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ELOGIO DELL'OZIO

COME molti uomini della mia generazione, fui allevato


secondo i precetti del proverbio che dice «l'ozio è il
padre di tutti i vizi». Poiché ero un ragazzino assai
virtuoso, credevo a tutto ciò che mi dicevano e fu così
che la mia coscienza prese l'abitudine di costringermi a
lavorare sodo fino ad oggi. Ma sebbene la mia coscienza
abbia controllato le mie azioni, le mie opinioni subirono
un processo rivoluzionario. Io penso che in questo
mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano
derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e
virtuosa; insomma, nei moderni paesi industriali
bisogna predicare in modo ben diverso da come si è
predicato sinora. Tutti conoscono la storiella di quel
turista che a Napoli vide dodici mendicanti sdraiati al
sole (ciò accadeva prima che Mussolini andasse al
potere) e disse che avrebbe dato una lira al più pigro di
loro. Undici balzarono in piedi vantando la loro pigrizia
a gran voce, e naturalmente íl turista diede la lira al
dodicesimo, giacché era un uomo che sapeva il fatto
suo. Nei paesi che non godono del clima mediterraneo,
tuttavia, oziare è una cosa molto più difficile e
bisognerebbe iniziare a tale scopo una vasta campagna
di propaganda. Spero che, dopo aver letto queste pagine,
l'YMCA si proponga di insegnare ai giovanotti a non
fare nulla. Se ciò accadesse davvero, non sarei vissuto
invano.

Prima di esporre i miei argomenti in favore dell'ozio,


vorrei eliminarne uno che non mi sento di accettare.
Quando una persona ha mezzi sufficienti per vivere e
tuttavia pensa di assumere un impiego qualsiasi (di
insegnante o di segretario, ad esempio), si usa dire che
tale persona toglie il pane di bocca agli altri e compie
perciò un'azione malvagia. Se tale argomento fosse
valido, basterebbe che tutti stessero in ozio perché ogni
stomaco fosse pieno di pane. La gente che parla così
dimentica che di solito gli uomini spendono quel che
guadagnano, e spendendo danno lavoro agli altri, cioè
mettono nelle loro bocche, spendendo, tanto pane
quanto gliene tolgono guadagnando. Il vero malvagio,
da questo punto di vista, è il risparmiatore. Chi mette i
propri risparmi nella calza nega al prossimo possibilità
di guadagno. Se invece li investe, la faccenda diventa
meno ovvia e il discorso cambia.

Uno dei metodi più diffusi per investire i risparmi


consiste nel darli in prestito a qualche governo.
Considerando il fatto che la maggior parte dei governi
civili spende un'altissima percentuale del denaro
pubblico per pagare i debiti delle guerre passate e
preparare le guerre future, chi presta quattrini allo Stato
si trova press'a poco nella posizione di quell'infame
personaggio di Shakespeare che prezzolava assassini.
Insomma le abitudini economiche dell'uomo moderno
hanno un solo risultato pratico, quello di aumentare il
potenziale bellico dello Stato al quale egli presta i suoi
risparmi. Ovviamente sarebbe meglio che li spendesse,
sia pure ubriacandosi o giocando d'azzardo.

Mi si obietterà che la cosa è ben diversa quando i


risparmi vengono investiti nell'industria. Se l'industria
va a gonfie vele e produce qualcosa di utile, tutto bene.
Ma di questi giorni molte industrie falliscono. Ciò
significa che buona parte della fatica umana, che
avrebbe potuto produrre qualcosa di piacevole, è stata
sprecata per produrre macchine inoperose che non
servono a nessuno. L'uomo che vede sparire i suoi
risparmi in una bancarotta ha danneggiato gli altri
oltreché se stesso. Se avesse speso i propri quattrini,
supponiamo, nell'offrire splendide feste ai suoi amici,
avrebbe fatto un gran piacere non soltanto a costoro, ma
anche al macellaio, al pasticcere e al fornitore di liquori.
Invece (è ancora una supposizione) li ha investiti in una
impresa destinata a stendere una rete di rotaie in una
cittadina che non ha bisogno di tram, e ha così
contribuito a deviare una certa quantità di lavoro in un
canale che non giova a nessuno. Ciò nonostante, quando
sarà in miseria per colpa di quel pessimo investimento,
tutti lo considereranno vittima di una sventura
immeritata, mentre l'allegro prodigo, che ha speso
filantropicamente il suo denaro, sarà disprezzato come
un incosciente e uno scervellato.

Ma questa è soltanto una premessa. Io voglio dire, in


tutta serietà, che la fede nella virtù del lavoro provoca
grandi mali nel mondo moderno, e che la strada per la
felicità e la prosperità si trova invece in una
diminuzione del lavoro.

Prima di tutto, che cos'è il lavoro? Vi sono due specie di


lavoro: la prima consiste nell'alterare la posizione di una
cosa su o presso la superficie della terra, relativamente a
un'altra cosa; la seconda consiste nel dire ad altri di
farlo. La prima specie di lavoro è sgradevole e mal
retribuita; la seconda è gradevole e ben retribuita, ed
anche suscettibile di infinite variazioni. Per esempio,
non soltanto vi sono persone che danno ordini, ma
anche persone che danno consigli circa gli ordini che
bisogna dare. Di solito due gruppi organizzati di uomini
danno simultaneamente due tipi di consigli opposti: ciò
si chiama politica. Questo genere di lavoro richiede un
talento particolare che non poggia sulla profonda
conoscenza degli argomenti sui quali bisogna esprimere
un parere, ma sulla profonda conoscenza dell'arte di
persuadere gli altri con la parola o con gli scritti, cioè la
pubblicità.

