
mantenere lo Stato e il governo non può assumere a criterio della propria azione la bontà o la
correttezza; egli deve poter compiere anche azioni viziose «non partirsi dal bene potendo, ma
sapere entrare nel male, necessitato». Il principe deve «vincere e mantenere lo Stato: e mezzi
saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati» , tenendo in conto che in politica esser
temuto è fondamento più stabile – seppur non preferibile – che essere stimato. Il principe, pur
sembrando possedere qualità morali, tenere fede ai patti ed essere religioso, deve essere pronto
a violare tali comportamenti, poiché i suoi antagonisti farebbero altrettanto; egli deve essere
insieme uomo e bestia, e come bestia deve essere «golpe» e «lione»: «perché il lione non si
defende da’ lacci, la golpe […] da’ lupi» (18). A monte di tali attitudini deve esservi la
fondamentale capacità di interpretare le circostanze, riconoscendo gli assetti della realtà storica
(che segue cicli necessari) e adeguandosi altresì al variare della «fortuna», onde, mediante la
propria peculiare «virtù» e con «impeto», cogliere l’«occasione» per agire: «bisogna che egli
abbia uno animo disposto a volgersi secondo ch’eventi della fortuna e le variazioni delle cose li
comandano».

"La Mandragola"
La Mandragola di Machiavelli, commedia scritta nel 1518, è considerato il capolavoro del teatro
del '500. È un testo che fa un uso moderno della tecnica della contaminazione, già usata dagli
autori latini, che prevedeva un riuso di testi teatrali di altri autori. Machiavelli tiene sempre
presente, infatti, i due modelli latini, Plauto e Terenzio, operando una profonda modificazione
del modello di riferimento in senso moderno.

Egli innesta tematiche e spunti presi dalla tradizione novellistica italiana: la trama stessa risente,
infatti, della vicenda narrata nel "Decameron" di Giovanni Boccaccio nella sesta novella della
terza giornata.

La Mandragola si presenta con una struttura complessa, in cui si sviluppano due intrecci: una
struttura d'amore il cui portatore è il personaggio Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, moglie di
messer Nicia; e una struttura della beffa, il cui portatore è il personaggio di Nicia, il marito
ingannato dalla trama creata per consentire a Callimaco di diventare amante di Lucrezia. Due
strutture con elementi innovativi: nel primo intreccio amoroso Callimaco è un innamorato che,
rispetto alla tradizione, non svolge l'azione per raggiungere il proprio obiettivo. Si lascia infatti
guidare da colui che organizza l'inganno a Nicia, il parassita Ligurio. Callimaco è un personaggio
in cui si intrecciano due dimensioni della tradizione amorosa letteraria: sia gli elementi propri
dell'amore profano, legati al desiderio fisico, sia gli elementi dell'amore sacro. Callimaco è
caratterizzato quindi da una certa passività e da un amore completo. Nicia è il portatore invece
dell'intreccio della beffa. È presentato come un borghese, ossessionato dalla volontà di avere
figli, lasciandosi così abbindolare dal falso medico Callimaco. Nicia non è cosciente dei propri
limiti e si crede superiore alle sue effettive possibilità. Questo personaggio presenta aspetti
anche innovativi, infatti attraverso di lui Machiavelli introduce una tematica di polemica sociale.
Nicia offre un'immagine della realtà fiorentina e italiana, caratterizzata da inettitudine e
inconcludenza. Accanto questi due personaggi che portano avanti le due strutture si trovano
diversi personaggi-tema: Ligurio, colui che organizza l'inganno; Fra Timoteo, il confessore di
Lucrezia che la persuaderà a concedersi a Callimaco; Lucrezia, colei che subisce la trama della
beffa, ma che poi la farà sua e la sfrutterà lei stessa.

"La Clizia"
Tra le opere minori di Machiavelli troviamo la "Clizia", ricalcata sulla "Casina" di Plauto. Venne
rappresentata a Firenze per la prima volta nel 1525 e pubblicata nel 1537. Ha per motivo l'amore
che per Clizia nutrono il vecchio Nicomaco, alla cui custodia fu già affidata, e il figlio di lui
Cleandro: che naturalmente è l'amato dalla fanciulla e diviene alla fine suo marito.

Nel 1494, il soldato francese Beltramo di Guascogna è ospitato in casa di Nicomaco, con cui
instaura una stretta amicizia. Pochi giorni dopo parte per Napoli con Carlo VIII; la città viene
espugnata e Beltramo cattura Clizia, allora dell'età di cinque anni, che porta con sé per i campi di
battaglia. Ma arrivato a Fornovo, ove avrebbe avuto luogo una battaglia contro la lega
antifrancese, Beltramo decide di affidare Clizia a Nicomaco. Beltramo muore, probabilmente,
poco dopo, perché non si farà mai più sentire. Nei dodici anni che precedono l'inizio della
commedia, Cleandro si innamora di Clizia e, al compimento del suo diciassettesimo anno di età,
anche Nicomaco. Volendo egli possederla, decide di farla sposare al servo Pirro e di comprare la
casa del vicino Damone, per avere un luogo sicuro ove frequentare la ragazza; ma Sofronia,
scoperto il suo piano, vuole far sposare Clizia al fattore Eustachio, a cui Cleandro ha scritto il
giorno prima per spronarlo a raggiungere Firenze.