In tutta Europa, seppur non in America, vi è una terza


classe di persone, molto più rispettate dei lavoratori
delle due categorie. Costoro sono i proprietari terrieri, i
quali riescono a far pagare ad altri il privilegio di
esistere e di lavorare. I proprietari terrieri sono oziosi, e
ci si potrebbe perciò aspettare che io ne tessa gli elogi.
Purtroppo il loro ozio è reso possibile soltanto dal
lavoro degli altri; dirò di più: il loro smodato desiderio
di godersi i propri comodi è l'origine storica del vangelo
del lavoro. L'ultima cosa al mondo che essi si augurino
è di vedere imitato il loro esempio.

Dall'inizio della civiltà fino alla rivoluzione industriale,


un uomo poteva, di regola, produrre con molto lavoro
un po' più di quanto fosse necessario al mero
sostentamento di se stesso e della sua famiglia, sebbene
sua moglie lavorasse almeno quanto lui e i suoi figli
cominciassero a lavorare appena l'età glielo consentiva.
Questo esiguo margine non rimaneva però a chi lo
produceva, ma veniva incamerato dai guerrieri e dai
preti. In tempi di carestia non era possibile produrre più
del minimo indispensabile, ma guerrieri e preti
pretendevano la loro parte come sempre, col risultato
che molti lavoratori morivano di fame. Questo sistema
restò in vigore in Russia fino al 1917 [E da allora,
taluni membri del partito comunista sono riusciti ad
assicurarsi lo stesso privilegio dei guerrieri e dei preti.
(N.d.A.)], e sussiste ancora in Asia; in Inghilterra,
nonostante la rivoluzione industriale, fiorì anche nel
periodo delle guerre napoleoniche e fino a cento anni fa,
quando una nuova classe di manufatturieri andò al
potere. In America si estinse con la rivoluzione, fuorché
negli Stati del Sud, dove perdurò fino alla guerra civile.
Naturalmente un sistema praticato per tanti secoli ha
lasciato una profonda impronta sui pensieri e sulle
opinioni degli uomini. Molte idee che noi accettiamo ad
occhi chiusi a proposito delle virtù del lavoro derivano
appunto da tale sistema e non si adattano più al mondo
moderno perché la loro origine è preindustriale. La
tecnica moderna consente che il tempo libero, entro
certi limiti, non sia una prerogativa di piccole classi
privilegiate, ma possa essere equamente distribuito tra
tutti i membri di una comunità. L'etica del lavoro è
l'etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno
di schiavi.

È ovvio che, nelle comunità primitive, i contadini


lasciati liberi non si sarebbero privati dei prodotti in
eccedenza a favore dei preti e dei guerrieri, ma
avrebbero prodotto di meno o consumato di più.
Dapprima fu necessaria la forza bruta per costringerli a
cedere. Ma poi, a poco a poco, si scoprì che era
possibile indurli ad accettare un principio etico secondo
il quale era loro dovere lavorare indefessamente,
sebbene una parte di questo lavoro fosse destinata al
sostentamento degli oziosi. Con questo espediente lo
sforzo di costrizione prima necessario si allentò e le
spese del governo diminuirono. Ancor oggi, il
novantanove per cento dei salariati britannici sarebbero
sinceramente scandalizzati se gli si dicesse che il re non
dovrebbe aver diritto a entrate più cospicue di quelle di
un comune lavoratore. Il concetto del dovere,
storicamente parlando, è stato un mezzo escogitato dagli
uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per
l'interesse dei loro padroni anziché per il proprio.
Naturalmente gli uomini al potere riescono a nascondere
anche a se stessi questo fatto, convincendosi che i loro
interessi coincidono con gli interessi dell'umanità in
senso lato. A volte ciò è verissimo; i proprietari di
schiavi ateniesi, ad esempio, impiegarono parte del loro
tempo libero in modo da apportare un contributo di
capitale importanza alla civiltà, contributo che non
sarebbe stato possibile sotto un sistema puramente
economico. L'ozio è essenziale per la civiltà e nei tempi
antichi l'ozio di pochi poteva essere garantito soltanto
dalle fatiche di molti. Tali fatiche avevano però un
valore non perché il lavoro sia un bene, ma al contrario
perché l'ozio è un bene. La tecnica moderna ci consente
di distribuire il tempo destinato all'ozio in modo equo,
senza danno per la civiltà.
La tecnica moderna infatti ha reso possibile di diminuire
in misura enorme la quantità di fatica necessaria per
assicurare a ciascuno i mezzi di sostentamento. Ciò fu
dimostrato in modo chiarissimo durante la guerra. A
quell'epoca tutti gli uomini arruolati nelle forze armate,
tutti gli uomini e le donne impiegati nelle fabbriche di
munizioni, tutti gli uomini e le donne impegnati nello
spionaggio, negli uffici di propaganda bellica o negli
uffici governativi che si occupavano della guerra,
furono distolti dal loro lavoro produttivo abituale. Ciò
nonostante, il livello generale del benessere materiale
tra i salariati, almeno dalla parte degli alleati, fu più alto
che in qualsiasi altro periodo. Il vero significato di
questo fenomeno fu mascherato dalle operazioni
finanziarie: si fece credere infatti che, mediante prestiti,
il futuro alimentasse il presente. Il che, naturalmente,
non era possibile; un uomo non può mangiare una fetta
di pane che ancora non esiste. La guerra dimostrò in
modo incontrovertibile che, grazie all'organizzazione
scientifica della produzione, è possibile assicurare alla
popolazione del mondo moderno un discreto tenore di
vita sfruttando soltanto una piccola parte delle capacità
di lavoro generali. Se al termine del conflitto questa
organizzazione scientifica, creata per consentire agli
uomini di combattere e produrre munizioni, avesse
continuato a funzionare riducendo a quattro ore la
giornata lavorativa, tutto sarebbe andato per il meglio.
Invece fu instaurato di nuovo il vecchio caos: coloro che
hanno un lavoro lavorano troppo, mentre altri muoiono
di fame senza salario. Perché? Perché il lavoro è un
dovere e un uomo non deve ricevere un salario in
proporzione di ciò che produce, ma in proporzione della
sua virtù che si esplica nello zelo.

Questa è l'etica dello Stato schiavistico, applicata in


circostanze del tutto diverse da quelle che le diedero
origine. Non c'è da stupirsi se il risultato è stato
disastroso. Facciamo un esempio. Supponiamo che, a un
certo momento, una certa quantità di persone sia
impegnata nella produzione degli spilli. Esse producono
tanti spilli quanti sono necessari per il fabbisogno
mondiale lavorando, diciamo, otto ore al giorno. Ed
ecco che qualcuno inventa una macchina grazie alla
quale lo stesso numeró di persone nello stesso numero
di ore può produrre una quantità doppia di spilli. Il
mondo non ha bisogno di tanti spilli, e il loro prezzo è
già così basso che non si può ridurlo di più. Seguendo
un ragionamento sensato, basterebbe portare a quattro le
ore lavorative nella fabbricazione degli spilli e tutto
andrebbe avanti come prima. Ma oggigiorno una
proposta del genere sarebbe giudicata immorale. Gli
operai continuano a lavorare otto ore, si producono
troppi spilli, molte fabbriche falliscono e metà degli
uomini che lavoravano in questo ramo si trovano
disoccupati. Insomma, alla fine il totale delle ore
lavorative è ugualmente ridotto, con la differenza che
metà degli operai restano tutto il giorno in ozio mentre
metà lavorano troppo. In questo modo la possibilità di
usufruire di più tempo libero, che era il risultato di
un'invenzione, diventa un'universale fonte di guai
anziché di gioia. Si può immaginare niente di più
insensato?

L'idea che il povero possa oziare ha sempre urtato i


ricchi. In Inghilterra, agli inizi dell'ottocento, un operaio
lavorava di solito quindici ore al giorno e spesso i
bambini lavoravano altrettanto (nella migliore delle
ipotesi dodici ore al giorno) . Quando degli impiccioni
ficcanaso osarono dire che tante ore erano forse troppe,
gli fu risposto che la sana fatica teneva lontani gli adulti
dal vizio del bere e i bambini dai guai. Quand'ero
piccolo, cioè poco dopo che gli operai di città
conquistarono il diritto di voto, la legge istituì certe
giornate festive, con grande indignazione delle classi
ricche. Ricordo di aver udito questa frase dalla bocca di
una vecchia duchessa: «Ma che se ne fanno i poveri
delle vacanze? Tanto loro devono lavorare». Oggigiorno
la gente parla con minore franchezza, ma questo modo
di ragionare sussiste ed è fonte di una grande confusione
economica.

Consideriamo per un momento apertamente e senza


superstizioni l'etica del lavoro. Ogni essere umano, per
necessità, consuma nel corso della sua vita una certa
quantità del prodotto della umana fatica. Supponendo,
come lo suppongo io ora, che la fatica sia in sostanza
ben poco piacevole, è ingiusto che un uomo consumi
più di quel che produce. Naturalmente egli può produrre
servizi utili anziché beni materiali, facendo il medico,
ad esempio, ma in ogni caso deve dare qualcosa in
compenso di vitto e alloggio. Fino a questo punto, ma
fino a questo punto soltanto, ammettiamo che il lavoro è
un dovere.

Non insisterò sul fatto che in tutte le società moderne, al


di fuori dell'URSS, molta gente riesce a risparmiarsi
anche questo minimo di lavoro, in particolar modo
coloro che ereditano quattrini o sposano i quattrini. Non
penso però che il fatto che questa gente se ne stia senza
far nulla sia dannoso quanto il credere che i salariati
debbono spezzarsi la schiena lavorando o morire di
fame.

Se il salariato lavorasse quattro ore al giorno, ci sarebbe


una produzione sufficiente per tutti e la disoccupazione
finirebbe, sempre che si ricorra a un minimo di
organizzazione. Questa idea scandalizza la gente
perbene, convinta che i poveri non sappiano che farsene
di tanto tempo libero.

In America molti uomini lavorano intensamente anche


quando hanno quattrini da buttar via; costoro, com'è
naturale, si indignano all'idea di una riduzione
dell'orario di lavoro; secondo la loro opinione l'ozio è la
giusta punizione dei disoccupati; in effetti gli secca di
vedere oziare i propri figli. Ma, cosa strana, mentre
vorrebbero che i figli maschi lavorassero tanto da non
aver il tempo di diventar persone civili, non gli importa
affatto che la moglie e le figlie non facciano nulla dalla
mattina alla sera. L'ammirazione snobistica per i disutili,
che nella società aristocratica si estende ad ambedue i
sessi, nella plutocrazia è limitata alle donne, in contrasto
sempre più stridente col buon senso.

Bisogna ammettere che il saggio uso dell'ozio è un


prodotto della civiltà e dell'educazione. Un uomo che ha
lavorato per molte ore al giorno tutta la sua vita si
annoia se all'improvviso non ha più nulla da fare. Ma, se
non può disporre di una certa quantità di tempo libero,
quello stesso uomo rimane tagliato fuori da molte delle
cose migliori. Non c'è più ragione perché la gran massa
della popolazione debba ora soffrire di questa
privazione; soltanto un ascetismo idiota, e di solito
succedaneo, ci induce a insistere nel lavorare molto
quando non ve n'è più bisogno.

[...]