L'azione comincia il giorno dell'arrivo di Eustachio, che verrà tenuto nascosto in una chiesa
limitrofa. Nicomaco, infatti, gli aveva affidato un difficile incarico onde tenerlo lontano dalla città.
Nicomaco e Sofronia cercano rispettivamente di convincere l'altro ad abbandonare il proprio
proposito, utilizzando come schermo i matrimoni di Pirro ed Eustachio: Sofronia argomenta che
Pirro non può essere un buon marito in quanto delinquente, Nicomaco che Eustachio non può
assicurarle un felice futuro ma solo una vita da contadina. Nessuno dei due riesce a spuntarla e
Nicomaco propone di risolvere il litigio tramite un sorteggio, che arride favorevolmente a Pirro.
Le nozze vogliono essere celebrate quella sera stessa. Cleandro scopre casualmente il piano del
padre di giacere con la ragazza nella casa del vicino Damone. Con questa conoscenza, Sofronia
organizza una burla ai danni del marito: travestirà Siro da donna e lo farà giacere col vecchio al
posto della ragazza, mentre la vera Clizia è tenuta nascosta in casa. Nicomaco cade nella trappola
e al posto di una notte d'amore riceve delle forti percosse. Scoperta la verità, Nicomaco si rende
conto della sua pazzia e ritorna "l'uomo grave, risoluto e rispettivo" di sempre; in cambio,
Sofronia e gli altri dimenticheranno tutto quanto e non riveleranno a nessuno l'accaduto. Lo
scioglimento finale è dato dall'arrivo di Ramondo, che si rivelerà padre di Clizia: la ragazza, non
più serva ma libera, si potrà quindi sposare con il giovane Cleandro.
Ludovico Ariosto
Ludovico Ariosto nasce nel 1474 dal conte Niccolò, nobiluomo al servizio della corte degli
Estensi. Il padre, cercando di avviarlo alla carriera giuridica e alla vita presso l’ambiente di corte,
lo costringe a studiare diritto presso lo Studio di Ferrara. Ariosto tuttavia abbandona gli studi per
dedicarsi alle lettere, guidato dal monaco Gregorio da Spoleto, che lo introduce alla filosofia
neoplatonica, allo studio di Marsilio Ficino e alla conoscenza degli autori classici (Orazio, in
particolare). In questi anni, Ludovico stringe i primi contatti con Pietro Bembo, autore che sarà
poi rilevantissimo con le sue Prose della volgar lingua nelle diverse stesure dell’Orlando furioso.

Durante il servizio presso il cardinale Ippolito, e pure tra i mille impegni di questa carica, Ariosto
non abbandona gli interessi letterari: dopo le opere giovanili (tra cui la raccolta dei Carmina, una
tragedia e altre opere minori), Ariosto lavora alle prime commedie (intitolate Cassaria e I
Suppositi) e, dagli inizi del 1500, lavora ai canti in ottave del suo poema, che vedrà la luce per la
prima edizione nel 1516 (cui seguiranno le rielaborazioni del 1524 e del 1532). L’Orlando furioso,
che subito riceve il plauso dei letterati e della corte, è dedicato al cardinale Ippolito;
ciononostante, nel 1517 si ha la rottura dei rapporti con il cardinale, che vorrebbe avere con sé
l’Ariosto nella nuova sede vescovile in Ungheria. Il poeta, che ha caro il proprio ideale di vita
serena ed appartata e non vuole abbandonare Alessandra Benucci sua moglie, rifiuta e passa al
seguito di Alfonso d’Este. In questi anni comincia anche la stesura delle Satire, che mettono a
fuoco l’animo, i gusti e le inclinazioni intime del poeta, e prosegue la scrittura di commedie Il
Negromante, 1520; La Lena, 1528; l’incompiuta Gli studenti.

Nel 1522 Ariosto viene nominato governatore della Garfagnana, regione da poco entrata sotto il
dominio estense, e quindi assai complessa da gestire. Nel 1525 il poeta rientra a Ferrara,
dedicandosi alla revisione del Furioso, alla composizione delle restanti Satire (fino a un numero
complessivo di sette) e alla pace nella contrada di Mirasole, dove Ariosto trascorre gli ultimi anni,
prima di spegnersi nel luglio del 1533.

"L'Orlando Furioso"
L’Orlando furioso è un poema cavalleresco in ottave di Ludovico Ariosto, iniziato nel 1503-1504 e
pubblicato per la prima volta a Ferrara nel 1516 in quaranta canti. Il poema viene poi pubblicato
in altre due edizioni, con modifiche linguistiche e poi con l’aggiunta di altri canti, che portano il
totale a quarantasei canti. L’Orlando furioso si presenta come la prosecuzione delle vicende
dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo e, più in generale, del ciclo bretone e del ciclo
carolingio. La trama, molto articolata e stratificata, ruota attorno a tre filoni principali: gli amori
di Orlando, Angelica e Rinaldo (e, di conseguenza, di tutti gli altri personaggi del poema cui
alludono le “donne” e “gli amori” del primo verso del poema), la guerra tra l’esercito cristiano di
Carlo Magno e i Mori (“i cavallier” e “le arme” sempre citati nel primo verso), il motivo
encomiastico per la casata ferrarese degli Estensi, sviluppato attraverso le figure di Bradamante e
di Ruggiero.

La trama del Furioso si presenta come un organismo assai complesso ed articolato, per voluta
scelta dell’autore; sulla vicenda principale della guerra tra Franchi e Mori e della follia di Orlando
si innestano infatti una molteplicità di vicende secondarie, che sviano, dilatano e ritardano il
corso naturale degli eventi. Il tutto è però sempre controllato con abilità dal narratore, che
incastra una storia nell’altra in un “gioco” tanto sfaccettato quanto affascinante.
L’argomento bellico, tipico della tradizione del poema epico e cavalleresco, incomincia con
l’invasione della Francia e l’assedio di Parigi da parte del re saraceno Agramante, che
inizialmente sembra aver la meglio sull’esercito cristiano di Carlo Magno, anche grazie all’aiuto
del grande guerriero Rodomonte, e di Marsilio, re di Spagna, e Manfricardo, re tartaro, suoi
alleati. I due paladini più importanti dello schieramento cristiano, Orlando e Rinaldo, si perdono
infatti dietro alla bellissima Angelica, e gli infedeli possono così penetrare a Parigi. Il ritorno in
campo di Rinaldo costringe però i saraceni alla ritirata ad Arles e poi alla sconfitta in una battaglia
navale. Caduta anche Biserta, capitale del regno d’Africa, le sorti della guerra sono affidate ad
una sfida tra i tre migliori guerrieri mori (Agramante, Gradasso e Sobrino) e i tre campioni
cristiani (Orlando, Brandimarte e Oliviero) sull’isola di Lampedusa. Orlando sbaraglia i nemici e
assicura la vittoria a re Carlo Magno.