Il fatto è che il modificare e spostare la materia,


seppure, entro certi limiti, indispensabile alla nostra
esistenza, non è assolutamente uno degli scopi della vita
umana. Se lo fosse, un qualsiasi manovale dovrebbe
essere considerato superiore a Shakespeare. A questo
proposito siamo stati indotti a un equivoco da due
ragioni. La prima è la necessità di gabbare i poveri, che
ha indotto i ricchi, per migliaia di anni, a predicare la
dignità del lavoro, mentre dal canto loro essi si
comportavano in modo ben poco dignitoso sotto questo
aspetto. L'altra è la gioia che ci procurano le macchine e
la soddisfazione che proviamo nel vederle operare
straordinari cambiamenti sulla faccia della terra. Direi
che né l'una né l'altra esercitano un grande fascino sul
comune lavoratore. Se gli chiedete qual è, secondo lui,
la miglior parte della sua vita, è improbabile che vi
risponda: «Sono felice quando mi applico al lavoro
manuale perché sento di compiere uno dei più nobili
compiti dell'uomo e perché mi piace sapere che l'uomo
può far molto per trasformare questo pianeta. È vero che
il mio corpo ha un certo bisogno di riposo che io devo
pur soddisfare in qualche modo, ma non sono mai tanto
felice come quando, al mattino, riprendo in mano gli
attrezzi di lavoro». Non ho mai sentito un operaio dire
una cosa del genere. Egli considera il suo lavoro al
modo giusto, cioè come un mezzo necessario per
procurarsi il sostentamento, e trova invece maggior
gioia e soddisfazione nelle ore di riposo.

Bisogna però dire che, mentre un po' di tempo libero è


piacevole, gli uomini non saprebbero come riempire le
loro giornate se lavorassero soltanto quattro ore su
ventiquattro. Questo problema, innegabile nel mondo
moderno, rappresenta una condanna della nostra civiltà,
giacché non si sarebbe mai presentato nelle epoche
precedenti. Vi era anticamente una capacità di
spensieratezza e di giocosità che è stata in buona misura
soffocata dal culto dell'efficienza. L'uomo moderno
pensa che tutto deve essere fatto in vista di qualcos'altro
e non come fine a se stesso. Le persone più serie, ad
esempio, condannano l'abitudine di andare al cinema e
ripetono di continuo che tale abitudine spingerà i
giovani su una cattiva strada. Però tutto il lavoro
necessario per fare i film è rispettabile appunto in
quanto è un lavoro, e in quanto frutta quattrini. La
convinzione che le attività auspicabili siano quelle che
fruttano quattrini ha messo tutto sottosopra. Il macellaio
che ti procura la carne e il fornaio che ti fornisce il pane
sono persone degne di lode, perché guadagnano; ma se
tu ti accontenti di assaporare il cibo che essi ti hanno
procurato, sei una persona frivola, a meno che tu non
intenda accumulare forze per lavorare. In altre parole, si
ritiene che guadagnare quattrini sia un'ottima cosa e
spenderli un vizio. Il che è assurdo, giacché si tratta dei
due aspetti di una medesima transazione. Si potrebbe
allora sostenere che le chiavi sono un bene e le serrature
un male. Il merito insito nella produzione di beni sta
unicamente nel vantaggio che si ottiene consumandoli.
L'individuo, nella nostra società, lavora per un profitto,
ma lo scopo sociale del suo lavoro sta nella
consumazione di ciò che egli produce. Il divorzio tra
l'individuo e lo scopo sociale della produzione rende
invece molto difficile per gli uomini avere le idee chiare
in un mondo dove assicurarsi profitti è un incentivo
all'operosità. Pensiamo troppo a produrre e troppo poco
a consumare. Ne deriva che diamo troppo poca
importanza al godimento delle gioie più semplici, e non
giudichiamo la produzione in base al piacere che dà al
consumatore.

Quando propongo che le ore lavorative siano ridotte a


quattro, ciò non implica che il tempo libero rimanente
debba essere impiegato in frivolezze. Intendo
semplicemente dire che quattro ore di lavoro al giorno
dovrebbero poter assicurare a un uomo il necessario per
vivere con discreta comodità, e che per il resto egli
potrebbe disporre del suo tempo come meglio crede. In
un sistema sociale di questo genere è essenziale che
l'istruzione sia più completa di quanto lo è ora e che
miri, in parte, ad educare e raffinare il gusto in modo
che un uomo possa sfruttare con intelligenza il proprio
tempo libero. Non alludo qui a quel genere di
occupazioni che si usano definire «intellettuali». Le
danze folcloristiche, ad esempio, sono praticate soltanto
da pochi gruppi di volenterosi, ma gli impulsi che le
fecero nascere debbono pur sempre esistere nella natura
umana. I piaceri della popolazione urbana sono diventati
soprattutto passivi: sedersi in un cinema, assistere a una
partita di calcio, ascoltare la radio e così via. Questa è la
conseguenza del fatto che tutte le energie attive si
esauriscono nel lavoro. Se gli uomini lavorassero meno,
ritroverebbero la capacità di godere i piaceri cui si
partecipa attivamente.

In passato vi era una piccola classe di persone quasi


oziose e una vasta classe di lavoratori. La prima godeva
dei vantaggi che non sono nemmeno contemplati dalla
giustizia sociale, ed era di conseguenza prepotente,
godeva di scarse simpatie e doveva inventare delle
teorie per giustificare i propri privilegi. Questi fattori
diminuirono in modo rilevante la sua eccellenza; ciò
nonostante si può dire che essa contribuì in modo quasi
esclusivo a creare quella che noi chiamiamo civiltà. Fu
questa classe che coltivò le arti e scoprì le scienze, che
scrisse libri, inventò sistemi filosofici e raffinò i rapporti
sociali. Persino la campagna per la liberazione degli
oppressi partì generalmente dall'alto. Senza una classe
oziosa, l'umanità non si sarebbe mai sollevata dalla
barbarie.

Il sistema dell'ereditarietà, che permetteva


all'aristocrazia di tramandare di padre in figlio privilegi
senza doveri, implicò tuttavia un notevole spreco.
Nessuno dei membri di quella classe aveva imparato ad
essere operoso, e tutti, presi nel complesso, non erano
eccezionalmente intelligenti. Tra loro poteva sì nascere
un Darwin, ma sull'altro piatto della bilancia stavano
decine di migliaia di gentiluomini di campagna che non
avevano mai fatto nulla di più ingegnoso che cacciare la
volpe o punire i bracconieri. Attualmente le università
dovrebbero produrre in modo sistematico ciò che la
classe aristocratica produsse accidentalmente e quasi per
caso. Ciò rappresenta un bel passo avanti, ma ha i suoi
inconvenienti. La vita universitaria è così diversa dalla
vita reale in senso lato che chi vive in
un milieu accademico finisce col non rendersi più conto
delle preoccupazioni e dei problemi degli uomini e delle
donne comuni; inoltre il modo di esprimersi dei
professori universitari è tale da impedire che le loro
opinioni abbiano l'influenza che meriterebbero sul
grosso pubblico. Un altro svantaggio è che nelle
università gli studi sono disciplinatissimi, e l'uomo che
segua una linea originale di ricerca rischia di venire
scoraggiato. Le istituzioni accademiche dunque,
sebbene utili, non riescono a proteggere adeguatamente
gli interessi della civiltà in un mondo dove al di fuori
delle mura universitarie tutti sono troppo occupati nel
perseguimento di scopi utilitari.

In un mondo invece dove nessuno sia costretto a


lavorare più di quattro ore al giorno, ogni persona dotata
di curiosità scientifica potrebbe indulgervi, ogni pittore
potrebbe dipingere senza morire di fame, i giovani
scrittori non sarebbero costretti ad attirare su se stessi
l'attenzione con romanzacci sensazionali per procurarsi
l'indipendenza necessaria alla produzione di opere
geniali (che poi non scriveranno più perché, al momento
buono, ne avranno perso il gusto e la capacità). Gli
uomini che nel corso del lavoro professionale si siano
interessati all'economia o ai problemi di governo,
potrebbero sviluppare le loro idee senza quel distacco
accademico che dà un carattere di impraticità a molte
opere degli economisti universitari. I medici avrebbero
il tempo necessario per tenersi al corrente dei progressi
della medicina, e i maestri non lotterebbero
disperatamente per insegnare con monotonia cose che
essi hanno imparato nella loro giovinezza e che, nel
frattempo, potrebbero essersi rivelate false.

Soprattutto ci sarebbe nel mondo molta gioia di vivere


invece di nervi a pezzi, stanchezza e dispepsia. Il lavoro
richiesto a ciascuno sarebbe sufficiente per farci
apprezzare il tempo libero, e non tanto pesante da
esaurirci. E non essendo esausti, non ci limiteremmo a
svaghi passivi e vacui. Almeno l'uno per cento della
popolazione dedicherebbe il tempo non impegnato nel
lavoro professionale a ricerche di utilità pubblica e,
giacché tali ricerche sarebbero disinteressate, nessun
freno verrebbe posto alla originalità delle idee. Ma i
vantaggi di chi dispone di molto tempo libero possono
risultare evidenti anche in casi meno eccezionali.
Uomini e donne di media levatura, avendo l'opportunità
di condurre una vita più felice, diverrebbero più cortesi,
meno esigenti e meno inclini a considerare gli altri con
sospetto. La smania di far la guerra si estinguerebbe in
parte per questa ragione, e in parte perché un conflitto
implicherebbe un aumento di duro lavoro per tutti. Il
buon carattere è, di tutte le qualità morali, quella di cui
il mondo ha più bisogno, e il buon carattere è il risultato
della pace e della sicurezza, non di una vita di dura
lotta. I moderni metodi di produzione hanno reso
possibile la pace e la sicurezza per tutti; noi abbiamo
invece preferito far lavorare troppo molte persone
lasciandone morire di fame altre. Perciò abbiamo
continuato a sprecare tanta energia quanta ne era
necessaria prima dell'invenzione delle macchine; in ciò
siamo stati idioti, ma non c'è ragione per continuare ad
esserlo.

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CAPITOLO II

IL SAPERE »INUTILE«

FRANCESCO BACONE, un uomo che salì alla più alta


fama tradendo i suoi amici, asseriva, senza dubbio in
base a personali esperienze, che «sapere è potere». Ciò
tuttavia non vale per tutto il sapere. Sir Thomas Browne
avrebbe voluto scoprire che cosa cantano le sirene, ma
anche se fosse riuscito a scoprirlo, ciò non gli avrebbe
permesso di assurgere dalla posizione di magistrato a
quella di alto sceriffo della sua contea. La categoria del
sapere che Bacone aveva in mente era quella che noi
chiamiamo scientifica. Dando grande rilievo
all'importanza della scienza, egli seguiva la tradizione
degli arabi e dell'alto medioevo, secondo la quale il
sapere poggiava soprattutto sull'astrologia, sull'alchimia,
sulla farmacologia, che erano tutte branche della
scienza. Era considerato uomo colto chi, avendo seguìto
questi studi, fosse riuscito ad acquistare poteri magici.
All'inizio dell'undicesimo secolo, papa Silvestro II fu
universalmente creduto un mago in combutta col
diavolo soltanto perché leggeva molti libri. Prospero,
che ai tempi di Shakespeare era una creatura di pura
fantasia, rappresentò ciò che per secoli fu considerato il
prototipo dell'uomo colto, almeno per quanto riguardava
i suoi poteri magici. Bacone credeva (e con ragione,
come sappiamo ora) che la scienza potesse fornire una
bacchetta magica molto più potente di quanto l'avessero
mai sognata i negromanti dei tempi antichi.

[...]