La tematica sentimentale è spesso intrecciata con quella militare, tanto da condizionare in più
occasioni lo sviluppo delle battaglie e i duelli tra i singoli cavalieri. Tutto ha inizio durante
l’assedio di Parigi; Angelica, ambita sia da Orlando che da Rinaldo, è affidata da re Carlo a Namo
di Baviera, con la promessa di darla in sposa a chi si dimostrerà più valoroso nello sconfiggere i
mori. La fanciulla riesce però a fuggire, inseguita da molti guerrieri di entrambi gli schieramenti.
La ragazza, dopo alcune traversie, incontra un giovane fante saraceno ferito, il bellissimo
Medoro, di cui si innamora e con il quale fugge in Catai. Orlando, giungendo in seguito nel bosco
sui cui alberi la coppia aveva inciso scritte che celebravano il loro amore, impazzisce e si dà alla
devastazione di tutto ciò che incontra. Il paladino, con la mente offuscata dalla gelosia, si aggira
per la Francia e la Spagna, fino ad attraversare lo stretto di Gibilterra a nuoto. Nel frattempo il
guerriero Astolfo, dopo aver domato un ippogrifo, vola sulla Luna, dove ritrova in un’ampolla il
senno perduto di Orlando. Dopo aver attraversato l’Africa e aver compiuto mirabili imprese,
Astolfo fa odorare l’ampolla a Orlando, che torna in sé e rientra in combattimento. Altri amori
“secondari” sono quelli tra Zerbino e Isabella e tra Brandimarte e Fiordiligi.

La terza linea narrativa, quella encomiastica, riguarda Ruggiero, guerriero saraceno, e


Bradamante, sorella di Rinaldo. I due, che si amano ma che sono continuamente divisi dal
susseguirsi degli eventi e delle battaglie, sono presentati come i capostipiti della famiglia d’Este,
che, per via di Ruggiero, discenderebbe così addirittura dalla stirpe troiana di Ettore. L’amore tra i
due è innanzitutto ostacolato dal mago Atlante, che vuole evitare le nozze tra i due perché sa, in
seguito ad una profezia, che Ruggiero è destinato a morire se si convertirà alla fede cristiana e
sposerà Bradamante. Il guerriero viene quindi imprigionato in un castello incantato creato
appositamente dal mago. Ruggiero è poi trattenuto sull’isola della maga Alcina, che lo seduce
con le sue arti di strega. Liberato da Astolfo da un secondo castello magico, Ruggiero può recarsi
con Bradamante in Vallombrosa per convertirsi e sposare l’amata, ma il tutto è ulteriormente
rimandato dalla guerra con i saraceni. Concluse le ostilità, si scopre che Bradamante è stata
promessa a Leone, figlio di Costantino ed erede dell’Impero romano d’Oriente. Dopo un duello
tra Bradamante e Ruggiero (che combatte sotto mentite spoglie per non farsi riconoscere),
Leone rinuncia a lei, così che si possa finalmente celebrare il matrimonio. Rodomonte irrompe
però al banchetto nuziale, accusando Ruggiero d’aver rinnegato la sua fede; il capostipite della
dinastia degli Estensi, dopo un acceso duello, lo uccide.

Intorno a questi tre nuclei narrativi, ruotano vicende e personaggi minori e digressioni,
abilmente intrecciati tra loro e con le storie principali secondo la tecnica dell’entrelacement, che
serve appunto ad “intrecciare” vicende, tempi, spazi e personaggi del poema, stuzzicando
l’attenzione del lettore (o dell’ascoltatore) del poema e favorendo il progredire delle vicende. A
condire il tutto c’è poi l’ironia ariostesca, che, secondo un atteggiamento già visto nelle Satire,
riporta ad un senso di misura le passioni e gli eventi umani, su cui spesso cala un divertito
giudizio d’autore. Costante è la ricerca dell’equilibrio e dell’armonia, valori tipicamente
rinascimentali da cui traspare pure la visione del mondo di Ariosto e la sua ricerca, evidente
anche nelle vicende autobiografiche, di un’esistenza tranquilla da dedicare agli affetti famigliari e
alla letteratura. La ricchezza delle fonti ariostesche (dalla tradizione dei poemi cavallereschi e dei
cantari medievali sino ai modelli classici di Omero, dell’Eneide di Virgilio o della Tebaide di Stazio,
senza dimenticare le Metamorfosi ovidiane) si riflette in uno stile limpido ed elegante, che porta
l’ottava narrativa al massimo delle sue possibilità espressive.

Fondamentale, dal punto di vista stilistico, è anche il processo di revisione del poema che
impegna Ariosto per tutta la vita. Dal punto di vista linguistico, centrale nelle tre revisioni è
evidente la regolarizzazione verso il toscano letterario, sull’esempio delle Prose della volgar
lingua di Pietro Bembo, per eliminare soprattutto le forme e le espressioni più “basse” e
popolareggianti e per dare maggior omogeneità stilistica possibile al Furioso.

"La Cassaria, I Supposit e il "Negromante"

·0 Il 5 maggio 1508 andò in scena al Palazzo Ducale di Ferrara in occasione del Carnevale,
La Cassaria di Ludovico Ariosto. Usando la tecnica della "contaminatio", ovvero
personaggi e situazioni latini intrecciati in una nuova trama, l'autore creò la prima
commedia in volgare del mondo moderno. Il pittore Pellegrino da Udine allestì una scena
che con il tempo si impose come prototipo, sia per la qualità della ricerca prospettica sia
per la rappresentazione della città greca Metellino dove ha luogo la commedia, "tanto
che il pubblico non se poteva satiare a guardarla". La Cassaria si configura come una
grandiosa contaminazione di elementi plautini e terenziani, ad iniziare dai personaggi -
padri ricchi e avari, figli smaniosi per amore, servi avidi e più o meno furbi, ruffiani e
meretrici - proseguendo poi con la trama che racconta di una cassa preziosa, da cui
prende il titolo della commedia, che viene rubata al padre mercante dal giovane Erofilo
istigato dal servo Volpino, allo scopo di consegnarla in pegno al lenone Lucrano per
riscattare la schiava da lui amata.

·1 I suppositi (Gli scambiati) è una commedia di Ludovico Ariosto composta nel 1509.
Originariamente in prosa, fu poi riscritta in versi tra il 1528 e il 1531, seguendo il modello
della commedia latina di Terenzio. I suppositi sono i bambini nati e subito abbandonati
dai genitori, i "trovatelli". Interessante è il dar vita a personaggi che fanno parte della
realtà quotidiana della Ferrara coeva (senza escludere gerghi, allusioni pesanti e oscene)
con impiego di fonti volgari derivanti dalla tradizione novellistica e da Boccaccio, in modo
tale da accentuarne la modernità. La trama si fonda su una serie di scambi di persona e
sugli equivoci che ne nascono. Una novità di grande rilievo è costituita dal fatto che la
scena è in Ferrara, e vi è una fitta rete di riferimenti a realtà e luoghi cittadini ben noti
agli spettatori, che potevano così vedere riflesso sul palcoscenico, con curiosità e
divertimento, il mondo a loro familiare.Erostrato è un giovane studente di Ferrara,
innamorato pazzo di Polinesta, figlia di un noto imprenditore e commerciante. Dato che
egli non avrebbe mai potuto arrivare a conquistare la ragazza per l'opposizione certa del
padre, Erostrato escogita un brillante scambio di persona. Convocato il servitore Dulippo
egli propone di spacciarsi per il padrone per un breve periodo di tempo, mentre egli
avrebbe indossato i panni di un volgare straccione per intrufolarsi nella casa di Polinesta
per farsi assumere come cameriere. Il trucco per un po' di tempo funziona, ma poi le
bugie verranno a galla e gli interlocutori dei due personaggi protagonisti inizieranno a
capire l'imbroglio dato che Dulippo, il quale dovrebbe apparire elegante e raffinato, è un
cafone, mentre l'altro fatica a comportarsi come un servitore. Inoltre Polimesta scopre
un giorno Erostrato e Dulippo che conversano di nascosto riguardo alla loro prossima
mossa, e così il brillante piano di Erostrato di ingannare la sua amata va all'aria.

·2 Il Negromante è una commedia di Ludovico Ariosto scritta nel 1509 in prima stesura
abbozzata, poi terminata nel 1520 per spedirne il testo a Papa Leone X ed ulteriormente
riscritta nel 1528. Il primo allestimento è avvenuto a Ferrara tra il 1528 ed il 1529,
mentre la pubblicazione avvenne nel 1535. L'azione della commedia è ambientata a
Cremona. Narra le vicende di un mago, un impostore ovviamente. L'unico scopo è di
prendere in giro i costumi popolari e le tradizioni legate ai tarocchi. Il Negromante, la
terza commedia di Ariosto, fu compiuta nel gennaio del 1520 e narra degli espedienti
impiegati da un giovane per penetrare nella casa dell'amata. Ma al centro della trama è
un praticone di arti magiche che si prende gioco della credulità del prossimo. Nel
disegnare il personaggio Ariosto ricorre a fonti moderne come ad esempio: - il Ruffo
della commedia del Cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, la Calandria; - Callimaco, il
finto medico della Mandragola di Niccolò Machiavelli. Il Negromante viene messo in
scena soltanto nel 1528. Presso Cremona Cintioo è stato costretto dal patrigno Massimo
a sposarsi con la ricca Emilia, figlia di un suo amico, affinché la famiglia potesse
risollevarsi economicamente grazie alla grande dote. Tuttavia Cintio si era già sposato
segretamente con la povera Livinia, non per altri interessi che per amore, ed ora si
ritrova in un gran bel guaio. Per cercare di sfuggire dalla situazione, Cintioo per qualche
mese si finge impotente e nega qualsiasi soddisfazione alla sua ricca sposa che se ne
lamenta col padre Abondio. Così il genitore convoca in casa un famoso "negromante"
(un fattucchiero da due soldi) per risolvere la situazione. Altra stangata per il povero
Cintio il quale questa volta per cacciarsi dai guai corrompe il mago affinché dichiari ai
genitori e ad Emilia l'impotenza inguaribile del coniuge, vittima di un oscuro sortilegio, a
meno che egli non si separi per sempre dalla ricca sposa. Così avviene e il negromante,
ottenuta ora grande fama, riceve molti clienti compreso il fidanzato cornificato di Emilia.
Tuttavia le cose iniziano a complicarsi quando due servi di Cintio, assolutamente cattivi e
meschini, scoprono l'inganno e la situazione sembra precipitare quando Massimo,
patrigno di Cintio, scopre di essere il vero padre di Livinia, concepita da un incontro
extraconiugale, e così permette le nozze tra lei e Cintio; mentre il negromante e il
servitore Nibbio, uno dei due che aveva smascherato l'imbroglio del padrone e di Cintio,
se la danno a gambe per non essere linciati.

Teofilo Folengo
Folengo è Il più famoso rappresentante di quell’“espressionismo” maccheronico e dialettale che
nel corso del Cinquecento si esprime in numerose opere parodistiche, dove l’uso di un latino
grossolano mescolato al volgare porta a esiti fortemente dissacratori anche dei contenuti della
letteratura ufficiale, sempre più irrigidita dalla repressione ideologica controriformistica e dalla
selezione stilistica promossa dal Bembo. Così nella sua opera principale, le Maccheronee,
Folengo affianca alla parodia dei temi e delle strutture linguistiche dei poemi classici la
valorizzazione di un immaginario folclorico, con streghe e magie, di riti e usanze contadini, di
proverbi e massime di saggezza popolare.

Nel corso del Cinquecento si assiste a un progressivo irrigidimento nella letteratura. Convergono
infatti la stretta ideologica dovuta alla reazione controriformistica e la canonizzazione linguistica
e in generale formale e stilistica promossa dalla riforma bembiana. Ciò da un lato provoca una
minor disponibilità di temi e di strutture, e stringe il cerchio delle libertà concessa alla iniziativa
letteraria dei singoli, ma dall’altro provvede a indicarne con maggior chiarezza l’alternativa, la
scelta cioè di una strada esplicitamente divergente, o per temi (si pensi alla letteratura
bernesca), o per lingua (la produzione dialettale su tutte). Per tutte queste manifestazioni si parla
di espressionismo (o espressivismo), un termine che in origine designava un movimento artistico
del primo Novecento caratterizzato dalla ribellione ai canoni classici e dalla ricerca di oltranza
espressiva, ma che oggi, a partire da un famoso saggio di Gianfranco Contini, viene utilizzato per
indicare una linea che va dalle prime manifestazioni cinquecentesche (quando l’adozione di
canoni non classicistici non può essere più considerata spontanea ma invece “riflessa”: ossia
“consapevole”, prodotta da una precisa scelta anticlassicistica) e giunge a Gadda e ai suoi
continuatori.