Gli svaghi delle moderne popolazioni urbane tendono


sempre più ad essere passivi e collettivi, e consistono
nell'osservazione inattiva dell'abile attività di altri.
Indubbiamente questi svaghi sono meglio di nulla, ma
sarebbero assai più piacevoli se la popolazione, grazie
all'educazione, avesse una gamma di interessi molto più
intelligenti non connessi col lavoro. Una efficiente
organizzazione economica, permettendo alla umanità di
beneficiare della produttività delle macchine, dovrebbe
portare a un graduale aumento del tempo libero, e molto
tempo libero può essere noioso per chi non abbia attività
molto intelligenti. Una popolazione che lavori poco, per
essere felice deve essere istruita, e l'istruzione deve
tener conto delle gioie dello spirito, oltre che dell'utilità
diretta del sapere scientifico.

L'elemento culturale nell'acquisizione del sapere,


quando è bene assimilato, forma il carattere dei pensieri
e dei desideri di un uomo, inducendoli a volgersi,
almeno in parte, verso oggetti impersonali, e non
soltanto verso faccende di immediato interesse per
l'uomo stesso. Si è accettata con troppa facilità l'idea
che quando un uomo ha acquistato determinate capacità
grazie all'istruzione, le userà in un modo socialmente
benefico. Il concetto strettamente utilitario
dell'educazione ignora la necessità di dare un indirizzo
alle intenzioni dell'uomo oltre che alle sue capacità.
Nella natura umana non educata vi è una considerevole
crudeltà che si manifesta in molti modi, piccoli e grandi.
I ragazzi a scuola tendono a maltrattare il nuovo venuto
o chi indossa abiti non convenzionali. Molte donne (e
non pochi uomini) infliggono sofferenze atroci con dei
maligni pettegolezzi. Gli spagnoli si divertono alle
corride, gli inglesi si divertono cacciando e pescando.
Gli stessi impulsi crudeli prendono forme più gravi nella
caccia agli ebrei in Germania e ai kulaki in Russia. Tutti
gli imperialismi trovano pretesti per questi atti di
crudeltà che in tempo di guerra vengono santificati
come la forma più alta di pubblico dovere.

Ora, mentre dobbiamo ammettere che anche persone di


grande cultura sono a volte crudeli, lo sono molto meno
spesso, credo, delle persone la cui mente è un terreno da
dissodare. Lo scolaro prepotente in classe ha raramente
un profitto superiore alla media. Quando si verifica un
linciaggio, i suoi promotori sono invariabilmente
uomini di crassa ignoranza. E ciò non perché coltivando
la mente si sviluppino sentimenti umanitari, sebbene
possa anche essere così; ma perché la cultura ci
suggerisce svaghi diversi dal tormentare il nostro
prossimo, e mezzi diversi dalla prepotenza per
affermare la nostra personalità. Le due cose più
desiderate da tutti sono il potere e l'ammirazione. Gli
uomini ignoranti possono ottenerle, di regola, soltanto
con mezzi brutali, che implicano la conquista della
supremazia fisica. La cultura dà all'uomo forme di
potere meno dannoso e mezzi più meritori per attirare
l'ammirazione. Galileo fece più di quanto qualsiasi
monarca abbia mai fatto per cambiare il mondo, e il suo
potere fu incommensurabilmente superiore a quello dei
suoi persecutori. Egli non aveva perciò alcun bisogno di
diventare un persecutore a sua volta.

Forse il vantaggio più importante del sapere «inutile» è


che esso induce a un abito contemplativo della mente.
C'è nel mondo troppa faciloneria, non soltanto perché si
agisce spesso senza adeguata riflessione, ma anche
perché si agisce a volte anche quando la saggezza
consiglierebbe di non agire. La gente dimostra la
propria indole in queste faccende in molti modi strani.
Mefistofele dice al giovane studente che la teoria è
grigia ma l'albero della vita è verde, e tutti citiamo la
frase come se fosse un'opinione di Goethe e non ciò che,
secondo Goethe, il diavolo avrebbe dovuto dire a uno
studente. Amleto è considerato un terribile monito
contro il pensiero non accompagnato dall'azione, ma
nessuno si accorge che Otello è un monito contro
l'azione non accompagnata dal pensiero. Professori
come Bergson, per una sorta di snobismo verso l'uomo
pratico, rinnegano la filosofia e dicono che la vita nella
sua forma migliore dovrebbe somigliare a una carica di
cavalleria. Dal canto mio, penso che l'azione vale di più
quando deriva da una profonda comprensione
dell'universo e del destino umano, e non da qualche
selvaggio e romantico impulso di sproporzionata
autoaffermazione. L'abitudine di trovar piacere nel
pensiero anziché nell'azione è una salvaguardia contro
la leggerezza e l'eccessivo amore del potere, un mezzo
per conservare la serenità nella sventura e la pace della
mente tra i crucci. Una vita limitata dagli interessi
personali finisce col diventare, presto o tardi,
insopportabilmente penosa. Soltanto spalancando le
finestre su un cosmo più ampio e meno frenetico
possiamo tollerare gli aspetti più tragici dell'esistenza.

L'abito contemplativo della mente ha una vasta gamma


di vantaggi che vanno dal più banale al più profondo.
Prendiamo ad esempio le seccature minori, come la
presenza delle mosche o il fatto che si perda il treno o
l'esser costretti a vivere accanto a un socio d'affari
sempre di malumore. Guai del genere sono ben poca
cosa se si rifletta sull'eccellenza dell'eroismo o sulla
transitorietà dei mali umani, e tuttavia l'irritazione che
provocano rischia di distruggere il buon carattere di
molta gente e la gioia di vivere. In tali occasioni si può
trovare un'ottima consolazione in qualche elemento del
sapere che ha rapporti reali o fantastici con la seccatura
del momento o che, anche se rapporti non ne esistono,
serve a distrarre il corso dei nostri pensieri. Quando
siamo aggrediti da una persona pallida di rabbia, è
piacevole ricordare quel capitolo del Trattato delle
passioni di Descartes intitolato: «Perché coloro che
impallidiscono per la rabbia sono da temersi più di
coloro che arrossiscono». Quando ci si spazientisce per
le difficoltà che intralciano la cooperazione
internazionale, conviene ricordare il santo re Luigi IX, il
quale prima di imbarcarsi per la crociata si alleò col
Vecchio della Montagna, descritto nelle Mille e una
notte come l'oscura origine di ogni umana malvagità.
Quando la rapacità dei capitalisti si fa opprimente, ci si
può consolare rammentando che Bruto, quel raro
esempio di repubblicana virtù, prestò quattrini a una
città al tasso del quaranta per cento e assoldò un esercito
privato per assediarla quando vide che non pagava gli
interessi.