In questo panorama la lingua maccheronica adottata da Folengo rappresenta uno degli esiti più
originali e innovativi. Una lingua mescidata, mista di latino e volgare, è testimoniata in numerose
opere fine quattrocentesche-primo cinquecentesche, soprattutto di ambito goliardico, dove la
commistione fra termini tecnici (giuridici o ecclesiastici) e lessico volgare, ricco di espressioni
oscene e scatologiche, è consapevolmente attuata a fini umoristici e satirici. In particolare tale
produzione caratterizza l’ambiente universitario padovano, con il quale il Folengo ha modo di
venire in contatto. La ricetta folenghiana prevede una vasta gamma di interferenze fra le due
lingue, ottenuta non soltanto con l’immissione nel latino di lessico e di sintassi volgari e dialettali,
ma anche con una continua mescolanza all’interno di ogni singola parola (con deformazione
morfologica, suffissale ecc.), ogni singolo periodo, ogni singolo verso, con diversa dosatura a
seconda dell’effetto stilistico che si vuole ottenere. Non a caso la forma linguistica sarà oggetto
da parte del Folengo di una strenua ricerca di equilibrio, che darà esiti diversi nelle varie
redazioni della sua opera.

A questa apertura linguistica corrisponde naturalmente una pari apertura tematica. Escluse
infatti le manifestazioni di “latino grosso” irriflesso (cioè involontario) o mirato a fini di
comunicazione, come poteva essere per le prediche, la scelta di un linguaggio di questo genere
mostra di principio una volontà parodistica, che può esaurirsi in una semplice invettiva goliardica
o toccare invece temi più seri e importanti e addirittura posizioni ideologicamente eretiche,
mascherate sotto l’apparente levità e ironia. Su questo punto di fatti si presentano le maggiori
divergenze nella interpretazione della critica. Superata ormai l’ingenua lettura di tipo romantico
che vedeva nell’artista mantovano l’interprete di una letteratura spontanea e sentimentalmente
vicina al mondo popolare, resta però ancora in discussione la corretta interpretazione dei testi
folenghiani almeno a due livelli principali: la sua posizione nei confronti della questione della
lingua, centro del dibattito letterario italiano nel Cinquecento, e quella ideologico-religiosa, data
la forte satira presente nelle sue opere nei riguardi della corruzione del clero. Per quanto
riguarda la lingua in particolare si assiste a letture estremamente divergenti: se cioè l’opzione
maccheronica vada letta come opposizione alla soluzione della lingua proposta dal Bembo
(l’adozione cioè di un canone ristrettissimo, vincolante tanto a livello formale quanto tematico a
fronte cui si contrappone l’estrema apertura del maccheronico), o se invece essa vada misurata
piuttosto in riferimento al latino (cui in effetti è più strettamente imparentata) e nasca come
coerente e perseguita satira appunto del “latino grosso”, ossia di quelle forme involontarie di
commistione presenti tanto nelle prediche quanto negli atti notarili e in parte in produzione
letteraria latina di livello non eccelso. Così opposte letture si devono al procedimento che Segre
ha qualificato come “ironia fagocitante”: una parodia che investe ogni aspetto dell’opera e che
“autoavvolgendosi” su se stessa rende difficile percepire con esattezza gli obiettivi polemici e la
eventuale presenza di un programma alternativo coerente. Una posizione più equilibrata
porterebbe tuttavia a ritenere la scelta del maccheronico come più confacente al gusto poetico
dell’autore che, senza con questo voler dare alcuna indicazione normativa, con ciò stesso
dimostra la sua estraneità alla poetica selettiva e astratta del classicismo cinquecentesco.

Le difficoltà interpretative che abbiamo elencato nascono in parte anche dalla natura a sua volta
complessa ed enigmatica delle altre opere, nonché dalla mancanza di precise notizie sui contatti
biografici e culturali di Folengo. Nato nel 1491 a Mantova da una famiglia della piccola nobiltà
decaduta, Teofilo (ma il nome di battesimo è Gerolamo) entra a 16 anni nell’Ordine benedettino
al quale apparterrà fino alla morte (nel 1544 a Campese di Bassano), a eccezione di un breve
periodo, tra il ’25 e il ’34 quando, espulso per motivi non chiari insieme al fratello Giambattista,
si trasferisce a Venezia dove si mantiene prima attraverso l’attività editoriale poi entrando a
servizio di Camillo Orsini, capitano della Repubblica. Qui pubblica nel ’26 due opere in volgare
italiano, l’Orlandino (una parodia del poema cavalleresco dedicato agli amori di Milone e Berta e
all’infanzia del figlio Orlando), e Il Caos del Triperuno un testo allegorico di difficilissima
interpretazione. Riammesso nell’ordine nel ’34 trascorre tre anni di vita eremitica a San Pietro di
Crapolla in Campania, e qui scrive Janus e il Varius poema e il poema sacro L’umanità del figliuolo
di Dio, in parte probabilmente per fare riparazione della vis polemica e trasgressiva delle opere
precedenti. Agli anni successivi, trascorsi perlopiù in Sicilia, appartengono ancora opere di
edificazione in latino e in volgare: un poema sacro in terzine La Palermitana, la sacra
rappresentazione Atto della Pinta e il poema latino rimasto incompiuto Hagiomachia (vite di
martiri).

Pietro Bembo
Nato a Venezia nel 1470 da una nobile famiglia legata alla Serenissima, Pietro Bembo entra
presto in contatto con la lingua e la cultura letteraria toscana: soggiorna per qualche tempo
assieme al padre a Firenze e incontra a Venezia il Poliziano. Risiede a Messina presso Costantino
Lascaris, umanista di cultura bizantina, per studiare il greco. Dopo questo soggiorno scrive il De
Aetna, un dialogo latino in cui racconta la sua esperienza siciliana e in particolare la sua
ascensione sull'Etna. Soggiorna a Ferrara tra e in questo periodo stringe amicizia con Ludovico
Ariosto. Intreccia un'intensa relazione con la nobildonna veneta Maria Savorgnan e, come si
presume, con Lucrezia Borgia, figlia del papa Alessandro VI e moglie di Alfonso D'Este. Nel 1505
stampa la sua opera giovanile più importante, i tre libri degli Asolani, ispirati al Decameron e
ambientati ad Asolo, nella villa dell'ex regina di Cipro Caterina Cornaro. Si tratta di un dialogo in
prosa in cui tre personaggi, Perottino, Gismondo e Lavinello, espongono tre punti di vista
differenti sull'amore. Il primo parla dei mali che l'amore può suscitare, il secondo, al contrario, lo
esalta come fonte di gioia e di piacevolezza. Il terzo, superando entrambe le posizioni, lo descrive
come un desiderio di “vera” bellezza che conduce alle bontà divine. L'opera conosce un notevole
successo presso le corti aristocratiche dell'epoca. Più tardi Pietro Bembo soggiorna ad Urbino
presso la corte di Montefeltro prima e di Francesco Maria Della Rovere poi. Qui conosce
Baldassarre Castiglione, Giuliano de' Medici, e comincia la stesura delle Prose della volgar lingua.
Abbraccia la carriera ecclesiastica ed è nominato segretario pontificio. A Roma conosce
Ambrogina Faustina della Torre, detta “la Morosina”, con la quale comincia una convivenza a
Padova. Da questa unione nascono tre figli, Lucilio, Torquato ed Elena. Nel 1525 le Prose della
volgar lingua (che conoscono una seconda edizione nel 1538), in cui espone l'ideale di un
“classicismo moderno” e in particolare di una lingua non più soggetta a drastiche variazioni
normative. Una scelta dettata dalla recente diffusione della stampa, che sottrae definitivamente i
testi all'incertezza della scrittura manuale. Bembo viene nominato cardinale e torna nuovamente
a Roma, dove muore nel 1547.

Pietro Aretno
Scrittore italiano nato ad Arezzo nel 1492, figlio di un calzolaio, che ripudiò perfino nel nome,
non perdonandogli di avere abbandonato la famiglia, si trasferì presto da Arezzo a Perugia, dove
si dedicò alla pittura, e poi a Roma cercando fortuna e successo nell'ambiente cortigiano di
Leone X. Amico di artisti, confidente di diplomatici, intimo dei letterati che frequentavano la
corte, l'Aretino commissionava quadri,organizzava spettacoli e burle, scriveva versi e libelli con
instancabile fervore. Dopo la morte di Leone X si creò una fama scandalistica per le “pasquinate”,
che scrisse in occasione del conclave, interpretando l'ansietà e la scontentezza dell'opinione
pubblica riguardo all'elezione del nuovo pontefice. Durante il pontificato di Adriano VI si tenne
lontano da Roma, ma vi ritornò col pieno favore del nuovo papa, Clemente VII; non riuscì,
tuttavia, a sottrarsi alla violenza dei suoi nemici, i quali lo fecero pugnalare. Scampato alla morte
e vistosi abbandonato da Clemente VII, si rifugiò a Venezia, dove trovò l'ambiente ideale per lo
sviluppo della sua personalità e per lo spettacolo inedito della sua scandalosa e inimitabile
libertà. Chiamato giustamente dall'Ariosto “flagello dei principi”, l'Aretino fece opera di
eversione dei rapporti cortigiani, obbligando i potenti di ogni grado e ambiente a riconoscere e
paventare il valore della pubblica opinione e soprattutto il peso dei suoi direttori e interpreti.
Scrittore antipedantesco e insofferente di ogni disciplina letteraria, dotato di una straordinaria
vivacità espressiva e di un gusto sensuale del colore, lasciò il più compiuto ritratto di sé nei 6 vol.
delle Lettere una delle opere capitali della cultura del Cinquecento. È soprattutto dalle Lettere,
infatti, che si raccolgono il valore e il senso dell'enorme successo dell'attività aretiniana: con il
suo epistolario l'Aretino seppe avviare in forme nuove e più intense che in ogni altra opera il suo
commento violento e caustico agli “andamenti” del mondo, intervenendo in essi con un discorso
continuo, variato secondo l'umore e le prospettive, spesso interessato e capzioso, talora fosco e
oppressivo, oppure scintillante d'arguzia e di intelligenza critica, ravvivato sovente dalla più
schietta luce di poesia. Nei Ragionamenti, dialoghi di cortigiane in cui rivelò, insieme al suo gusto
per il particolare comico e osceno, doti di scrittore realista e beffardo. Indagine caricaturale di
una società e di un costume sorpresi in un aspetto essenziale e tipico del loro essere, i
Ragionamenti costituiscono, di fronte ai codici dell'amore platonico, il codice della carnalità e
dell'amore profano. Delle cinque Commedie, le prime (La cortigiana, 1525 e 1534; Il marescalco,
1527) rompono gli schemi classicheggianti, riflettendo nella comicità delle situazioni le immagini
della sua esperienza delle corti e delle città. Le commedie successive (L'ipocrito, 1542; La
Talanta, 1542; Il filosofo, 1546) si attengono invece al repertorio consueto. Una tragedia
dell'Aretino, l'Orazia (1546), è considerata da molti critici la migliore del Cinquecento. L'Aretino
scrisse inoltre Rime amorose ed encomiastiche, poemetti cavallereschi (La Marfisa, 1535; Le
lacrime di Angelica, 1538; l'Orlandino, 1540), opere devote (L'umanità di Cristo, 1535; la Vita di
Maria Vergine, 1539; la Vita di Caterina vergine e martire, 1540; la Vita di S. Tomaso beato,
1543). In queste ultime opere, l'Aretino compone in fastosa eloquenza (ma anche con novità di
immagini ed eleganza di visione) gli spunti manieristici del suo gusto pittorico.

Baldassarre Castglione
Baldassarre Castiglione nasce a Mantova nel 1478 da Cristoforo da Castiglione, appartenente a
una nobile famiglia militare legata ai marchesi Gonzaga. Copie studi umanistici a Milano e impara
le arti cavalleresche alla corte di Ludovico il Moro. Dopo un breve periodo a Mantova, al seguito
di Francesco Gonzaga, lascia la corte lombarda per passare al servizio del duca di Urbino
Guidobaldo da Montefeltro e del suo successore, Francesco Maria Della Rovere. Alla corte di
Urbino, una delle più raffinate del Cinquecento, ambienta il Cortegiano (iniziato nel 1513 e
ultimato nel 1518), un trattato dialogico in quattro libri che mette in scena alcune conversazioni,
avvenute nell'arco di quattro serate, tra i più illustri personaggi contemporanei, da Elisabetta
Gonzaga e Giuliano de' Medici a Ludovico di Canossa.