[...]

Mentre i piaceri modesti della cultura hanno il loro


valore perché alleviano le seccature modeste della vita
pratica, i meriti più importanti della contemplazione
sono in rapporto con i mali più gravi dell'esistenza: la
morte, la sofferenza e la crudeltà, e la cieca marcia delle
nazioni verso un inutile disastro. Coloro che non
traggono più conforto dalla religione dogmatica hanno
bisogno di un surrogato perché la vita non diventi arida
e dura e colma di una volgare autoaffermazione. Il
mondo è ora zeppo di gruppi rabbiosamente concentrati
in se stessi, ciascuno incapace di considerare la vita
umana nel suo insieme, ciascuno smanioso di
distruggere la civiltà piuttosto che arretrare di un passo.
Una istruzione tecnica non riuscirà mai a fornire un
antidoto a tanta ristrettezza di vedute. L'antidoto, in
quanto riguarda la psicologia individuale, lo si può
trovare soltanto nella storia, nella biologia,
nell'astronomia, in tutti quegli studi che, senza intaccare
il valore della personalità, consentono all'individuo di
vedere se stesso nella giusta prospettiva. Ciò che
occorre non è questa o quella nozione specifica, ma una
cultura che permetta di comprendere gli scopi della vita
umana in generale: arte e storia, familiarità con le vite di
personaggi eroici, una certa idea della posizione
accidentale ed effimera dell'uomo nel cosmo, il tutto
illuminato con emozione e orgoglio da ciò che è
caratteristicamente umano, la capacità di vedere e di
sapere, la capacità di sentire in modo magnanimo e di
pensare con coscienza. È dalle vaste percezioni
sommate all'emozione impersonale che sgorga
direttamente la saggezza.

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CAPITOLO IV

IL MIDA MODERNO
LA storia di re Mida è nota a chiunque abbia letto
le Tanglewood Tales di Hawthorne. Questo ricco re, che
amava l'oro in modo anormale, ottenne da un dio il
privilegio di trasformare in oro tutto ciò che toccava.
Dapprima ne fu felice, ma quando scoprì che il cibo che
avrebbe voluto mangiare diventava solido metallo prima
che egli potesse inghiottirlo, cominciò a preoccuparsi; e
quando sua figlia diventò una statua allorché egli la
baciò, supplicò atterrito il dio di riprendersi il suo dono.
Da quel momento si rese conto che l'oro non è l'unica
cosa che valga.

Questa storia è molto semplice, ma il mondo non è


ancora riuscito ad afferrarne la morale. Quando gli
spagnoli, nel sedicesimo secolo, si impadronirono
dell'oro del Perù, pensarono di non lasciarselo sfuggire
di mano e ostacolarono in ogni modo l'esportazione dei
metalli preziosi. Come conseguenza il prezzo dell'oro
salì nei domini spagnoli, senza che la Spagna diventasse
con ciò più ricca in beni reali. Può darsi che un uomo
traesse soddisfazione dal sapersi ricco il doppio di
prima, ma con ogni doblone comprava la metà di ciò
che comprava un tempo, il guadagno era soltanto
metafisico e non gli permetteva di mangiare o di bere
meglio, o di avere una casa più bella o altri tangibili
vantaggi. Gli inglesi e gli olandesi, meno potenti degli
spagnoli, dovettero contentarsi di quella che è ora la
parte orientale degli Stati Uniti, un territorio disprezzato
perché non conteneva oro. Ma in seguito tale regione si
rivelò una fonte di ricchezza molto maggiore di quelle
parti del Nuovo Mondo che ai tempi di Elisabetta tutti
desideravano possedere per via delle loro miniere.

Sebbene questo fatto storico sia ormai un dato acquisito,


la sua applicazione ai problemi attuali sembra troppo al
di là delle capacità mentali dei governi. Il tema
dell'economia è sempre stato trattato in modo caotico,
ma ciò è ancor più vero ora che non nei tempi andati.
Quel che accadde in proposito alla fine della guerra è
tanto assurdo da indurci a pensare che i governi fossero
composti di uomini adulti fuggiti da un manicomio.
Volevano punire la Germania, e il modo più ovvio per
farlo era di imporle il pagamento di un'indennità. Glielo
imposero, e fin qui tutto bene. La somma fissata tuttavia
superava di gran lunga non soltanto tutto l'oro esistente
in Germania, ma addirittura tutto l'oro del mondo. Era
perciò matematicamente impossibile che i tedeschi
pagassero se non fornendo beni di consumo.
A questo punto i governi ricordarono improvvisamente
che essi avevano l'abitudine di valutare la prosperità di
una nazione in base all'eccedenza delle sue esportazioni
sulle importazioni. Quando un paese esporta più di
quanto importi, si dice che ha una bilancia commerciale
prospera; nel caso contrario, la sua bilancia
commerciale è in brutte acque. Imponendo alla
Germania un'indennità che non poteva essere pagata in
oro, essi avevano stabilito automaticamente che nel
commercio con gli alleati la Germania avesse una
bilancia commerciale favorevole. Con profondo orrore
scoprirono che, senza averne l'intenzione, avevano fatto
alla Germania un gran favore, incrementando le sue
esportazioni. A questa considerazione di ordine generale
se ne aggiunsero altre più specifiche. La Germania non
produce nulla che non sia prodotto anche dagli alleati e
ovunque si paventava la minaccia della concorrenza
tedesca. Gli inglesi non volevano saperne del carbone
tedesco in un momento in cui la loro industria
carbonifera era depressa. I francesi non volevano
saperne del ferro e dell'acciaio tedesco nel momento in
cui stavano incrementando la loro produzione
siderurgica con l'aiuto della regione lorenese da poco
annessa alla nazione. E così via. Gli alleati dunque, pur
restando ben decisi a punire la Germania facendole
pagare un'indennità, erano parimenti decisi a non
lasciargliela pagare in alcun modo.