In conclusione del felice soggiorno urbinate, durato nove anni e ricco di missioni diplomatiche,
nel 1513 si trasferisce a Roma come ambasciatore dei Della Rovere e frequenta numerosi
letterati e pittori, tra cui Raffaello (a cui si lega particolarmente), il quale sceglie di ritrarlo in un
famoso dipinto. Successivamente è di nuovo a Mantova presso Francesco Gonzaga e sposa la
nobildonna Ippolita Torelli che muore dopo avergli dato tre figli. Nel 1521 intraprende la carriera
ecclesiastica e si reca come nunzio apostolico di Clemente VII presso l'imperatore Carlo V, nel
tentativo di ricucire i rapporti tra la Chiesa e l'Impero. Nonostante i suoi sforzi nel 1527 avviene il
sacco di Roma, evento la cui responsabilità gli viene attribuita dal papa per le sue scarse capacità
diplomatiche. Muore a Toledo nel 1529. Quella di Castiglione non può essere ritenuta una
cultura letteraria professionistica: nella sua dimensione di cortigiano al servizio di papi e signori,
la scrittura rappresenta un'occupazione da gentiluomini e fa parte della vita sociale di corte. Tra i
suoi scritti vanno ricordate anche alcune poesie latine e volgari e una nutrita corrispondenza
epistolare.

"Il Cortgiano"
il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, è un trattato dialogico in quattro libri ambientato nel
1507 nel palazzo ducale di Urbino. Mentre il duca Guidobaldo si trova chiuso nelle sue stanze
perché malato, Elisabetta Gonzaga ed Emilia Pio governano una conversazione tra Ludovico di
Canossa, Ottaviano e Federico Fregoso, Giuliano de' Medici, Cesare Gonzaga, Bernardo Dovizi da
Bibbiena, Pietro Bembo e altri. Su proposta di Federico Fregoso si delibera di “formar con parole
un perfetto cortegiano”, ovvero di definire il profilo del giusto uomo di corte. Nel libro I, Ludovico
di Canossa definisce le sue qualità fisiche e morali: egli dev'essere di nobile nascita e possedere
fascino naturale, cultura e un'ottima conoscenza delle arti cavalleresche. Nel libro II, Federico
Fregoso parla del modo in cui il cortigiano debba regolare le sue qualità a seconda delle
situazioni, soffermandosi anche sui motti di spirito e le “vivaci risposte” che meglio gli si
addicono. Nel libro III, Giuliano de' Medici descrive la figura della dama di corte e ne delinea i
caratteri, mentre nel IV Ottaviano Fregoso stabilisce i rapporti tra il cortigiano e il principe e
discute del suo ruolo di consigliere, di come egli debba spingere il signore ad azioni virtuose, a
prendere atto della realtà e a non farsi obnubilare dagli adulatori. Nel libro IV è contenuta anche
una descrizione del principe ideale, il quale non può esercitare il proprio potere al di fuori dalla
moralità. L'opera subisce diverse revisioni e aggiustamenti (non solo formali) negli anni che ne
precedono la divulgazione. La prima, in cui viene aggiunto un prologo dedicato al re di Francia, la
seconda tra il '18 e il '21, la terza rivista e corretta, viene pubblicata come prima edizione. Nelle
diverse redazioni, il Castiglione mette in atto delle piccole mutazioni ideologiche a favore di una
visione più agile e ad ampio raggio rispetto all'ideale più rigido e meno mutevole dell'esordio.
Tutti gli aspetti della vita del cortigiano devono essere regolati dal “buon giudicio”, e cioè un
confronto continuo dei propri ideali con una realtà in perenne mutazione. Accanto a questo la
“grazia” rappresenta la qualità ideale per imporre la propria immagine, ma questa richiede un
impegno di dissimulazione tale da far apparire spontaneo e naturale ogni comportamento
artificioso. La qualità più importante per un cortigiano è infatti quella che il Castiglione definisce
“sprezzatura”, ovvero la disinvoltura con cui egli deve nascondere l'arte che rende ogni suo atto
spontaneo e naturale nel "teatro" della corte.

Torquato Tasso
Il secondo Rinascimento si presenta come un'epoca di crisi per la società e la cultura italiana. La
società rinascimentale delle corti, giunta al suo massimo splendore, è già in decadenza.Torquato
Tasso dunque si presenta come l'interprete di questa crisi sociale e culturale.

Nasce a Sorrento nel 1544, figlio del nobile Bernardo Tasso e di Porzia de Rossi, una nobildonna
di Pistoia. Fin dall'infanzia deve affrontare diverse difficoltà e cambiamenti: il padre, al servizio
del principe di Salerno, alla caduta di questo viene proclamato ribelle e il suo patrimonio
sequestrato. Torquato si trova a Napoli con la madre e frequenta la scuola gesuita. Pochi anni
dopo raggiunge il padre, che vive a Roma poveramente. La madre muore e il padre diventa poeta
ufficiale della corte di Urbino, dove si trasferisce con il figlio. Il tempo trascorso con il padre è
altamente formativo dal punto di vista culturale per il giovane Torquato. Bernardo è un poeta e
intellettuale e il figlio decide di seguire le sue orme.

Continuano le sue peregrinazioni da Urbino a Venezia, poi a Padova, e infine a Bologna, e Tasso
aspira alla vita dell'intellettuale di corte. Desiderio che si avvera a Ferrara, dove è al servizio del
cardinale Luigi d'Este, e successivamente di Alfonso II d'Este. Proprio in questo periodo Tasso,
che vive momenti di serenità e benessere, realizza le sue opere più importanti: nel 1573 pubblica
la commedia pastorale Aminta in endecasillabi e settenari e nel 1574 completa il poema
Gerusalemme liberata. Ma nel 1579, dopo un periodo di viaggi in giro per l'Italia, Tasso entra in
conflitto con i nobili d'Este, e viene costretto al ricovero nell'ospedale psichiatrico di Sant'Anna,
dopo aver dato in escandescenze alle nozze di Alfonso II. Nasce così l'immagine cara ai romantici
di Tasso, genio e folle, non compreso dalla società dell'epoca.