A questa situazione pazzesca fu trovata una soluzione


pazzesca. Si decise di imprestare alla Germania ciò che
la Germania stessa doveva pagare.

[...]

Di solito non ci si rende conto che le transazioni


economiche dipendono in gran parte dalle forze armate.
La proprietà della ricchezza si acquista, è vero, anche
con l'abilità negli affari, ma tale abilità è possibile
soltanto se poggia su una solida potenza militare o
navale. Fu con l'uso delle forze armate che New York
venne strappata dagli olandesi agli inglesi, dagli inglesi
agli olandesi e dagli americani agli inglesi. Quando il
petrolio fu scoperto negli Stati Uniti, passò nelle mani
dei cittadini americani; ma quando il petrolio viene
trovato in un paese meno potente, passa, volenti o
nolenti, nelle mani dei cittadini di questa o di quell'altra
grande potenza. Di solito ciò avviene secondo un
processo abilmente mascherato, ma dietro si nasconde la
minaccia di una guerra ed è appunto tale minaccia che
affretta la conclusione dei negoziati.

Ciò che vale per il petrolio vale anche per la valuta e per
i debiti. Quando un governo reputa utile svalutare la
propria moneta o rinnegare i propri debiti, lo fa. Alcune
nazioni, è vero, vantano l'importanza morale implicita
nel pagamento dei debiti, ma si tratta di nazioni che
hanno crediti.

[...]

In Gran Bretagna il conflitto tra ricchi e poveri, che è


stato alla base di ogni divisione di partito dalla fine della
guerra in poi, ha impedito alla maggior parte degli
industriali di capire i problemi della valuta. Giacché la
finanza rappresenta la ricchezza, tutti i ricchi hanno la
tendenza a seguire la guida dei banchieri e dei
finanzieri. In effetti gli interessi dei banchieri
divergevano da quelli degli industriali: la deflazione
faceva comodo ai banchieri, ma paralizzava l'industria
britannica. Non metto in dubbio che se i salariati non
avessero il diritto di voto, la politica britannica dalla
guerra in poi sarebbe stata tutta un'amara lotta tra i
finanzieri e gli industriali. Stando invece le cose come
stavano, i finanzieri e gli industriali si coalizzarono
contro i lavoratori, e il paese arrivò sull'orlo della
rovina. Fu salvato soltanto perché i finanzieri vennero
sconfitti dai francesi.

Non soltanto in Gran Bretagna, ma in tutto il mondo gli


interessi della finanza durante gli ultimi anni
contrastarono con gli interessi pubblici. E pare che
questa situazione non debba cambiare molto presto. Una
comunità moderna non può prosperare se la sua
economia segue soltanto gli interessi dei finanzieri
senza tener conto di quel che accade al resto della
popolazione. Ed è perciò contrario alla saggezza lasciare
che i finanzieri badino indisturbati al loro profitto
privato. Tanto varrebbe amministrare un museo a tutto
vantaggio del curatore, lasciandolo libero di venderne il
contenuto quando gli offrono un buon prezzo. In certe
attività, il profitto privato finisce col tradursi, presto o
tardi, in un vantaggio per tutti, ma in altre invece ciò
non si verifica. La finanza appartiene senza dubbio a
questa seconda categoria, anche se in passato le cose
forse andarono diversamente. E come risultato, il
governo è costretto a interferire sempre più spesso nella
finanza. Sarà dunque necessario considerare finanza e
industria come un tutto inscindibile, e mirare ad
aumentare i profitti di ambedue, non quelli della finanza
soltanto. La finanza è più potente dell'industria se si
mantiene indipendente, ma gli interessi dell'industria
collimano con gli interessi della comunità più di quanto
non accade agli interessi della finanza. Ecco perché il
mondo è giunto in questo vicolo cieco per colpa della
eccessiva potenza della finanza.

[...]

Questa specie di rispetto indiscriminato da parte del


grosso pubblico è appunto ciò di cui il finanziere ha
bisogno per agire senza essere intralciato dalla
democrazia. Naturalmente egli dispone di molti mezzi
per manovrare l'opinione pubblica. Giacché è
immensamente ricco, può sussidiare le università e
assicurarsi così che la maggior parte del corpo
accademico gli sia devota. Giacché è a capo della
plutocrazia, diventa naturalmente il leader di tutti coloro
che vivono dominati dal terrore del comunismo.
Giacché ha nelle mani il potere economico, può
distribuire la prosperità o la miseria come gli pare e
piace. Dubito però che queste armi sarebbero sufficienti
senza l'aiuto della superstizione. Cosa strana, l'economia
pur essendo importantissima per ogni uomo, donna o
bambino, è un argomento che non si insegna mai nelle
scuole, e anche alle università viene studiata da una
minoranza. Peggio ancora, questa minoranza non studia
l'economia come andrebbe studiata se non ci fossero in
ballo interessi politici. Esistono, sì, delle cattedre dalle
quali si insegna l'economia senza travisamenti
plutocratici, ma sono rarissime: di regola si tende a
glorificare lo statu quo economico. Tutto ciò accade,
immagino, perché superstizione e mistero sono utili per
chi ha in mano le redini del potere.<="" a="">

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