Nel 1581 avviene la pubblicazione del poema Gerusalemme liberata. Ma la diffusione dell'opera
sfugge al controllo del poeta: inizialmente viene pubblicata con il titolo di Goffredo e in seguito
con il titolo Gerusalemme liberata. Inizia un nuovo periodo di peregrinazioni. Negli ultimi anni
della sua vita vive una sorta di avvicinamento alla vita religiosa, e a questi anni risale la revisione
del poema secondo i principi della Controriforma, al quale viene cambiato il titolo: Gerusalemme
conquistata. Muore nel 1595. La vita di Tasso è sempre volta alla ricerca di un equilibrio, di una
serenità che non riesce mai a raggiungere.
"Aminta" e "La Gerusalemme Liberata"
Ultimo grande esponente della tradizione del poema cavalleresco (e della società di 'corte' ad
esso intimamente collegata), Torquato Tasso (1544 - 1595) è uno degli autori più tormentati ed
inquieti della nostra tradizione letteraria. Il corso, che si avvale delle lezioni di Alessandro
Condina e di un ampio repertorio di testi ed esercizi, prova a ripercorre questo difficile itinerario
poetico ed esistenziale, che inizia con l'Aminta per culminare nella Gerusalemme Liberata e nella
controversa vicenda della sua edizione, con la discesa in campo delle forze dell'Inquisizione
romana.

·3 Aminta venne composta nel 1573 e rappresentata nello stesso anno. Ricalca il genere
drammatico della favola pastorale che si sviluppa dal convergere di diversi modelli: dalla
tradizione dell'egloga al più antico dramma satiresco, una delle forme in cui si articolava,
insieme a tragedia e commedia, il teatro greco classico. L'Arcadia di Sannazaro,
pubblicata nel 1504, aveva diffuso l'immagine di un mitico mondo pastorale,
contribuendo così a formare un nuovo gusto di corte. Il teatro cortigiano del tardo
Quattrocento tentò forme sceniche ricalcate su questi modelli e alla corte di Ferrara la
sperimentazione del genere fu perseguita con determinazione. Si affermò quindi un tipo
di favola basata non su figure ed episodi mitologici, ma su vicende amorose a lieto fine
tra semplici pastori, ambientate in un'Arcadia indefinita e senza tempo. Questa forma
raggiunse un perfetto equilibrio nell'Aminta del Tasso, che utilizzò gli schemi della lirica
petrarchistica per rappresentare le forme della vita naturale e si impose subito come
modello del nuovo genere. Suddivisa secondo i canoni stabiliti da Aristotele nella Poetica
(cinque atti preceduti da un prologo con l'aggiunta di un coro), la vicenda, messa in
scena attraverso il dialogo tra i personaggi, sfiora e respinge la tragedia, nel gioco
convenzionale delle morti apparenti degli amanti: il giovane pastore Aminta è
innamorato della ninfa Silvia, ma questa sembra interessata soltanto alla caccia.
Inutilmente Dafne esorta Silvia a ricambiare l'amore per il giovane, mentre Aminta
comunica a Tirsi il proprio affanno e gli confida il proposito di uccidersi. Arrivati ad una
fonte questi ultimi sorprendono un satiro intento a legare Silvia ad un albero per usarle
violenza. Messo in fuga il satiro, Aminta libera la ninfa che tuttavia fugge senza
mostrargli gratitudine. Dafne, che impedisce ad Aminta di uccidersi, dialoga con lui
quando sopraggiunge la ninfa Nerina ad annunciare il ritrovamento dei resti di Silvia,
morta sbranata dai lupi durante una battuta di caccia. Aminta corre via per mettere in
atto il suicidio, mentre Silvia ricompare viva e scampata al pericolo. Alla notizia del
possibile suicidio di Aminta, la ninfa rivela il proprio turbamento, svelando così il suo
amore. Nella scena conclusiva il pastore Elpino narra come Aminta si sia salvato cadendo
da un burrone su un fascio d'erbe e, raggiunto dalla ninfa, sia ormai tra le sue braccia.

·4 La Gerusalemme Liberata è un poema diviso in venti canti; il modello è l'Eneide e il


metro scelto l'ottava di endecasillabi, con rime alternate e le ultime due rime baciate.
Alcuni studiosi ritengono che i venti canti possano essere raggruppati in cinque parti,
ricalcando così i cinque atti della tragedia classica. Il centro drammatico dell'azione è
sempre Gerusalemme, che rappresenta l'oggetto del desiderio e il luogo da conquistare
a tutti i costi. Attorno alla città, agiscono forze centrifughe (gli interventi diabolici e
demoniaci che distolgono gli eroi cristiani dal realizzare l'impresa) e forze centripete (gli
sforzi degli eroi sostenuti dall'aiuto celeste). Alla base del movimento della Liberata c'è
dunque la peripezia, così com'era per la tragedia classica. L'ambientazione storica è la
fase conclusiva della Prima Crociata (1099). I cristiani sono già da sei anni in Terra Santa,
ma ancora non riescono a conquistarla (riferimento esplicito al poema omerico
dell'Iliade). La Gerusalemme Conquistata (questo il nuovo titolo che assegnò all'opera)
rappresenta un altro poema rispetto a quello originario. Diversa è, infatti, la struttura:
non più 20 canti, ma 24 libri, per aderire in modo più esplicito al modello dell'Iliade. C'è
poi contemporaneamente una svalutazione degli elementi amorosi e passionali, ritenuti
da Tasso estranei al nucleo centrale del poema (che rappresenta, per questo, anche una
presa di distanza dall'Eneide). Il poeta è ossessionato in questi anni dal timore di non
rispettare l'ortodossia, di andare contro le regole aristoteliche, di non aderire
pienamente ai canoni che ormai si impongono sia dal punto di vista artistico, sia da
quello morale. Benchè il capolavoro di Tasso rimanga certamente la Liberata, il nuovo
poema rappresenta una variante d'autore estremamente importante per comprendere il
cambiamento in corso nell'animo del poeta. Al termine della sua vita, ormai in preda alla
follia, Tasso avvertirà la sua opera come una sconfitta: quella di non essere riuscito a far
coesistere il mondo laico del Rinascimento e il mondo, ormai assoggettato alle regole,
della Curia romana.

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